sabato 20 febbraio 2010

Dalla memoria al flusso

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Italia in posa, è il vintage di famiglia
di Michele Smargiassi - da "La Repubblica" del 14/02/2010

Ma dove sono le nevi d' un tempo? Tutte nel cassetto del comò. Anche il sole d' un tempo è lì. Che a sfogliarli, quegli album dei genitori e dei nonni, vien da dire ma allora è vero, una volta nevicava di più, una volta il sole brillava di più, invece no, è solo una deformazione proustiana della memoria, è una meteorologia fotograficamente alterata, perché «ragazzi nevica, andiamo fuori a farci una foto!», e anche «guarda che bel sole, andiamo a fare un giro, prendi la macchina fotografica», mentre con le piogge uggiose e le nebbie, salvo che uno voglia fare l' artista, l' Instamatic di papà restava a dormire nell' armadio e noi in casa a farei compiti, mica ci si fa la foto quando si fanno i compiti.

E questo ti fa pensare che quell' album che hai nel comò non gioca solo col sole e con la neve, gioca con i tuoi ricordi, con l' idea che hai del tuo passato, te li cambia senza che tu te ne accorga.

E quando tiriamo fuori le scatole da scarpe piene di rettangoli di carta lucida, ecco, ci accorgiamo che lì è rimasta solo una vita luminosa e candida, che è poi la nostra come vorremmo che fosse stata, come ci lasciamo illudere che sia stata.

Il fascino delle vecchie foto, dei vecchi filmini è tutto qui. Non so se i colleghi di Repubblica.it se l' aspettavano, che un semplice invito a spedirci le scansioni di quei piccoli grandi tesori emotivi avrebbe scatenato una pioggia di migliaia d' immagini. In fondo sono cose privatissime, perché farle vedere a tutti?

Non è tanto una questione di pudore, voglio dire, non c' è mai nulla di sconveniente negli album di famiglia, la nudità è bandita (tranne i neonati e qualche morigerato bikini), le funzioni corporali non ne parliamo nemmeno, perfino le lacrime non vi hanno cittadinanza, niente lutti niente litigi, c' è il gesso alla gamba ma non l' ambulanza che corre all' ospedale, c' è la guarigione ma non la malattia; tutto dev' essere conforme alla banalità del bene, prevedibile e scontato, se c' è qualche foto "bella" è un' estetica casuale e involontaria; no, diciamolo pure, è che le foto di famiglia sono una noia mortale per chi non è della famiglia, ma a chi volete che interessi mamma Mariuccia di Cernusco, con tutto il rispetto, che rimesta il soffritto in cucina, o Bruno di Marina di Massa vestito da Zorro per un carnevale anni Sessanta?

A nessuno, ma non è questo il punto. Queste foto non devono mostrare, e neppure comunicare: devono semplicemente essere. Foto-talismani, alter-ego mistici: l' astronauta Charlie Duke della missione Apollo 16 lasciò sulla Luna una Polaroid di se stesso con moglie e figli, offerta allo sguardo di nessuno e insieme di tutto l' universo.

La curiosità per il "come eravamo." non spiega la malìa di queste immagini. Perché, d' un tratto, le foto private possono fuggire dall' edicola domestica dei lari e dei penati e finire sull' impudica bacheca di Internet? Perché d' improvviso s' è creata, tra noie loro, una distanza, per non dire un' estraneità.

Le immagini di casa, fino a ieri una presenza scontata come i bicchieri nella credenza, hanno improvvisamente preso un aspetto straordinario, fascinoso ma alieno, come reperti archeologici di una civiltà remota i cui riti di autorappresentazione hanno un senso che ormai sfugge. Ed è questo che sono. Perché li vediamo, appunto, dall' osservatorio di un' altra civiltà dell' immagine autogenica, che con l' era della foto di famiglia ormai non c' entra più nulla. La rivoluzione è andata così veloce e liscia che neppure ci ricordiamo più com' era prima.

L' ubiquità delle fototrappole built-in nei nostri cellulari, che viaggiano sempre con noi pronte ad acchiappare qualunque cosa, ha cacciato il ricordo della fotocamera nella custodia di cuoio con la tracolla, autentico moschetto della battaglia del benessere, usato con selettiva parsimonia; del rito della posa sulle vette dei consumi conquistati, la spiaggia, il monumento; del dito paterno teso sul bottone di scatto, poi quel rumore come di un piccolo bacio che suggella la felicità familiare da tesaurizzare.

Con le foto si edificava la precaria identità di quel nuovo oggetto sociale che era la famiglia mononucleare. In foto si faceva l' inventario degli obiettivi raggiunti, delle pietre miliari superate (battesimi compleanni nozze), dei beni acquisiti, mescolando tutto (la foto del figlio neonato sul cofano della Seicento) nell' impasto organico di una vita che voleva vedersi appagata. Erano immagini pianificate e pienificate, gonfie di senso; non erano riflesso ma costruzione attiva dell' unità familiare.

Un preciso "lavoro di autostima" incluso prepotentemente tra i doveri di cura reciproca del nucleo familiare, assegnato secondo una rigorosa divisione dei compiti: papà scatta, mamma archivia, i figli ammirano e imparano. L' accesso a quelli che già nell' Ottocento l' antropologo Paolo Mantegazza definiva «archivi santi della famiglia» costituiva un rito d' inclusione: al fidanzato "presentato in casa" si apriva l' album, «guarda Cristina da piccola». Il consumo delle immagini era una glassa di parole (nessuna foto familiare si consuma in silenzio) che amalgamava i fotogrammi in una narrazione, senza la quale qualsiasi immagine di famiglia è penosamente muta e orfana. Per qualcuno non erano abbastanza narrative, le immagini fisse.

La suggestione del cinema sollecitava altre costruzioni dell' immagine familiare. Erano quasi tutti fotoamatori evoluti i papà che affiancarono la fotocamera con la cinepresa otto millimetri. A Bologna c' è un' istituzione provvidenziale e intelligente, Home Movies, che salverà quei nastri di celluloide da morte certa: perché gli album si possono ancora sfogliare, ma le micropizze bucherellate richiedono un interfaccia tecnologico (il proiettore) obsoleto, se è rotto nessuno lo ripara e così d' improvviso i filmini vivi e palpitanti diventano inerti pezzi di plastica che vien la tentazione di gettare. Grazie a Paolo Simoni e ai suoi collaboratori cinquemila ore sono già salve, «le famiglie ce li donano volentieri, le ripaghiamo con un dvd e la certezza che gli originali sono al sicuro».

Sul monitor del Mac quelle sequenze sobbalzanti fanno un curioso effetto: ecco il Natale in casa Calanchi coi panettoni bipartisan (Motta e Alemagna) sotto l' albero, ecco l' interminabile sequenza di bimbi sullo scivolo in spiaggia a Riccione, ecco la gita inaugurale della Millecento.

Drogati dai prodigi spettacolari di Avatar abbiamo dimenticato che i Lumière pensavano che fosse soprattutto domestica la vocazione del cinema, infatti nei loro incunaboli, oltre al celebre arrivo del treno, proposero anche la pappa del neonato. Questa economia delle immagini è bruscamente finita con l' irruzione digitale.

E non perché sia cambiata l' essenza tecnica della fotografia: non è certo il passaggio dai sali d' argento ai pixel a fare la differenza, in un universo semantico dove non conta l' aspetto materiale dell' immagine ma unicamente la sua capacità evocativa. È cambiato in modo drastico lo scopo a cui le nuove immagini sono tenute a rispondere. Gli orridi librettini di polietilene a tasche, penoso decadimento degli album d' antan, sollecitavano comunque ancora il ripescaggio periodico dal cassetto.

La libertà del digitale che oggi consente di scattare quante foto vuoi senza spendere un centesimo in più riempie gli hard-disk di archivi smisurati, impossibili da maneggiare, che vengono guardati una sola volta e poi più. La quantità di memoria disponibile vanifica il concetto stesso di archivio della memoria. Del resto, la memoria è una funzione sociale sempre meno richiesta. Le immagini digitali prendono quindi un' altra strada, quella della Rete, dove il loro destino è un altro. I social network sono pieni di foto private raccolte in cartelle che si chiamano ancora "album", ma cosa sono davvero? Non costruzione di identità permanenti, ma presentazioni dinamiche del proprio sé momentaneo; non conservazione ma ostentazione.

La famiglia vi appare ancora, ma ridotta ad accessorio di un eroe eponimo, solo in scena. In Rete, la fotografia familiare diventa celibe.

Gli album di Facebook sono monologhi di egotismo che non hanno memoria e non la amano. In quegli "album" le foto cambiano di continuo, secondo i nostri bisogni di auto-presentazione. Da deposito a flusso, da accumulazione a consumo, l' orizzonte della fotografia privata è capovolto.

Per questo, d' un tratto, quei polverosi depositi di significato nascosti nei cassetti hanno mutato statuto: non sono più roba vecchia, ma antica. Non ci coinvolgono più come protagonisti ma come spettatori.

Acquistano quell' aura che Walter Benjamin negava alle immagini tecnicamente riproducibili (ma dove, riproducibili? La stragrande maggioranza delle fotografie familiari esiste in copia unica). Attestano l' esistenza di un luogo che ci attira e ci turba: il passato, là dove i nostri genitori sono nostri coetanei o coetanei dei nostri figli. Questo ritorno del trapassato (la famiglia circense Togni, grande produttrice di film familiari, rivedeva i propri archivi ogni anno il 2 novembre, giorno dei defunti) ora ci attira e ci spaventa, perchéè contro natura, è il perturbante per eccellenza. Non ci siamo più abituati. I fotofonini non ci regalano altro che un presente duplicato e ripiegato su se stesso, e queste fotografie di felicità trascorse ci ghermiscono, ci tirano indietro, fascinose e inquietanti.

Allora non c' è che un modo per esorcizzarle: offrirle in dono, pegno e sacrificio sull' altare della presentificazione istantanea: la Rete. Le migliaia di foto della nostra galleria vintage, a nostra insaputa, sono un rito di purificazione collettiva, molto meno spensierato di quel che appare.

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