martedì 31 marzo 2009

Frammenti - Tocqueville

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"Un uomo nasce, e i suoi primi anni trascorrono oscuramente tra i piaceri o le pene dell'infanzia; poi cresce: comincia l'età virile, le porte del mondo si schiudono, finalmente, per riceverlo, ed il giovane viene a contatto coi suoi simili. E' allora che per la prima volta lo si fa oggetto di analisi, e si crede di veder formarsi in lui il germe dei vizi e delle virtù della maturità. E c'è in ciò, se non prendo abbaglio, un grave errore.
Ritornate al passato, osservate il fanciullo quando è ancora tra le braccia di sua madre, rilevate come il mondo esterno si riflette per la prima volta sullo specchio ancora opaco dell'intelligenza, notate i primi avvenimenti che lo colpiscono, ascoltate attentamente le prime parole che risvegliano in lui le sonnecchianti potenze del pensiero, guardate, finalmente, le prime lotte che deve affrontare: a questo modo soltanto comprenderete da dove vengono i pregiudizi, le abitudini, le passioni, che domineranno tutta la sua vita. L'uomo è, per così dire, già tutto intero nelle fascie della culla.

Qualcosa d'analogo è vero anche per le nazioni. I popoli subiscono sempre l' influenza della loro origine: le circostanze che ne hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo peseranno sempre sul loro destino.
Se fosse possibile risalire fino ai primordi delle società ed esaminare i più antichi monumenti storici, sono sicuro che lì, appunto, potremmo scoprire la causa prima dei pregiudizi, delle abitudini, delle passioni dominanti, di tutto ciò, insomma, che si chiama il carattere nazionale. A questo modo scopriremmo la spiegazione di usi che oggi appaiono contrari alle consuetudini comuni, di leggi che sembrano in contrasto con i princìpi riconosciuti, di opinioni singolari che s'incontrano qua e là nella società come quei frammenti di catene spezzate che vediamo ancora pendere dalle volte di qualche vecchio edificio e che non sostengono più nulla.

A questo modo spiegheremmo il destino di certe nazioni che esse medesime ignorano. Ma finora non si sono potuti scoprire i fatti su cui fondare un simile studio: il gusto dell'indagine analitica si è sviluppato nei popoli a mano a mano che invecchiavano, sì che quando essi si sono interrogati sulle loro origini, il tempo le aveva già circondate di una nube oscura, l' ignoranza e l'orgoglio le avevano avviluppate di favole, dietro le quali la verità si nascondeva.

L' America è il solo paese nel quale si sia potuto assistere allo svolgimento naturale e tranquillo di una società, e dove sia stato possibile precisare la influenza esercitata dal "punto di partenza" sull'avvenire di uno stato."

da "La dèmocratie en Amèrique"


"Quasi tutti i precetti della politica hanno, nelle loro enunciazioni, qualcosa di così generale, di così teorico ed anche di così generico, da rendere difficile il trarne partito nella pratica quotidiana. Si tratta il più delle volte di rimedi la cui utilità dipende prima ancora dal temperamento dell'ammalato che dalla natura della malattia. Pure, io non conosco che un modo solo di accrescere la prosperità di un popolo, un modo solo veramente infallibile e valido dovunque: ed esso consiste nel moltiplicare e nell'agevolare le possibilità di comunicazioni tra gli uomini."

da "La dèmocratie en Amèrique"


"Credo che il decentramento giovi a tutti i paesi; ma nessuno mi sembra averne maggiore necessità di quelli il cui assetto sociale è democratico. In un' aristocrazia si è sempre sicuri di mantenere un minimo di ordine nella libertà: i governanti hanno molto da perdere, e l'ordine è, perciò, uno dei loro maggiori interessi. Si può aggiungere che anche in un regime aristocratico il popolo è al sicuro dagli eccessi del dispotismo, poichè vi sono già delle forze organizzate pronte a resistere ad un despota. Una democrazia senza istituzioni locali non ha, invece, alcuna garanzia contro simili mali: come far sopportare la libertà nelle grandi cose ad una moltitudine che non ha imparato a servirsene nelle piccole? E come opporsi alla tirannide in un paese in cui ogni individuo, preso per sè, è debole ed in cui gli individui non son legati da alcun interesse comune? Coloro che paventano la licenza e quelli che temono il potere assoluto devono, dunque, desiderare tutti lo sviluppo graduale delle libertà locali."

da "La dèmocratie en Amèrique"

martedì 17 marzo 2009

Berlusconeide

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Un' analisi del panorama politico italiano attuale + un' interessantissima psicopatologia delle pulsioni antidemocratiche berlusconiane, entrambe a firma di Edmondo Berselli.

L'illusione al potere
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La forza del governo è l'assenza di una linea politica, sostituita da ricette e idee estemporanee. Berlusconi e il centrodestra non rappresentano infatti alcuna ideologia
di Edmondo Berselli (L'Espresso, 12/03/2009)

Sarà la consapevolezza per cui è lunghissimo il tempo necessario prima di avere a disposizione una rivincita elettorale. Sarà pure la sensazione che l'opposizione è in difficoltà permanente, perché nulla nuoce alle forze politiche, in questa tarda modernità dove si conta molto o non si conta nulla, più dello stare fuori dal circuito del potere. Ma il sospetto che circola è che la società italiana si stia abituando a Silvio Berlusconi, e al suo stile di governo, ciò che va sotto il nome di berlusconismo.

Adesso lo si è capito: Berlusconi e i suoi uomini non rappresentano nessuna ideologia o linea culturale. Il liberismo sbandierato a lungo è diventato un antiliberismo cauteloso, gestito soprattutto dall'abilità di Giulio Tremonti, un maestro nell'instillare negli altri, alleati e avversari, acuti complessi di inferiorità. In questi ultimi tempi, la statura politica di Tremonti è molto aumentata, la sua capacità di descrivere l'andamento della crisi lo ha reso più credibile, e anche alcuni suoi provvedimenti, come i Tremonti bond, nonostante alcuni limiti tecnici difficilmente comprensibili, legati a un tasso d'interesse troppo elevato per le banche, sono apparsi una risposta significativa alla crisi del credito.

Non conta che le doti predittive del ministro dell'Economia siano state contraddette dalle sue misure empiriche (tipo la tassazione sui sovraprofitti delle banche, la Robin Tax, che ora ha assunto un risvolto grottesco). In questo momento la forza del berlusconismo è rappresentata dalla sua sostanziale assenza di linea politica.

Soltanto con sforzi analitici immani sarebbe possibile ricostruire la girandola di provvedimenti veri e presunti che dovrebbero avere movimentato risorse per reagire alla crisi economica. Tanto per dire, la crisi è stata a lungo negata. Poi minimizzata. Attribuita ai processi "autoavverantisi" della comunicazione globale. Adesso, mentre tutto il mondo cerca soluzioni per fare riprendere la circolazione del sangue nel corpo irrigidito del capitalismo tardomoderno, qui da noi Berlusconi ha lanciato un progetto di sostanziale liberalizzazione dell'edilizia, basato sul principio di buon senso antico secondo cui "quando va bene l'edilizia va bene anche tutto il resto".

Se si tratti di un provvedimento salutare lo diranno gli economisti, e se si tratti di un rischio di totale cementificazione del Paese lo chiariranno gli ambientalisti e i tecnici. Nel frattempo però non può sfuggire l'idea che siamo in presenza di una vera e propria invenzione estemporanea: di quelle idee che si formulano di solito nei bar, dove c'è sempre qualcuno che possiede la formula per risolvere problemi estremamente complessi con soluzioni infinitamente semplici.

Semplici sono le soluzioni di Berlusconi, le formule della Gelmini, le ricette di Brunetta. È probabile che non ne funzionerà neanche una, così come non ha funzionato l'invenzione paternalistica della social card, fallita in una serie di traversie tecniche e demografiche. Ma nello stesso tempo si ha l'impressione che proprio la sostanziale mediocrità operativa del governo e dei ministri risulti ben accetta a una parte consistente dell'opinione pubblica.Il governo usa infatti la tecnica manzoniana del 'troncare e sopire', addormenta i conflitti, li orienta verso obiettivi facilmente identificabili come la Cgil, rassicura a parole e con il controllo sempre più stretto della televisione.

Trasmette un messaggio che dice: "Va tutto quasi bene". Il governo lavora, progetta riforme straordinarie, "e grazie alla deflazione gli italiani hanno nel portafogli qualche euro in più". Poi la crisi diventerà più acuta, le riforme straordinarie risulteranno un papocchio, e la crisi si farà sentire di brutto. Ma a meno di catastrofi sociali non augurabili, il consenso non ne risentirà, perché a Berlusconi è riuscita l'operazione di accorpare intorno al Pdl la vecchia Italia corporativa, che non desidera cambiamenti e anzi li teme.

Per scalzare il consenso del blocco berlusconiano ci vuole una fantasia e una forza politica che il Pd non ha. Detto con parole più ottimistiche: non ha ancora.

Ma per risultare minimamente competitivo, il Pd deve formulare un progetto semplice e moderno, capace di mobilitare il consenso dei propri elettori (anche dei delusi, i senza patria, gli esuli, come li ha chiamati Ilvo Diamanti su 'Repubblica') e di parlare a tutto il Paese. Se il centrosinistra non riesce a offrire un'idea alternativa di società, e un'idea convincente, Berlusconi vincerà sempre a mani basse. Perché a sinistra si è sempre scommesso sull'esistenza possibile di un'Italia migliore. Mentre ogni giorno che passa Berlusconi dice agli italiani: "Lo vedete, sono uno di voi".

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PARLAMENTO DI ANIME MORTE
di Edmondo Berselli (La Repubblica, 11/03/2009)

ECCOLA la democrazia berlusconica, cioè la democrazia supersonica. Davanti all' assemblea dei deputati del Pdl, il premier ha chiarito quali sono le riforme istituzionali a cui tiene.

Liquidare i regolamenti parlamentari «inadeguati», riassumere il voto dei singoli nel voto dei capigruppo, in modo da procedere indisturbati all' approvazione delle leggi. Senza dibattiti, con il voto perlopiù nelle commissioni, e l' aula che si riduce a un coro muto.

Il governo decide, e le anime morte guardano. Questa sarebbe la modernità. Una modernità spettrale e per ora solo berlusconiana, dal momento che il presidente della Camera, Gianfranco Fini, poco dopo avere candidato informalmente il premier al Quirinale, ha liquidato con freddezza il nuovo numero del capo del governo.

Ma anche quest' altra sortita del premier, esposta fra storielle di vita vissuta, scherzi sulla sua età, accenni ridenti alle fidanzate del ministro Frattini, inni alla libertà e all' ottimismo, rappresenta un segnale fin troppo chiaro di quale sia la concezione della democrazia nella versione di Berlusconi.

Dunque, efficienza, rapidità, tempestività. Ma non si avverte un sentore, altro che di modernità, di procedure rudimentali, un che di medievalee imperfetto, di corporativo e di vincolante, tutto a scapito delle libere decisioni dei rappresentanti della nazione (per il momento, a rigor di Costituzione, eletti senza vincolo di mandato)?

Sotto questa luce, è inutile perfino addentrarsi nelle tecnicalità, e discutere ad esempio su come si potrebbe svolgere nei fatti il voto in dissenso, e immaginare invece quali forzature si prospetterebbero sulla libertà e la volontà dei singoli nel giudizio parlamentare dei provvedimenti.

Occorre piuttosto prendere atto che Berlusconi persegue un suo disegno di svuotamento delle istituzioni e di restringimento di tutte le sedi di discussione. Lo si era avvertito nei giorni del caso Englaro, con le minacce sul «tornare al popolo» per farsi concedere la possibilità di governare per decreto.

Da tempo circolano voci e sussurri sull' intenzione berlusconiana di cercare il pretesto per una nuova e plebiscitaria investitura elettorale. Ma in realtà non passa giorno senza che affiori un' intenzione tesa al ridimensionamento della rappresentanza. Quindi fra i sorrisi e gli scherzi di ieri si avverte in realtà la violenza di un nuovo strappo, che si aggiunge ai precedenti, e configura un' idea di democrazia tanto suggestiva per il decisionismo berlusconiano e quanto inquietante per tutti gli altri.

Il capo plebiscitato da un popolo "mediatizzato" emana ordini, una sorta di gabinetto consortile dà forma alle leggi, un parlamento anonimo, possibilmente dimezzato negli organici, approva attraverso l' inchino dei suoi rappresentanti. Altro che modernità. Questo è l' ancien régime. Un potere indiscusso che presiede una forma di rappresentanza premoderna, dai diritti depotenziati.

Gli effetti dell' attacco berlusconiano, ora strisciante ora conclamato, sono già prevedibili. In primo luogo risulterà impresentabile qualsiasi progetto di riforma costituzionale, perché anche i cambiamenti in apparenza più ragionevoli, come l' eliminazione del bicameralismo e la riduzione dei parlamentari, si iscriverebbero comunque del disegno voluto da Berlusconi. Allora arriveranno altri strappi, altre lacerazioni, presentate ogni volta sotto il vessillo della razionalità, e brandite provocatoriamente contro l' immobilismo altrui.

Ecco perché nel frattempo si dovrà guardare con serietà e preoccupazione alle elezioni europee. Un altro sfondamento berlusconiano preparerà il terreno a ulteriori «pulsioni autoritarie», come le hanno definite nel Pd. Converrà allora essere consapevoli di quale posta Berlusconi ha messo sul tappeto. Perché, ridendo e scherzando, ci si gioca la qualità democratica della Repubblica.

Giudicare non spetta a me :-P

Un' altra reinterpretazione di una canzone di Fabrizio De Andrè del buon Morgan... Non mi convince fino in fondo, ma lascio il giudizio critico a Sara, che di sicuro prescindendo da valutazioni di diverso ordine saprà definire in modo imparziale il valore della cover! :oP

domenica 15 marzo 2009

Tral-la-la-lal-la, tra-lal-lal-le-ro!

Una bella canzone di De Andrè reinterpretata in modo interessante da Morgan... :o)

sabato 14 marzo 2009

Cosmesi?

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Obama Drops Enemy Combatant Term in Guantanamo Cases
By James Rowley (14/03/2009)

March 13 (Bloomberg) - The Obama administration dropped President George W. Bush’s term “enemy combatant” for suspected terrorists seized after the Sept. 11 attacks and narrowed the definition of who can be detained at Guantanamo Bay, Cuba.

In a court filing today, the
Justice Department revised the Bush administration’s claim of authority to detain people who were “part of or supporting forces engaged in hostilities against the United States or its coalition partners.” The new language said people can be held if they “substantially supported Taliban or al-Qaeda forces” or their associates.

Human-rights activists, who had criticized the Bush administration’s standard as too broad, said the change was merely cosmetic. They had criticized the Bush definition as allowing indefinite detention of anyone suspected of posing a threat to the U.S. in the war against terrorism. More than 240 detainees remain at the Guantanamo naval base.

The new language was sought by a federal judge in Washington overseeing a challenge by group of Guantanamo prisoners to their detention. U.S. District Judge
John Bates gave the government until today to “refine” its definition of enemy combatant for proceeding with the litigation.

Like its predecessor, the Obama administration said the president’s authority to hold people is derived from the resolution passed by Congress after the 2001 al-Qaeda attacks that authorized the use of military force. This “detention authority” is also “informed by principles of laws of war,” government lawyers said.

Broad Authority
In an Oct. 22 Justice Department brief, the Bush administration argued that the laws of war didn’t limit the president’s broad authority conferred by the 2001 resolution. It also asserted that he possessed the power as commander-in-chief to detain enemy combatants.

In a declaration attached to today’s papers, Attorney General
Eric Holder told the court that the Obama administration was reviewing the policies used to hold the detainees. He said the administration would “promptly” determine “the appropriate disposition of detainees held there.”

As a new detainee policy is developed, the U.S. must “operate in a manner that strengthens our national security, is consistent with our values and is governed by law,” Holder said in a statement. “The change we’ve made today meets each of those standards and will make our nation stronger.”

Human rights groups that represent Guantanamo Bay detainees criticized the new definition.

‘Half-Step’

The American Civil Liberties Union’s executive director,
Anthony Romero, called the new language “a half-step in the right direction” that preserves “an overly broad definition” of people the U.S. can detain.

The New York-based
Center for Constitutional Rights, which represents Guantanamo Bay detainees, said in a statement, “The government continues to confuse the right to use military force with the right to detain terror suspects indefinitely.”

The new administration undertook the review as part of the order President
Barack Obama issued within days of taking office to close the Guantanamo Bay prison camp within a year. The review also includes a study of whether to scrap the military tribunals the Bush administration used to try some detainees for war crimes.

As a presidential candidate, Obama has criticized the tribunals as procedurally flawed. Defense lawyers and human- rights groups argued that the tribunals denied accused detainees the right to properly defend themselves. The administration is studying whether to try detainees in federal court, military courts-martial or a revised form of the tribunals.

Court Challenges

More than 200 of the Guantanamo Bay prisoners filed petitions in federal court in Washington to challenge their incarceration.
Those petitions gained new legal force last June when the Supreme Court ruled that Guantanamo Bay detainees had a constitutional right to challenge their incarceration in court.

Stephen Abraham, a retired Army reserve lieutenant colonel who served on Guantanamo tribunals that reviewed inmates’ status, said, “there is absolutely no difference between the new and old definitions.” The enemy combatant term was “discarded because it is no longer necessary,” Abraham said in an e-mail.
The Justice Department didn’t define what would count as “substantial support” of terrorist groups that would qualify someone for detention. It said the definition will have to be developed in individual cases.

That amounts to an assertion by the Obama administration that “we will decide on a case-by-case basis whether a person’s conduct was ‘substantial,’” said Abraham, a lawyer and former Army intelligence officer.

martedì 3 marzo 2009

Il paradigma e i suoi pezzi

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La neolingua del potere
di Giuseppe D'Avanzo (11/10/2008)


La distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione.

Se si ricorda il presagio di Karl Kraus, è indispensabile esaminare nei suoi esiti più radicali la semplificazione del discorso pubblico del governo che appare così vincente e convincente da far sostenere a Edmondo Berselli che «la democrazia contemporanea è più vicina a un format che a un complesso strutturato di regole»;

a Michele Serra che «la sinistra» deve darsi da fare, lungo questa strada semplificatoria, per sopravvivere nell' èra del «pensiero sbrigativo»;

a Marino Niola che «ridotta a format, l' offerta politica contemporanea fa riaffiorare mitologie che appartengono agli strati più remoti della rappresentazione del potere».

Sono riflessioni che hanno il merito di scomporre il paradigma berlusconiano, i suoi gesti, comportamenti e modalità (cinque in condotta in luogo della riforma della scuola e della didattica; fannulloni in luogo di un più moderno disegno di pubblica amministrazione).

Credo tuttavia che il ragionamento sarebbe monco se non ci chiedessimo anche che cosa cova quella diluizione superficiale del linguaggio. A mio avviso, questo può, deve essere l' altro focus della discussione: quale pensiero, potere e democrazia annuncia quell' alienazione della parola che, colonizzati dalla cultura televisiva, diciamo format? Quella lingua, che non riconosce alcuno statuto alla realtà, che riduce drasticamente ogni complessità (anche lessicale), è soltanto una mera tecnica di consenso o custodisce di più: una strategia e addirittura un destino politico? Temo che l' entusiasmo per le magie del marketing politico trascuri pericolosamente l' «Ospite Indesiderato» che, nascosto nel format, bussa alla porta della nostra democrazia.

Desiderosi di consigliare a un' opposizione impotente e muta i modi di una «narrazione» efficace e spendibile al Mercato della Politica diventata Spettacolo e nuovo Leviatano non scorgiamo - quanto non ne ignoriamo - le implicazioni. Omettiamo l' essenziale. Non avvertiamo che la semplificazione brutale del linguaggio della politica cancella ogni spazio politico.

Qui si potrebbe farla lunga. Citare Aristotele. Ricordare che l' uomo è animale politico perché parla. «L' uomo è zoon politikon, ma è tale perché echon logon. E' animale politico perché linguistico: è la comunicazione a gettarlo nella Polis. Imparare a parlare significa cominciare a obbedire alle leggi non scritte della Città. Più precisamente, significa cominciare a prendere partito, ad appartenere e a escludere, a tracciare dei confini» (Rocco Ronchi, "Parlare in neolingua" nel prezioso Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, utilissimo con i suoi 16 saggi, curati da Massimo Recalcati, per affrontare i temi in discussione).

E' il parlare dunque, è il linguaggio che ci consente di abitare nel «regno del politico». A quest' abitare, se libero, deve essere concesso di esitare. L' esitazione della risposta è la consapevolezza di chi parla della «posta in gioco». Implica una decisione. Dispone chi parla in uno spazio preciso del luogo comune. Risolve una relazione con gli altri che lo ascoltano.

In questo senso, il linguaggio è un dono (munus) ma anche legame e obbligo perché come il dono, come il dovere, il linguaggio fonda la communitas. Quando la consapevolezza di chi parla, la sua libertà (svelata dall' esitazione) è eliminata a vantaggio di un riflesso automatico, «alla communitas si sostituisce la caserma, al socius il camerata».

La semplificazione (il format) allora non è soltanto una «tecnica» che evoca le «buone vecchie cose di un tempo» (la maestra, il grembiule di scuola fresco di bucato, l' impiegato operoso), è un modulo assertivo, mai dialogico che dispiega una forza ingiuntiva, imperativa. E' come un tic automatico. E' un logo. Come ogni logo, attiva una memoria automatica, un riconoscimento senza immagine, un assenso senza riflessione, un consenso senza esitazione.

Questa modularizzazione del linguaggio, la sua meccanicità presuppone la conoscenza come una maledizione, il registro del reale come irrilevante, il pensiero come un' infezione. «La profilassi comincia dal vocabolario» che s' impoverisce, rinsecca fino a diventare slogan come nella pubblicità, marchio come nella grafica.

Chiunque di noi può combinare un catalogo dei «moduli» della neolingua del Berlusconi politico. Successo Comunisti Produttività Teorema giudiziario Efficienza Legittimità Decisione Mercato Italianità Sicurezza sono oggi loghi che attivano riflessi robotizzati. Appaiono «oggettivi». La loro necessità e valore è fuori discussione. Costituiscono - si può dire rubando ancora le parole a Ronchi - «le premesse assiomatiche della conversazione pubblica.

E come accade ai principi primi di ogni dimostrazione, sono sottratti ab aeterno a ogni razionale discussione». Sono più o meno degli ordini che escludono ogni libero consenso o lecito dissenso. Eliminano un luogo comune e quindi ogni dubbio, esitazione, libertà cancellando di fatto lo spazio politico. Sono «aut disgiuntivi»: o si è dentro o si è fuori; o si è incondizionatamente amico o incondizionatamente nemico: o si è per il bene o per il male.

Quando il linguaggio si semplifica fino a ridursi a riflesso che rimuove ogni pensiero pensante, a risposta che anticipa il tempo della riflessione soggettiva (non è diventato «criminale» un sinonimo di «immigrato»?) si finisce per annullare la dicotomia oppositiva assenso/dissenso che definisce i regimi democratici o autoritari.

Il format, la semplificazione del discorso del governo non è soltanto una tecnica di marketing politico. Ci si può vedere senza sforzo qualcosa di peggio: una tendenza totalitaria. Nella fascinazione che suscita anche in spiriti liberi mi sembra di scorgere un offuscamento che inquieta, come un' oscurantista dipendenza a una deriva immaginaria che lavora a mano libera scenari posticci, che manipola il rapporto tra la realtà e la finzione (già realizzato e controllato dal potere ideologico e spettacolare della propaganda totalitaria del Novecento).

Come spiegare in altro modo la rappresentazione - non contestata da alcuno, se non sbaglio - di un uomo di 72 anni, già fiaccato nelle sue energie vitali da un cancro alla prostata e da un intervento chirurgico assai invasivo, come un immortale «padre totemico» che riposa tre ore a notte e fa l' amore per altre tre, prima di rimettersi al lavoro nelle altre diciotto per risolvere i problemi dell' Italia, le difficoltà dell' Occidente, la crisi del Milan?

Come definire questo stato ipnotico che ci impedisce di scorgere il grottesco di questa scena? Il format che ci vieta di riderne pubblicamente non è «un' invenzione culturale», è un esercizio di potere che svela una vocazione totalitaria. E' un dispositivo politico capace di rimuovere ciò che vediamo, sappiamo, conosciamo, tocchiamo.

E' la manifestazione di un potere che riscrive sotto i nostri occhi la realtà («il reale esiste»); distrugge il linguaggio riducendolo ad automaton incondizionato; ci sottrae l' esperienza e la capacità di prendere posizione. Non dovrebbe essere una sorpresa il consenso anche vasto, anche «imbarazzante» che raccoglie. Sempre «il legame totalitario è la risposta paradossale ad alcuni bisogni, spesso indotti». Non c' è sempre bisogno di polizia e terrore, di violenza assoluta. Il lavoro sulla psiche è più efficace.

E' proprio di quel dispositivo creare il mondo e proporsi come il garante della sicurezza e della prosperità del popolo. Il processo di dipendenza tra psiche e politica è assicurato se si inventa una condizione perenne di insicurezza, uno stato permanente di emergenza (l' immigrazione, la giustizia, l' italianità minacciata, la scuola) per offrire una protezione totalizzante. Come accettiamo l' indistruttibile vitalità del «padre totemico», come accogliamo un grembiule come se risolvesse i problemi dell' educazione, acconsentiamo a quello scenario di finzione e alla moltiplicazione delle strategie di controllo e di prevenzione che seguono.

Prigionieri di un vocabolario impoverito - per profilassi - delle cose e del pensiero «infetto», finiamo per considerare il corpo sociale come un corpo malato e le decisioni del governo come una terapia finalizzata a restituirne la salute aggredita da una tossicità interna (l' opposizione, gli stranieri scuri di pelle, i magistrati, i fannulloni, il sindacato, l' informazione).

Il linguaggio diventato logo e riflesso impedisce di vedere come quei «marchi» giustifichino sempre di più pratiche di controllo minuziose (i militari nel centro della città, i vigili urbani in armi); un esercizio del potere illimitato privo di trasparenza e contrappesi (decreti con forza di legge, immunità per chi governa, parlamento servile, autorità indipendenti sospese nelle funzioni); un' invasività nel privato dell' azione disciplinare del potere (intercettazioni preventive, divieto di sesso a pagamento, divieto di trasportare mercanzia con sacchi di plastica, divieto di stendersi sull' erba di un prato in un parco).

La semplificazione del linguaggio (il format) non è la chiave di un successo politico, magari da imitare come copione da recitare se la sinistra vuole chiudere con le sconfitte: è il presupposto che ridisegna il rapporto tra libertà e politica. Proprio perché la distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione, mi chiederei allora che cosa sarà distrutto domani, dove la tentazione totalitaria ha cominciato a lavorare oggi.

«Totalitarismo», lo so, è una di quelle parole espulse con disprezzo dal discorso pubblico e tuttavia se si guarda al dibattito filosofico e politico - discussione che si svolge a luci spente, lontano dal rumore dei media - interrogare le forme contemporanee dei totalitarismi post-ideologici nelle società a capitalismo avanzato non è per nulla indecente o fesso o volgare. Al contrario, è opportuno. E' onesto. E' urgente.

E' legittimo. Non si tratta naturalmente, come osserva Simona Forti ("Il Grande Corpo della totalità" ancora in Forme), di «opporre - a una democrazia - un regime politico» o di considerare il totalitarismo «come mostro politico» perché «non esiste nessuna muraglia né giuridica né istituzionale, né tanto meno filosofico-culturale, che separa la democrazia dal regime totalitario». Il totalitarismo non minaccia dall' esterno la democrazia.

E' , scrive Forti, «l' indesiderato ospite che bussa di continuo alla sua porta», «è una risposta estrema alle questioni che la modernità politica pone e non può risolvere. Non solo allora il totalitarismo è un' esperienza moderna, ma è un possibile sbocco della democrazia. Una forma di società che reagisce alla debolezza costitutiva dell' invenzione democratica, alla sua indeterminatezza, alla sua apertura verso il vuoto, in una parola alla libertà».

Per comprendere se l' Ospite Indesiderato abita accanto a noi, dentro di noi, bisogna allora investigare le debolezze della nostra democrazia, le angosce della società italiana, l' insufficienza di equilibri e assetti (esistenziali, istituzionali, politici, culturali). E' nello scarto tra la modernità dei problemi, lo smarrimento sociale che provocano, l' angoscia delle domande e l' inadeguatezza delle risposte collettive e politiche, che si aprono i varchi dove si fa largo e attecchisce una «mentalità totalitaria» e una tecnica di potere che, al contrario del Novecento, non ha più alcun contenuto ideologico.

Una verifica della presenza dell' Ospite nella nostra democrazia deve esplorare la relazione essenziale del totalitarismo con la libertà (e il linguaggio, abbiamo visto, n' è la prima vittima) perché è un totalitarismo che non si costituisce più esplicitamente, visibilmente come violenza e terrore e distruzione dell' Altro, ma più occultamente «lavora» (ancora Forti) nel nesso tra vita umana e potere politico; nelle modalità del rapporto tra realtà e finzione; nell' assenza di strumenti idonei per orientarci tra il bene e il male, di definizioni, orientamenti, consapevolezze che oggi ci impediscono anche di riconoscerlo il male, di averne un' idea, un pensiero. Ora sono queste le dannate sfide che attendono la sinistra, non lo scimmiottamento del «padre totemico», della sua neolingua totalitaria.