sabato 17 aprile 2010

Collapsing tower

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A sorpresa arriva il colpo più duro per gli inaffondabili di Wall Street
Finora la banca d'affari era uscita indenne da una lunga catena di scandali. Nella crisi della Grecia la merchant ha aiutato Atene a nascondere l'entità del deficit
da "La Repubblica" del 17/04/2010 - di Federico Rampini

NEW YORK - È la resa dei conti finale con Wall Street. La Sec incrimina per frode Goldman Sachs.
L'accusa per la più potente delle banche americane è infamante: aver venduto ai propri clienti dei prodotti finanziari speculando al tempo stesso contro di loro, per guadagnare dalle loro perdite.

Ai clienti la banca nascose la propria complicità con lo hedge fund di John Paulson, che aveva visto arrivare il crollo del 2007-2008, e con le proprie puntate ribassiste guadagnò 15 miliardi di dollari.

Al centro dello scandalo c'è Abacus 2007-AC1, il nome cifrato di un titolo complesso che la banca rifilava ai propri clienti, anche grandi istituzioni finanziarie internazionali. Senza dirgli che quel sofisticato congegno era come un aereo progettato per precipitare. I clienti, pur avendo pagato biglietti di prima classe, erano le vittime designate di un disastro. Altri avrebbero intascato i premi sull'assicurazione.
Che Goldman Sachs avesse fatto un gioco sporco durante la crisi, era materia di inchieste sui giornali da molti mesi. Il fatto che ieri la Sec (il guardiano della Borsa) sia arrivata a "inchiodarla" vuol dire molto. Segna l'avvio del vero processo ai profittatori della crisi.

La cannonata sparata dalla Sec ha spaventato i mercati di tutto il mondo perché intuiscono che può essere l'inizio di un'offensiva generale. L'oggetto della frode illustrato nell'inchiesta della Sec è solo uno di 25 titoli simili che Goldman aveva confezionato. Inoltre anche altre banche fecero operazioni simili. Perciò ieri sono crollati in Borsa i titoli di Morgan Stanely, Citigroup, e di grandi istituti europei.
Partendo da Goldman le autorità americane hanno centrato l'obiettivo più pregiato, il simbolo più forte. Una fortezza che sembrava onnipotente, inespugnabile. Goldman Sachs era passata indenne attraverso una incredibile sequenza di scandali.

E' stata accusata di conflitti d'interessi durante tutti i sussulti del collasso dei mercati: tra i più importanti c'è la "partita di giro" che ha portato nelle casse di Goldman dei fondi pubblici di Washington destinati al salvataggio del colosso assicurativo Aig (una bancarotta costata fin qui 180 miliardi di dollari al contribuente).

C'è lo scandalo dei superbonus: all'uscita dalla grande recessione il suo presidente si è concesso 9 milioni di gratifica, in un'America che per colpa dei banchieri ha visto salire al 10% la sua disoccupazione.

Perfino nella crisi della Grecia c'è lo zampino di Goldman, è questa banca che ha aiutato i governi di Atene a nascondere l'entità dei suoi deficit alla Commissione europea, con spericolate operazioni di finanza creativa.

E ci sono state le piroette disinvolte con cui il colosso di wall Street ha cambiato "ragione sociale" per dribblare le leggi del suo paese: si convertì in una ordinaria banca di depositi quando faceva comodo avere lo scudo governativo nella fase di panico dei mercati; per poi tornare ad essere una banca d'investimenti dopo la bufera, in modo da non sottostare a regole sugli stipendi.
Eppure nulla scalfiva la sua corazza. Anzi, aumentava il mito dell'invincibilità di Goldman Sachs. Un mito edificato in decenni di paziente scalata al potere politico. Perché la Goldman Sachs non è solo una potenza della finanza. E' diventata un pezzo di establishment amministrativo. Una fucina della classe dirigente americana. Il vivaio a cui governi di ogni colore dovevano attingere se volevano avere dalla propria parte i maghi dei mercati, i dominatori del capitalismo globale.

Goldman Sachs "prestò" alla nazione i servizi dei suoi due top manager Bob Rubin e Hank Paulson, segretari al Tesoro con Bill Clinton e George Bush. Una inaudita occupazione del dicastero più importante. Ci hanno riprovato con Barack Obama, e ci sono arrivati vicini.
Riuscirono a piazzargli lo stesso Rubin ai fianchi, come ispiratore della sua squadra economica durante la campagna elettorale. Anche il segretario al Tesoro Tim Geithner, pur essendo un uomo della banca centrale, si era lasciato "accerchiare" da quelli di Wall Street.

Poi Obama ha capito la trappola. Rischiava di pagare un prezzo politico pesante. In una fase in cui l'opinione pubblica di sinistra e di destra ha la sensazione che i costi di questa crisi siano stati ripartiti in modo iniquo, la Casa Bianca non poteva sembrare in collusione con i potentati della finanza.

Obama si è divincolato dall'abbraccio dei banchieri. Ha lanciato la sua offensiva sulla riforma dei mercati. Con delle proposte antitetiche agli interessi di Goldman: dalla "tassa di responsabilità" ai forti limiti contro la speculazione sui derivati. I banchieri hanno creduto di poter giocare la vecchia partita, secondo le loro regole: hanno assoldato i migliori lobbisti di Washington, hanno ingaggiato i repubblicani nell'ostruzionismo. Non avevano visto arrivare la tempesta che stava per abbattersi su di loro.

Fino a ieri, sembrava che nella rete dei tribunali dovessero finire solo figure criminal-folcloristiche della grande crisi, i truffatori alla Madoff. Ora tocca ai Padroni dell'Universo.

giovedì 8 aprile 2010

Il parlamento, le "piccole patrie" e il turismo dei diritti


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Il turismo dei diritti
di Stefano Rodotà - da La Repubblica dell'8/04/2010

Strane parole percorrono l' Italia. "Federalismo etico" è una formula che descrive bene non solo un clima, ma una deriva istituzionale già avviata e che può dare il vero tono all' annunciata stagione delle riforme.

Quando il neopresidente del Piemonte ha parlato di pillole RU 486 che sarebbero "rimaste in magazzino", si è materializzata davanti ai nostri occhi un' Italia nella quale i diritti fondamentali non sono più un patrimonio che accompagna ogni persona, quale che sia il luogo in cui si trova.

Ma dipendono dalla regione in cui vive, dai capricci della maggioranza d' un momento. Non è una novità in assoluto. Ricordate le ultime fasi della drammatica vicenda Englaro, quando i suoi familiari erano alla ricerca di una struttura ospedaliera dove Eluana potesse trovare quella morte dignitosa che i giudici avevano riconosciuto essere un suo diritto? Il presidente della Lombardia levò alte mura intorno alla sua regione, mentre la presidente del Piemonte correttamente disse che non si sarebbe opposta al ricovero.

I giudici amministrativi ritennero illegittima la decisione di Formigoni, ma una rottura si era già consumata e una autorità istituzionale aveva detto ai cittadini che i diritti non erano più diritti, ma l' esito incerto di un peregrinare da regione a regione, di un inedito "turismo dei diritti" non più verso paesi più liberali, ma all' interno dello stesso territorio nazionale.

Vale la pena di aggiungere che assume un bel valore simbolico il fatto che il nuovo annuncio sia venuto proprio da quel Piemonte dove Mercedes Bresso aveva mostrato come le istituzioni debbano rispettare legalità e diritti e che oggi, invece, si allinea su ben altre posizioni (si può suggerire una onesta riflessione agli intelligentissimi politici che continuano a trincerarsi dietro lo schema che vuole sostanzialmente identici i candidati di destra e di sinistra?).

Vero è che la stessa maggioranza ha reagito alle parole di Roberto Cota, e che questi si è prevedibilmente affrettato a dire d' essere stato male interpretato. Ma quelle parole sono comunque rivelatrici di un profondo "spirito di governo", tanto che avevano trovato eco immediata in dichiarazioni dei presidenti di Lombardia e Veneto, così mostrando di quale pasta rischi d' essere fatto il nuovo "vento del nord" che comincia a spirare dopo l' annessione del Piemonte al Lombardo-Veneto.

Mentre, infatti, si discuteva intorno alla pillola RU 486, sono tornate con forza le proposte di riservare l' insegnamento nelle scuole pubbliche a professori autoctoni, che sarebbero gli unici in grado di trasmettere agli studenti "i valori del territorio".

Questo è solo un esempio dei molti tentativi di localizzare, di riservare ai nativi quel che dovrebbe appartenere a ogni cittadino, tentativi che sicuramente si intensificheranno dopo l' esito elettorale. Un' Italia di "gabbie" ben più discriminanti delle vecchie gabbie salariali? Un' Italia in cui si passa dall' inclusione di tutti all' esclusione selettiva basata sulla nascita o sulla residenza?

Quando si riformò frettolosamente il titolo V della Costituzione per introdurre elementi di federalismo, si era comunque consapevoli dei problemi che potevano nascere proprio per il rispetto dei diritti. Si stabilì che la potestà legislativa delle regioni deve essere esercitata "nel rispetto della Costituzione"; che spetta allo Stato determinare i "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale"e assicurare che ciò avvenga "prescindendo dai confini territoriali dei governi locali"; che le regioni non possono adottare "provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone tra le regioni, né limitare l' esercizio del diritto al lavoro in qualsiasi parte del territorio nazionale".

Mai come in questo momento, e non solo in Italia, il rispetto dei principi costituzionali, delle libertà e dei diritti delle persone si presenta come il criterio di base per valutare la legittimità di qualsiasi azione politica.

I casi ricordati prima ci parlano di un principio d' eguaglianza sempre più respinto sul fondo, e della consapevole creazione di nuove diseguaglianze; della trasformazione di diritti fondamentali, come quello alla salute, in situazioni precarie, affidate alla discrezionalità politica; di una cittadinanza che, invece di essere proiettata al di là d' ogni confine, viene rimpicciolita nelle "piccole patrie".

A tutto questo dobbiamo prestare attenzione, perché qui si realizza una riforma costituzionale strisciante, una manomissione di quella prima parte della Costituzione definita, a parole, intoccabile.

Qui si contribuisce a determinare una agenda politica che integra quella dettata dal presidente del Consiglio. Berlusconi ha detto che i prossimi mesi dovranno essere dedicati alla riforma della giustizia e delle intercettazioni, alla riforma fiscale e a quella costituzionale, al presidenzialismo in primo luogo. E a questo si deve aggiungere la ripresa della discussione sulla legge sul testamento biologico. Sono tutte questioni che si prestano assai ad essere valutate proprio con il metro dei diritti fondamentali.

Parto da un esempio concreto. L' articolo 13 della Costituzione dice che la libertà personaleè inviolabile, ma può essere limitata "per atto motivato dell' autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge". Ma che cosa accade quando il Parlamentoè ridotto al silenzio, obbligato a mettere un timbro su leggi in contrasto con i principi costituzionali, e si annunciano riforme che incideranno sull' autonomia della magistratura? Nelle apparenze la garanzia della libertà personale non è toccata, nella sostanza è svuotata.

La distorsione delle garanzie costituzionali è davanti a noi, e rischia di trovare gravi manifestazioni in due leggi che dovrebbero essere approvate in breve tempo.

Quella sulle intercettazioni viene giustificata con la necessità di rispettare la libertà e la segretezza delle comunicazioni: ma questo giusto obiettivo può essere realizzato vietando la diffusione di quel che è estraneo alle indagini, senza limitare i poteri della magistratura e il diritto d' informazione.

Il testo sul testamento biologico, all' esame della Camera, travolgerebbe il diritto all' autodeterminazione delle persone fondato sull' articolo 32 della Costituzione e ribadito con chiarezza dalla Corte costituzionale.

E temo che, dopo le prove generali di reciproco consenso tra maggioranza e Vaticano intorno alla pillola RU 486, proprio la legge sul testamento biologico possa rappresentare il dono che governo e maggioranza intendono fare alla Chiesa, per cementare una alleanza (e accettare una sottomissione).

Che la bussola dei diritti fondamentali non debba mai essere perduta ce lo ha ricordato il presidente della Repubblica non firmando una legge che fa venir meno garanzie essenziali per i lavoratori.

L' identità costituzionale si costruisce in primo luogo intorno al rispetto di libertà e diritti, indispensabile non solo per la tutela dei singoli, ma per evitare ogni slittamento verso forme di autoritarismo. Ricordiamolo nel momento in cui questo è lo spirito con il quale gran parte della maggioranza propone un mutamento di regime, abbandonando quello parlamentare per approdare frettolosamente al presidenzialismo.

Una domanda, a questo punto, nello spirito di quelle poste da Ezio Mauro a conclusione del suo ultimo editoriale.

L' agenda politica è monopolio della maggioranza, l' opposizione è obbligata a giocare solo in contropiede o può dire la sua, come fece Berlusconi ai tempi dei governi di centrosinistra?

Per cambiare l' agenda politica non basta suggerire temi importanti. Indico tre vie possibili.

L' uso intelligente del referendum, ma non nella forma che chiamerei, con tutto il rispetto, del referendum-ripicca, per reagire sempre in contropiede a leggi magari indecenti, ma per porre grandi questioni collettive, come sta accadendo con il referendum sull' acqua come bene comune.

L' uso intelligente di Internet come strumento di mobilitazione continua, per sollecitare e accompagnare discussioni e iniziative legislative, cercando così di rivitalizzare anche il rapporto tra Parlamentoe cittadini.

L' uso intelligente dei regolamenti parlamentari che riservano all' opposizione tempi per la discussione di loro proposte: meglio farsi dire di no dopo aver creato attenzione nell' opinione pubblica che farsi poi accusare di non aver fatto nulla.

domenica 28 marzo 2010

Quando carta canta.

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Brano tratto dall' EPISTULA a Congregatione pro Doctrina Fidei missa ad totius Catholicae Ecclesiae Episcopos aliosque Ordinarios et Hierarchas interesse habentes: DE DELICTIS GRAVIORIBUS eidem Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis

Romae, e sede Congregationis pro Doctrina Fidei, die 18 maii 2001. .

+ JOSEPHUS Card. RATZINGER - Praefectus

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+ Tharsicius BERTONE, S.D.B. - archiep. em. Vercellensis a Secretis

Delictum contra mores, videlicet: delictum contra sextum Decalogi praeceptum cum minore infra aetatem duodeviginti annorum a clerico commissum.

Haec tantum, quae supra indicantur delicta cum sua definitione, Congregationis pro Doctrina Fidei Tribunali Apostolico reservantur.

Quoties Ordinarius vel Hierarcha notitiam saltem verisimilem habeat de delicto reservato, investigatione praevia peracta, eam significet Congregationi pro Doctrina Fidei quae, nisi ob peculiaria rerum adiuncta causam sibi advocet, Ordinarium vel Hierarcham per proprium Tribunal ad ulteriora procedere iubet opportunas normas tradendo; ius appellandi contra sententiam primi gradus, sive ex parte rei vel eius Patroni sive ex parte Promotoris Iustitiae, valide unice manet tantummodo ad Supremum Tribunal eiusdem Congregationis.

Notandum est actionem criminalem de delictis Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis praescriptione extingui decennio. Praescriptio decurrit ad normam iuris universalis et communis; in delicto autem cum minore a clerico patrato praescriptio decurrere incipit a die quo minor duodevicesimum aetatis annum explevit.

In Tribunalibus apud Ordinarios vel Hierarchas constitutis, hisce pro causis munera Iudicis, Promotoris Iustitiae, Notarii atque Patroni tantummodo sacerdotes valide explere possunt. Instantia in Tribunali quovis modo finita, omnia acta causae ad Congregationem pro Doctrina Fidei ex officio quam primum transmittantur.

Tribunalia omnia Ecclesiae Latinae et Ecclesiarum Orientalium Catholicarum tenentur canones de delictis et poenis necnon de processu poenali utriusque Codicis respective observare una cum normis specialibus a Congregatione pro Doctrina Fidei pro singulo casu tradendis et omnino ad exsecutionem mandandis.

Huiusmodi causae secreto pontificio subiectae sunt.

sabato 6 marzo 2010

Desertec - Atto secondo

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Desertec, progetto al via - Ora c'è un posto al sole anche per Enel e Terna
da "La Repubblica" del 1/03/2010 - di Luca Pagni

Fino a ora è sventolata solo la bandiera della Germania. Un progetto nato dalla collaborazione di dodici tra compagnie elettriche, produttori di rinnovabili e istituti di credito del calibro di Commerzbank, tutte rigorosamente tedesche.

Ma fra poche settimane, Desertec, l' avveniristico progetto da 400 miliardi di euro per la realizzazione nel deserto del Sahara di impianti solari in grado di generare il 15% del fabbisogno energetico dell' Europa, parlerà anche altre lingue.

A cominciare dall' italiano. Si sono oramai conclusi i colloqui che porteranno anche Enel a far parte del consorzio che dedicherà i prossimi tra anni a studiare la fattibilità del progetto: il primo passo concreto per la realizzazione delle centrali, che vedranno tra i protagonisti altre utility di primo piano nel Vecchio Continente.

Oltre a Enel, ci sarà il suo più diretto concorrente, il colosso francese Edf; cui si aggiungeranno con tutta probabilità anche gli spagnoli di RedElectrica, la più importante società iberica di trasmissione di energia.

Che andranno così ad affiancare i tedeschi di E.On e di Siemens, tra i promotori del consorzio originario. A confermare, l' interesse di Enel nell' operazione Desertec è Roberto Deambrogio, responsabile del business development di Enel Green Power, lo spin off in cui l' ex monopolista italiano ha raggruppato tutti gli impianti delle rinnovabili e che entro l' estate dovrebbe approdare in Borsa.

Da tecnico, Deambrogio è il più indicato a spiegare quale sarà la particolarità del progetto che non prevede, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la presenza di impianti fotovoltaici, ma di più semplici specchi. Per intenderci, sul modello di quelli utilizzati da Archimede per difendere Siracusa dall' assedio delle legioni romane.

«Desertec prevede che la conversione di energia solare in energia elettrica possa avvenire attraverso due tecnologie: quella fotovoltaica e quella a concentrazione. La prima converte le radiazioni solari direttamente in energia elettrica attraverso pannelli mentre quella a concentrazione prevede la raccolta e la concentrazione dei raggi solari attraverso specchi per la produzione di vapore che sarà inviato a turbine per la produzione di energia elettrica».

Con l' utilizzo degli specchi c' è anche un altro vantaggio: «La tecnologia a concentrazione attraverso l' utilizzo di sali fusi come fluido termodinamico spiega ancora Deambrogio può permettere l' immagazzinamento di energia solare e la sua trasformazione in energia elettrica in assenza di sole, quindi, anche di notte».

Accolto con qualche scetticismo a metà dell' anno scorso, Desertec è diventato uno di quei progetti in cui è meglio esserci che pentirsi poi di non averci nemmeno provato.

A spaventare non sono tanto i costi (stima attuale: oltre 400 miliardi di euro da qui al 2050), quanto le difficoltà tecniche e anche geopolitiche. Perché prima di tutto occorre scegliere l' area degli insediamenti delle centrali solari, che a lavori conclusi raggiungeranno una superficie pari a un quadrato di 50 per 50 chilometri. Al momento, solo Marocco e Tunisia offrono buone garanzie. Non così la Libia del colonnello Gheddafi. E nemmeno Algeria ed Egitto sono esenti da rischi di ordine pubblico, vista la presenza di agguerriti gruppi legati all' estremismo islamico. Non è escluso che i primi impianti siano realizzati in Marocco, dove si trovano i centri abitati più vicini alle aree desertiche, ma in prossimità anche agli acquedotti. Perché la disponibilità d' acqua necessaria per tenere puliti gli specchi dalla sabbia è fondamentale quanto la messa in sicurezza da attentati e dai furti.

Altro problema tecnico è rappresentato dal trasporto dell' energia: come far arrivare i kilowattora prodotti nel Sahara fino alle coste europee visto che l' unico cavo che al momento collega le due sponde si trova tra la Spagna e il Marocco? Sarà inevitabile moltiplicare le linee, tanto è vero che dei 400 miliardi preventivati 35 sono proprio destinati allo sviluppo della rete di trasmissione. Un ambito in cui l' Italia, per la sua posizione geografica, giocherà un ruolo di primo piano.

Potrebbero essere della partita anche Terna, la società che gestisce il 95% della rete elettrica del nostra Paese, nonché Prysmian (l' ex Pirelli Cavi che ora ha un fondo di Goldman Sachs come principale azionista) nella realizzazione degli impianti sottomarini grazie al suo ruolo di leader mondiale del settore.

Non a caso, proprio Terna potrà fare le prove con la realizzazione del nuovo collegamento previsto tra la Sicilia e la Tunisia. Ma del progetto Desertec non dovrebbe beneficiare solo la "ricca" Europa. Nel giro di pochi anni, i consumi nell' area del Mediterraneo si sposteranno verso sud. Se è vero che, al momento, il 70% della domanda di energia è concentrata nei paesi della sponda europea, d' ora in poi gli equilibri sono destinati a modificarsi.

Secondo uno studio realizzato dell' Observatoire Méditerranéen de l' Energie (l' associazione che raccoglie tutti gli operatori delle nazioni costiere, guidata dal presidente di Enel Piero Gnudi), fino al 2030 la domanda di elettricità dei paesi del nord crescerà dell' 1% all' anno, mentre i paesi della sponda meridionale la vedranno aumentare del 4,6%.

Il che avrà un impatto notevole sul contenimento della CO2: e se nel periodo 1990-2005 i due terzi delle emissioni erano da imputare ai paesi del nord (con una crescita annua del 2%), le nazioni della sponda meridionale sono destinate a essere le responsabili del 47% della CO2 emessa nell' atmosfera entro il 2030. Tutto questo, ovviamente, se la produzione di elettricità sarà garantita solo da combustibili fossili. Da qui, l' ulteriore importanza di Desertec. Il che equivale a dire che una parte dell' energia ottenuta dagli impianti solari rimarrà nei paesi di produzione. Ma non solo. Poiché il progetto è ancora più complesso e porta alla realizzazione di una supergrid, una rete che metta in collegamento tutti gli impianti di energia rinnovabile sulle due sponde del Mediterraneo.

Obiettivo che sarà raggiunto completando le reti tra i paesi arabi africani e tra la Siria e la Turchia: ma anche per questo ci sarà tempo fino al 2050.

venerdì 26 febbraio 2010

I malati immaginari

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Boom di falsi invalidi - Le truffe che ci costano oltre un miliardo l'anno
di Paolo Griseri ed Emanuele Lauria - da "La Repubblica" del 23/02/2010

Le ultime scene della commedia le hanno girate i carabinieri di Napoli immortalando in un video un cieco che parcheggia l' auto e un altro in fila alle poste mentre legge il giornale. Le hanno scritte i magistrati di Siracusa, raccontando nei verbali la storia dell' assessore comunale che prometteva pensioni in cambio di voti e dettava ai medici compiacenti le percentuali di handicap da assegnare: 74, 74, 100. «Erano solo pronostici», si è difeso il "profeta" di fronte alle intercettazioni che lo incastravano.

Il film dei furbi, i pm di Palermo l' hanno invece ambientato fra i palazzoni dello Zen 2 progettati da Gregotti. In ogni condominio almeno un falso invalido: in via Rocky Marciano ne hanno scovati quindici. Lì vicino, in via Agesia di Siracusa, nove.

Il Paese degli assegni di assistenza facili è raccontato da storie rocambolesche che fanno da sfondo alle inchieste giudiziarie e da numeri impressionanti che emergono dalle indagini dell' Inps. Appena si è mosso, l' anno scorso, l' istituto ha constatato subito la dimensione del fenomeno. Ecco l' esito delle prime verifiche: sul campione di 200 mila pratiche controllate poco più del 10 per cento, 22.000, sono state cancellate. Erano intestate a gente in buona salute. Altre 20 mila sono in attesa di esame e definite a rischio. Per il 2010 sono stati disposti centomila nuovi controlli straordinari, restringendo il campo solo ai casi più sospetti: assistiti in giovane età o affetti da patologie dalle quali solitamente si guarisce. Ma c' è una montagna da scalare. Quanti sono davvero oggi i falsi invalidi in Italia? E quanto pesano sui bilanci dello Stato?

UN MILIARDO IN FUMO L' Inps si muove in quella che il presidente, Antonio Mastrapasqua, definisce «una terra sconosciuta». Dove, racconta, «stanno insieme il malato di Sla e chi ha un dolore al gomito».

L' unica certezza è la costante crescita della spesa annua per l' assistenza agli invalidi civili: dai 13,5 miliardi di euro del 2006 ai 16,6 previsti nel 2010. E il numero, anch' esso in aumento, degli assistiti: oggi sono 2 milioni 741 mila. Se si applicasse la percentuale di pratiche irregolari emerse sinora al numero complessivo delle prestazioni, saremmo di fronte a quasi 12 mila nuovi falsi invalidi nell' anno appena iniziato. Riempirebbero 256 autobus e infoltirebbero una colonna che trasporta già altri 300 mila colleghi.

Ma l' Inps invoca cautela, sottolineando le peculiarità del campione, che escludeva alcune fasce di invalidità ritenute certe. L' istituto vuole voltare pagina, con una riforma che accorcia l' iter burocratico per ottenere i contributi e assegna all' istituto un maggiore controllo sulle procedure.

«La cosa più importante adesso non è la ricerca dei falsi invalidi, ma evitare di laurearne di nuovi», dice Mastrapasqua.

Per non far crescere la cifra innominabile delle risorse pubbliche sperperate: «Sicuramente alcune centinaia di milioni di euro», afferma, prudente, il presidente dell' Inps. In realtà un miliardo, se non di più. Eccola, la voragine nei conti dello Stato. Come si è prodotta? A chi conviene far muovere questo ingranaggio?

LE FABBRICHE DEGLI INVALIDI Nel Paese degli scaltri, quella dei malati virtuali è una macchina che produce favori per molti: non solo per i beneficiati diretti ma anche per politici, criminali e qualche associazione ufficialmente dedita alla carità pubblica. La catena di montaggio delle false pratiche è alimentata da soldi o voti. C' è solitamente un collettore delle domande (lo "spicciafaccende") e un utilizzatore finale, il falso invalido.

«Una pratica può costare fino a 6 mila euro», racconta il pentito Alessandro Galante al pm palermitano Sergio Demontis.

Il meccanismo è semplice: i procacciatori di assegni illegittimi si dividono i soldi degli arretrati, il credito accumulato dall' assistito dal momento della domanda a quello del riconoscimento dell' invalidità. Il falso invalido incasserà nel futuro, il boss si porta a casa la somma maturata nel passato. Ma nella catena ci devono essere complici a ogni passaggio. Ad aiutare i furbi una vera e propria giungla di organismi che, fino al 31 dicembre scorso, concorrevano alla decisione finale. Dodici passaggi, quasi una via crucis. Fino a poche settimane fa la trafila era infinita: domanda all' Asl, visita medica, trasmissione del verbale all' Inps, verifica della commissione periferica del ministero del tesoro (in alcune regioni), esame del verbale da parte dell' Inps. A questo punto, a seconda del giudizio dell' istituto di previdenza, ulteriori accertamenti oppure trasmissione del verbale all' Asl e quindi il via libera dell' ente concessore. Che in Campania, ovvero nella regione meridionale con il maggior numero di assistiti, era fino a un mese fa il Comune o la Provincia: «Non esattamente una garanzia di resistenza alle pressioni», fa notare il presidente dell' Inps Mastrapasqua.

Un iter estenuante: 345 giorni la media italiana, quasi due anni in Sicilia. Dove, stando alle statistiche, su dieci malati di tumore, sette muoiono prima di ricevere l' assegno: i falsi invalidi tagliano la strada a chi ha davvero bisogno.

A ogni stazione della via crucis è in agguato la truffa. La mancanza di controlli incrociati fra i vari organismi e l' assenza di un numero di protocollo unico per ogni singola pratica ha favorito l' illegalità.

Numerosi i casi in cui le commissioni mediche sono state allegramente saltate con un verbale falso e un timbro fai da te.

Ma il punto più pericoloso del viaggio è proprio il passaggio dalle commissioni mediche: a Siracusa l' ex assessore Francesco Zappalà, presidente della locale sezione dell' Anmic (Associazione nazionale invalidi e mutilati civili), si appoggiava, stando alle accuse, a un medico compiacente provvidenzialmente inserito nel gruppo di coloro che esaminavano le domande. Quel medico, a sua volta, era la punta di un iceberg di favori e connivenze. Ma come funzionano questi organismi che decidono chi è meritevole di un sostegno economico e chi no?

LO ZAMPINO DELLA POLITICA Le commissioni di verifica delle invalidità vengono pagate a cottimo: 7 euro a pratica per ognuno dei 4 medici, tre dei quali nominati dal direttore generale dell' Asl, a sua volta scelto dai politici. In certi casi, nelle regioni del Sud, le commissioni arrivano a smaltire 40 pratiche a seduta. Un' attività redditizia, che a un camice bianco può assicurare 280 euro in un pomeriggio. Un' attività alla quale guarda con attenzione chi cerca rendite elettorali.

Luciano, nome di comodo, ha fatto parte per vent' anni delle commissioni mediche palermitane. E racconta: «Questo settore è una miniera di voti: produce almeno un deputato l' anno».

Le associazioni che rappresentano gli invalidi hanno un membro di diritto nelle commissioni di invalidità. E ora sono nel mirino. A Siracusa il caso Zappalà. A Palermo il rappresentante dell' Anmic è stato fino a poco tempo fa Antonino Rizzotto, un ex deputato regionale dell' Mpa (poi transitato nel Pdl) che alle elezioni del 2006 fece il "botto": 8.150 voti che gli valsero pure la guida della commissione Sanità dell' Assemblea regionale siciliana. Ora Rizzotto ha lasciato posto, nell' associazione, alla sorella: una vocazione di famiglia.

Il presidente dell' Unione ciechi, a Palermo, è un consigliere comunale della potente Udc di Cuffaro: si chiama Luigi Di Franco e alle Comunali del 2007 prese 1.477 voti.

Quella degli invalidi, insomma, al Sud è una storia che si intreccia strettamente con la politica. A Napoli il demiurgo dei finti ciechi sarebbe Salvatore Alaio, titolare di un patronato e consigliere della municipalità di Chiaia, 1.912 preferenze nella lista di Forza Italia, arrestato con moglie e genitori. La truffa è stata denunciata da Fabio Chiosi, presidente della municipalità e suo collega di partito.

In Sicilia, a ogni elezione, sono tanti i medici delle commissioni di invalidità che finiscono in lista: al punto che, tranne le emergenze, l' attività delle commissioni viene sospesa in periodo elettorale. Succede anche questo, nella terra delle invalidità facili. Ma quanto vale il riconoscimento di un handicap?

I "BENEFIT" L' assegno di assistenza di 255 euro scatta solo con una percentuale di invalidità dal 74 per cento in su. Il proliferare di finti pazzi - a Napoli, ma anche a Palermo - è legato proprio al raggiungimento di questo tetto. «A una persona affetta da gastroduodenite basta riconoscere una depressione per aumentare la percentuale e far varcare la soglia per la pensione», spiega chi indaga nel capoluogo campano: mens insana in corpore insano.

Con il cento per cento scatta anche l' assegno di accompagnamento di 472 euro, che non è vincolato all' età e al reddito dell' assistito. E poi c' è la legge 104, che dà diritto a tre giorni di assenza dal lavoro ogni mese.

C' è la possibilità di non pagare il biglietto su bus, tram e metropolitane, l' esenzione dal pagamento del bollo auto, lo scontro sull' acquisto delle vetture e sulle polizze assicurative. Fino al mitico pass H, che garantisce di parcheggiare liberamente e viaggiare nelle corsie preferenziali nei centri storici di tutta Italia.

Benefici sacrosanti, per gli invalidi veri. Ma non pochi ne hanno abusato: a Cortina d' Ampezzo i vigili hanno trovato falsi permessi all' interno di auto lasciate a ridosso delle piste da sci ed è scattata un' inchiesta della Procura. A Palermo si indaga su un giro di pass rilasciati con troppa facilità o addirittura oggetto di un mercato clandestino. Ma dove sorgono, in Italia, i regni dei falsi invalidi?

UN PAESE A DUE VELOCITÀ Non è una mappa uniforme, quella dell' invalidità civile. In Trentino, nel 2009, è stata concessa una nuova pensione. Una sola. Ma chi pensa che da Roma in su il fenomeno non esista deve ricredersi: la regione con il maggior numero di assegni per abitante (5,48) è l' Umbria. E, in valori assoluti, la Lombardia batte tutti: quasi 269 mila invalidi, con una spesa di un milione di euro l' anno per garantire i compensi dei medici delle commissioni di invalidità. Ma due terzi dei sussidi erogati continuano a raggiungere assistiti del Centro-sud, dove gli assegni rilasciati dall' Inps diventano un sostegno sociale. E dove l' abuso ha disegnato una realtà a macchia di leopardo. Città, paesi, quartieri popolati da malati dalle cartelle mediche sospette.

A Napoli, lungo l' interminabile vicolo del Pallonetto di Santa Lucia, dal Chiatamone a Monte di pietà, rumoreggiano i parenti dei sessanta finti ciechi finiti in carcere con l' accusa di falso. E ora si indaga su trecento falsi matti dello stesso rione.

Ogni giorno, racconta Antonio Barra, presidente della commissione medica di zona, è una continua lotta con pazienti «che fanno scena muta, si gettano per terra o minacciano di darsi fuoco per farsi assegnare l' invalidità per problemi mentali».

A Palermo è ancora in corso il maxi-processo a mille falsi invalidi: una miriade di procedimenti davanti al giudice monocratico, condanne per sei mesi e restituzione degli arretrati. Il volume di affari fatto con le tangenti, per i registi del raggiro, è stato di sei milioni di euro.

Ci sono gli invalidi dello Zen e quelli del Comune di Misilmeri, un centinaio. Interi nuclei familiari alle prese con affezioni tutte uguali: demenza senile per i più anziani, forme di epilessia per i giovani. Uno dei protagonisti della truffa, Antonino Cusimano, invalido anche lui, ha confessato di aver fatto avere la pensione - fra gli altri - alla sorella, alla figlia e a tre cognate. A Carlentini, nel Siracusano, gli abitanti alla ricerca di un assegno si rivolgevano al dottor Massimo Gramillano, medico con la passione per la politica e guaritore al contrario: aiutava i compaesani a diventare invalidi. E domandava in cambio voti, per sé e per conto di Zappalà. Alla signora Giovanna ne ha chiesti quattro, uno per ogni componente della famiglia. Lei ci è rimasta male, anche perché pure il marito era candidato. Così, complice un' intercettazione telefonica, la donna ha raccontato tutto ai magistrati. Ed ha preso corpo l' inchiesta: ma il reato di voto di scambio si prescrive in due anni e tutto rischia di finire a tarallucci e vino.

A Taranto, dove c' è un invalido ogni due famiglie, la commissione di verifica dell' Inps ha rilevato cartelle mediche di sedicenti malati di mente che da soli conducono aziende. E a Enna i medici incaricati di rivedere le invalidità concesse hanno scoperto malattie accertate nel 1980 e mai più verificate. Chi, per fortuna, è guarito, continua ad essere malato. Almeno per lo Stato.

sabato 20 febbraio 2010

Dalla memoria al flusso

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Italia in posa, è il vintage di famiglia
di Michele Smargiassi - da "La Repubblica" del 14/02/2010

Ma dove sono le nevi d' un tempo? Tutte nel cassetto del comò. Anche il sole d' un tempo è lì. Che a sfogliarli, quegli album dei genitori e dei nonni, vien da dire ma allora è vero, una volta nevicava di più, una volta il sole brillava di più, invece no, è solo una deformazione proustiana della memoria, è una meteorologia fotograficamente alterata, perché «ragazzi nevica, andiamo fuori a farci una foto!», e anche «guarda che bel sole, andiamo a fare un giro, prendi la macchina fotografica», mentre con le piogge uggiose e le nebbie, salvo che uno voglia fare l' artista, l' Instamatic di papà restava a dormire nell' armadio e noi in casa a farei compiti, mica ci si fa la foto quando si fanno i compiti.

E questo ti fa pensare che quell' album che hai nel comò non gioca solo col sole e con la neve, gioca con i tuoi ricordi, con l' idea che hai del tuo passato, te li cambia senza che tu te ne accorga.

E quando tiriamo fuori le scatole da scarpe piene di rettangoli di carta lucida, ecco, ci accorgiamo che lì è rimasta solo una vita luminosa e candida, che è poi la nostra come vorremmo che fosse stata, come ci lasciamo illudere che sia stata.

Il fascino delle vecchie foto, dei vecchi filmini è tutto qui. Non so se i colleghi di Repubblica.it se l' aspettavano, che un semplice invito a spedirci le scansioni di quei piccoli grandi tesori emotivi avrebbe scatenato una pioggia di migliaia d' immagini. In fondo sono cose privatissime, perché farle vedere a tutti?

Non è tanto una questione di pudore, voglio dire, non c' è mai nulla di sconveniente negli album di famiglia, la nudità è bandita (tranne i neonati e qualche morigerato bikini), le funzioni corporali non ne parliamo nemmeno, perfino le lacrime non vi hanno cittadinanza, niente lutti niente litigi, c' è il gesso alla gamba ma non l' ambulanza che corre all' ospedale, c' è la guarigione ma non la malattia; tutto dev' essere conforme alla banalità del bene, prevedibile e scontato, se c' è qualche foto "bella" è un' estetica casuale e involontaria; no, diciamolo pure, è che le foto di famiglia sono una noia mortale per chi non è della famiglia, ma a chi volete che interessi mamma Mariuccia di Cernusco, con tutto il rispetto, che rimesta il soffritto in cucina, o Bruno di Marina di Massa vestito da Zorro per un carnevale anni Sessanta?

A nessuno, ma non è questo il punto. Queste foto non devono mostrare, e neppure comunicare: devono semplicemente essere. Foto-talismani, alter-ego mistici: l' astronauta Charlie Duke della missione Apollo 16 lasciò sulla Luna una Polaroid di se stesso con moglie e figli, offerta allo sguardo di nessuno e insieme di tutto l' universo.

La curiosità per il "come eravamo." non spiega la malìa di queste immagini. Perché, d' un tratto, le foto private possono fuggire dall' edicola domestica dei lari e dei penati e finire sull' impudica bacheca di Internet? Perché d' improvviso s' è creata, tra noie loro, una distanza, per non dire un' estraneità.

Le immagini di casa, fino a ieri una presenza scontata come i bicchieri nella credenza, hanno improvvisamente preso un aspetto straordinario, fascinoso ma alieno, come reperti archeologici di una civiltà remota i cui riti di autorappresentazione hanno un senso che ormai sfugge. Ed è questo che sono. Perché li vediamo, appunto, dall' osservatorio di un' altra civiltà dell' immagine autogenica, che con l' era della foto di famiglia ormai non c' entra più nulla. La rivoluzione è andata così veloce e liscia che neppure ci ricordiamo più com' era prima.

L' ubiquità delle fototrappole built-in nei nostri cellulari, che viaggiano sempre con noi pronte ad acchiappare qualunque cosa, ha cacciato il ricordo della fotocamera nella custodia di cuoio con la tracolla, autentico moschetto della battaglia del benessere, usato con selettiva parsimonia; del rito della posa sulle vette dei consumi conquistati, la spiaggia, il monumento; del dito paterno teso sul bottone di scatto, poi quel rumore come di un piccolo bacio che suggella la felicità familiare da tesaurizzare.

Con le foto si edificava la precaria identità di quel nuovo oggetto sociale che era la famiglia mononucleare. In foto si faceva l' inventario degli obiettivi raggiunti, delle pietre miliari superate (battesimi compleanni nozze), dei beni acquisiti, mescolando tutto (la foto del figlio neonato sul cofano della Seicento) nell' impasto organico di una vita che voleva vedersi appagata. Erano immagini pianificate e pienificate, gonfie di senso; non erano riflesso ma costruzione attiva dell' unità familiare.

Un preciso "lavoro di autostima" incluso prepotentemente tra i doveri di cura reciproca del nucleo familiare, assegnato secondo una rigorosa divisione dei compiti: papà scatta, mamma archivia, i figli ammirano e imparano. L' accesso a quelli che già nell' Ottocento l' antropologo Paolo Mantegazza definiva «archivi santi della famiglia» costituiva un rito d' inclusione: al fidanzato "presentato in casa" si apriva l' album, «guarda Cristina da piccola». Il consumo delle immagini era una glassa di parole (nessuna foto familiare si consuma in silenzio) che amalgamava i fotogrammi in una narrazione, senza la quale qualsiasi immagine di famiglia è penosamente muta e orfana. Per qualcuno non erano abbastanza narrative, le immagini fisse.

La suggestione del cinema sollecitava altre costruzioni dell' immagine familiare. Erano quasi tutti fotoamatori evoluti i papà che affiancarono la fotocamera con la cinepresa otto millimetri. A Bologna c' è un' istituzione provvidenziale e intelligente, Home Movies, che salverà quei nastri di celluloide da morte certa: perché gli album si possono ancora sfogliare, ma le micropizze bucherellate richiedono un interfaccia tecnologico (il proiettore) obsoleto, se è rotto nessuno lo ripara e così d' improvviso i filmini vivi e palpitanti diventano inerti pezzi di plastica che vien la tentazione di gettare. Grazie a Paolo Simoni e ai suoi collaboratori cinquemila ore sono già salve, «le famiglie ce li donano volentieri, le ripaghiamo con un dvd e la certezza che gli originali sono al sicuro».

Sul monitor del Mac quelle sequenze sobbalzanti fanno un curioso effetto: ecco il Natale in casa Calanchi coi panettoni bipartisan (Motta e Alemagna) sotto l' albero, ecco l' interminabile sequenza di bimbi sullo scivolo in spiaggia a Riccione, ecco la gita inaugurale della Millecento.

Drogati dai prodigi spettacolari di Avatar abbiamo dimenticato che i Lumière pensavano che fosse soprattutto domestica la vocazione del cinema, infatti nei loro incunaboli, oltre al celebre arrivo del treno, proposero anche la pappa del neonato. Questa economia delle immagini è bruscamente finita con l' irruzione digitale.

E non perché sia cambiata l' essenza tecnica della fotografia: non è certo il passaggio dai sali d' argento ai pixel a fare la differenza, in un universo semantico dove non conta l' aspetto materiale dell' immagine ma unicamente la sua capacità evocativa. È cambiato in modo drastico lo scopo a cui le nuove immagini sono tenute a rispondere. Gli orridi librettini di polietilene a tasche, penoso decadimento degli album d' antan, sollecitavano comunque ancora il ripescaggio periodico dal cassetto.

La libertà del digitale che oggi consente di scattare quante foto vuoi senza spendere un centesimo in più riempie gli hard-disk di archivi smisurati, impossibili da maneggiare, che vengono guardati una sola volta e poi più. La quantità di memoria disponibile vanifica il concetto stesso di archivio della memoria. Del resto, la memoria è una funzione sociale sempre meno richiesta. Le immagini digitali prendono quindi un' altra strada, quella della Rete, dove il loro destino è un altro. I social network sono pieni di foto private raccolte in cartelle che si chiamano ancora "album", ma cosa sono davvero? Non costruzione di identità permanenti, ma presentazioni dinamiche del proprio sé momentaneo; non conservazione ma ostentazione.

La famiglia vi appare ancora, ma ridotta ad accessorio di un eroe eponimo, solo in scena. In Rete, la fotografia familiare diventa celibe.

Gli album di Facebook sono monologhi di egotismo che non hanno memoria e non la amano. In quegli "album" le foto cambiano di continuo, secondo i nostri bisogni di auto-presentazione. Da deposito a flusso, da accumulazione a consumo, l' orizzonte della fotografia privata è capovolto.

Per questo, d' un tratto, quei polverosi depositi di significato nascosti nei cassetti hanno mutato statuto: non sono più roba vecchia, ma antica. Non ci coinvolgono più come protagonisti ma come spettatori.

Acquistano quell' aura che Walter Benjamin negava alle immagini tecnicamente riproducibili (ma dove, riproducibili? La stragrande maggioranza delle fotografie familiari esiste in copia unica). Attestano l' esistenza di un luogo che ci attira e ci turba: il passato, là dove i nostri genitori sono nostri coetanei o coetanei dei nostri figli. Questo ritorno del trapassato (la famiglia circense Togni, grande produttrice di film familiari, rivedeva i propri archivi ogni anno il 2 novembre, giorno dei defunti) ora ci attira e ci spaventa, perchéè contro natura, è il perturbante per eccellenza. Non ci siamo più abituati. I fotofonini non ci regalano altro che un presente duplicato e ripiegato su se stesso, e queste fotografie di felicità trascorse ci ghermiscono, ci tirano indietro, fascinose e inquietanti.

Allora non c' è che un modo per esorcizzarle: offrirle in dono, pegno e sacrificio sull' altare della presentificazione istantanea: la Rete. Le migliaia di foto della nostra galleria vintage, a nostra insaputa, sono un rito di purificazione collettiva, molto meno spensierato di quel che appare.

La legalità delle tottò

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Dai mariuoli ai birbantelli
di Filippo Ceccarelli - da "La Repubblica" del 20/02/2010

Nella scala Mercalli del lessico berlusconiano il termine "birbantelli", che il premier ha usato per qualificare i protagonisti del malaffare uscito fuori in questi giorni, si colloca appena un gradino sopra "birichino".

Birbantelli sarebbero, per intendersi, questi individui che a tal punto smaniano per i quattrini da fregarsi le mani durante le scosse di terremoto, e si agitano, brigano, impicciano, volteggiano sulle disgrazie altrui, instancabili come sono, e corrompono funzionari dello Stato e ingaggiano prostitute, e ridacchiano delle loro prestazioni e insomma: "gli sciacalli", per taluni, o "la cricca", per altri, o tutte due le parole insieme, che non saranno carine, però, insomma, considerati i morti, il dolore, la crisi, la miseria, gli sprechi...

E invece ecco che Berlusconi se ne esce addirittura con un vezzeggiativo, birbantelli, e sembra quasi di vederlo sorridere mentre fa il gesto delle tottò con la mano, ah, birbantelli, ahi-ahi! Trattasi di epiteto scherzoso e benevolo, il Devoto-Oli (Le Monnier) conferma la regressione all'infanzia, "ragazzacci" suonerebbe già più serio, siamo vicini a "monelli", l'indulgenza è un lampo che rischiara il messaggio, il premier è il più avveduto e operoso specialista di semantica applicata alla vita pubblica, e quando dice birbantelli sposta i reati del codice penale e l'immoralità più nera e cannibalesca in un mondo di favole, fumetti, cartoni animati, nomignoli per chattare ("Ho gli ormoni birichini e birbantelli") o scherzi da nonnetto allegro, cu-cù, cu-cù, bu-bu-set-tete!

Ma poi è anche vero che gli italiani, certo meno di un tempo, ma hanno sempre abbastanza paura di sentirsi fessi, per cui capiscono benissimo che il senso politico di quella parola è sdrammatizzare, ridimensionare, minimizzare e anche porsi al di sopra chiamandosi fuori da quelle schifezze lì.
E' il potere che durante le sue crisi possiede connaturato questo codice di riduzionismo e di estraneità funzionale. Andreotti era così bravo a sminuzzare i problemi da alleggerirne non solo la portata, ma anche l'intensità - almeno fino alla primavera del 1993, quando fu accusato di essere un mafioso e di aver fatto uccidere Pecorelli.
Molto meno bravo fu Bettino Craxi, il cui potere infatti durò circa un quarto del tempo andreottiano, ma qui la faccenda si fa delicata per il Cavaliere. Perché se c'è un precedente che può richiamarsi a proposito dei birbantelli, viene subito in mente il modo sbrigativo in cui il 3 marzo del 1992, per cavarsi fuori dai guai, il leader del garofano volle designare il presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, che tanto aveva fatto per il Psi a Milano, e anche per la sua corrente, e addirittura per il figlio che muoveva i primi passi in quella giungla di tessere e magheggi. Disse dunque il grande Craxi, rispondendo a una domanda dei telespettatori del Tg3, che Chiesa era "un mariuolo".

Non fu un'uscita felice, e forse basterebbe da sola a ridimensionare il clima di santificazione acritica che ha segnato il decennale della morte nel gennaio scorso. E non solo perché lo stesso Chiesa nel luglio del 1995 ebbe modo di dire con qualche motivo che all'accusa di essere un mariuolo "avrei potuto ribattere che allora lui era Alì Babà, il capo dei... settanta ladroni" (disse proprio 70, Chiesa, incespicando sulla contabilità de Le mille e una notte).

Ora, in uno sconsolato torneo d'indulgenza lessicale dinanzi alle ricorrenti ladrerie, birbantelli è parecchio più bonario di mariuolo, così come il modo in cui l'ha messa ieri il presidente Berlusconi appare molto più trullallà rispetto alla solenne intemerata sul "mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano, in cinquant'anni, non in cinque, ma in cinquant'anni - ribadì uno sdegnatissimo Craxi - non ha mai avuto un amministratore condannato per gravi reati contro la pubblica amministrazione".

Il punto è che da allora l'Italia non è che sia molto migliorata, anzi, e la regressione non è solo infantile, ma in qualche modo si avverte anche sul piano morale, civile e addirittura su quello del linguaggio e del costume, con le sue frivolezze terribilmente serie, con le sue novità capricciose che arrivano a far rimpiangere la cupa piattezza del brutto tempo che fu.