sabato 30 gennaio 2010

Il magazzino con dentro la scopa

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Il mistero delle celle scomparse
di Lirio Abbate - Intere sezioni chiuse o usate per altri scopi. Perché non ci sono guardie. E così molte carceri sono sovraffollate - da L'espresso del 21/01/2010

Intere sezioni destinate ai detenuti trasformate in uffici, ambulatori medici o magazzini. Celle chiuse e mai utilizzate. Si restringono così gli istituti di pena nel nostro Paese. Anzi, si riduce così la capienza regolamentare o tollerabile delle carceri, in particolare in quelle di provincia dove i detenuti vengono stipati in pochi metri quadrati, creando sovraffollamento.

Si potrebbe parlare di truffa delle carceri, dove nella realtà gli spazi esistono ma sulla carta vengono cancellati. Tutto a discapito dei detenuti. Non è certo tutto così il pianeta carceri.

In alcuni istituti moderni e ampi si trova ancora spazio, come il carcere esemplare di Bollate, alle porte di Milano, che può contenere senza problemi 1.400 detenuti, e oggi ha spazio per altri 300 ma non possono arrivare perché mancano gli agenti di polizia penitenziaria. E questo è un altro fattore che intralcia l'amministrazione penitenziaria perché i poliziotti sono mal distribuiti: nelle regioni del Nord vi è il maggiore disagio e si registrano situazioni drammatiche, rispetto a quelle del Sud che non hanno carenze di organico.

I posti occultati e la mala organizzazione carceraria emergono da relazioni di servizio di cui è in possesso il Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria). Dossier riservati che sono rimasti nei cassetti dei vertici dell'amministrazione e dai quali emergono considerazioni tecniche che già in passato avrebbero portato ad evitare il sovraffollamento delle carceri e ottenere una buona vivibilità dei detenuti.

«Si deve considerare», si legge in una relazione del Dap, «quello che normalmente avviene nel momento in cui si attiva un nuovo istituto penitenziario, quando direttore e comandante di reparto si trovano con la necessità di dover avviare in tutta fretta (talvolta anche per ragioni estranee all'amministrazione penitenziaria) la struttura, potendo contare su un numero di unità di personale oggettivamente limitato. Questo comporta, necessariamente, scelte che tendono a diminuire notevolmente i posti di servizio e, di conseguenza, a sacrificare gli spazi originariamente previsti per i detenuti e, dunque, i vertici dell'istituto devono "inventarsi", trovando normalmente l'accordo degli organi superiori, soluzioni apparentemente legittime ma che, in realtà, rispondono alla duplice esigenza di utilizzare meno unità di personale e ridurre la capienza dell'istituto».

Questo è probabilmente quello che è avvenuto, fra gli altri, al
carcere di Monte Acuto di Ancona, in quello di Modena e Reggio Emilia, a Siena, al Pagliarelli di Palermo, a San Cataldo in provincia di Caltanissetta e a L'Aquila.

Una riforma che può allentare l'emergenza carceri è dunque sotto gli occhi degli operatori, i quali, ottimizzando e recuperando le sezioni originariamente destinate ai detenuti, distribuendo meglio gli agenti, potrebbero fare largo a un migliaio di posti.

Il giudice Alfonso Sabella è stato direttore dell'ufficio centrale dell'ispettorato del Dap fino al momento in cui l'allora capo del Dipartimento, Giovanni Tinebra, ha disposto la soppressione dell'ufficio, e in questo ruolo aveva riscontrato nelle carceri i posti occultati. «È un fenomeno che ho purtroppo constatato frequentemente », conferma Sabella. «Per fare qualche esempio ricordo ad Ancona una sezione detentiva da oltre cento posti da cui sono stati addirittura rimossi i cancelli allo scopo di destinarla, ma solo apparentemente, a presunti laboratori di medici specialisti. Oppure un'intera sezione del carcere di Cassino che era stata adibita, e credo lo sia tuttora, ad accogliere gli archivi del vecchio carcere dell'isola di Santo Stefano, chiuso mezzo secolo fa. Mi viene in mente la sezione dell'alta sicurezza di Trapani dove le pareti venivano ciclicamente imbiancate per far apparire l'esistenza di lavori di ristrutturazione in corso oppure ancora le centinaia di stanze destinate formalmente a magazzini che ho trovato in molte carceri emiliane in cui erano sistemati solo un secchio e una scopa».

Il magistrato svela alcuni retroscena di questo sistema carcerario. «Potrei continuare a lungo», aggiunge l'ex direttore dell'ispettorato, «segnalando gli stratagemmi utilizzati da molte direzioni per non aprire le sezioni disponibili allegando inesistenti ragioni di sicurezza come per esempio a L'Aquila dove un intero piano detentivo veniva tenuto vuoto perché in quello sotto c'era Leoluca Bagarella, o ancora del padiglione D2 di Viterbo capace di quasi 400 posti che non veniva aperto perché la direzione non provvedeva, da anni, a collegare con un metro di tubo la rete fognaria a quella comunale. O a Cassino dove la nuova sezione detentiva da oltre cento posti non veniva aperta perché mancavano due rubinetti delle cucine e la direzione, invece di comprarli con i fondi dell'economato, aveva inserito l'istanza di finanziamento dei pochi spiccioli necessari in una richiesta di rifacimento del muro di cinta per milioni di euro e che quindi sarebbe stata concessa dopo anni. E tutto ciò senza parlare delle numerosissime ex sezioni femminili perfettamente agibili e presenti in tante carceri e totalmente inutilizzate».

Per Sabella al Pagliarelli di Palermo vi è stata per molto tempo una sezione, originariamente prevista per oltre 250 donne, che non veniva aperta. Ma come possono essere trasformati i dati delle carceri? «Sulle capienze ufficiali il discorso sarebbe troppo lungo», precisa il giudice. «Mi limito a segnalarle che i dati ufficiali forniti dal Dap non corrispondevano nemmeno con quelli che mi avevano fatto avere i Provveditori regionali con scarti anche rilevanti di diverse migliaia di posti detenuto. Avevo infatti effettuato delle verifiche e avevo accertato, per esempio, che per il servizio informatico del Dap il Piemonte aveva una capienza inferiore di 1.400 posti rispetto a quelli che si ottenevano sommando i dati che mi avevano comunicato dalle singole carceri piemontesi e lo stesso era avvenuto per il Lazio con 1.200 posti in meno». La responsabilità dell'occultamento dei posti detenuti, secondo Sabella, non è da attribuire ai direttori, i quali «svolgono con vera abnegazione e professionalità un compito difficilissimo».

Il nostro Paese ha adottato, con rare eccezioni, la scelta del regime chiuso nel senso che i detenuti, compresi quelli considerati di bassa e media sicurezza, vengono tenuti nelle loro celle per 20 ore al giorno e fanno, normalmente, due ore d'aria in cortile e due di socialità ma sempre all'interno della loro sezione. Ciò, se da un lato rende inutilmente più gravose le condizioni di vita dei detenuti, tanto che l'Italia è ai primi posti nel mondo occidentale per suicidi ed atti di autolesionismo in carcere, dall'altro comporta che almeno un agente debba costantemente trovarsi all'interno della sezione per controllare i detenuti, posto di servizio - secondo ambienti del Dap - particolarmente sgradito al personale di Polizia penitenziaria.

Da qui la scelta dei direttori di operare la concentrazione dei detenuti in modo da poterli controllare con un numero minore di agenti.

Nel carcere di Bollate vi sono 1.038 detenuti e 381 agenti di polizia penitenziaria, di questi solo 250 lavorano con i carcerati. E in questo istituto viene applicato il regime aperto. I detenuti sono liberi di circolare nella struttura. Non vi è sovraffollamento, nonostante il numero di reclusi, e lo scorso anno vi sono stati solo otto episodi di autolesionismo e nessun suicidio. Un dato che dimostra come questo regime aperto funzioni.

Per i gravi motivi che affliggono il sistema penitenziario il deputato Augusto Di Stanislao (Idv) ha proposto alla Camera l'istituzione di una commissione d'inchiesta. E in una mozione sottolinea le condizioni di insicurezza in cui è costretta a lavorare la polizia penitenziaria rivelando che «mediamente un agente deve sorvegliare 100 detenuti di giorno, circa 250 nei turni notturni; per garantire le traduzioni il personale (circa 6 mila agenti al giorno, ndr.) è costretto a viaggiare anche per 20 ore consecutive su mezzi non idonei».

Sulla base dei dati negativi del sovraffollamento il governo ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale e ha previsto, oltre all'assunzione di 2 mila poliziotti, la costruzione di 47 nuovi padiglioni (entro il 2010, quando finirà l'emergenza) e poi di 18 nuovi istituti, con 21.709 posti in più. Nel frattempo i detenuti sono diventati 64.406, i suicidi dietro le sbarre sono 72, e l'Italia è stata condannata per la prima volta dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo per «trattamenti inumani e degradanti » a causa della mancanza di spazio nelle carceri.

Per rendere esecutivo il piano è stato nominato commissario delegato Franco Ionta, capo del Dap, il quale avrà poteri «eccezionali in deroga alle procedure ordinarie» per velocizzare e semplificare le gare d'appalto, e potrà avvalersi, in deroga alle norme in vigore, anche di consulenti esterni e decidere la secretazione delle procedure di affidamento dei contratti pubblici. Insomma, l'iter della costruzione delle nuove carceri sarà semplificato, e sotto la regia del presidente del Consiglio, la documentazione relativa agli appalti potrà essere classificata come «riservatissima ».

In questo modo consentirà di selezionare gli operatori economici interessati agli appalti e di proteggere tutta la documentazione relativa ai lavori milionari. Come braccio operativo avrà la Protezione civile spa ed a Ionta sono stati messi a disposizione 500 milioni di euro.

Lontano dagli occhi

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Morire nel deserto
di Fabrizio Gatti - Un filmato documenta la tragica fine degli immigrati espulsi dalla Libia. Così come prevede l'accordo siglato tra Berlusconi e Gheddafi - da L'espresso del 14/01/2010

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Le mani nere sollevate ad afferrare l'aria. Pochi passi oltre, il vento sulla camicia anima la smorfia dell'ultimo respiro di una donna. E subito accanto, il corpo di un ragazzo ancora chino nella preghiera da cui non si è mai rialzato.


Muoiono così gli immigrati. Così finiscono gli uomini e le donne che non sbarcano più a Lampedusa. Bloccati in Libia dall'accordo Roma-Tripoli e riconsegnati al deserto.

Abbandonati sulla sabbia appena oltre il confine. A volte sono obbligati a proseguire a piedi: fino al fortino militare di Madama, piccolo avamposto dell'esercito del Niger, 80 chilometri più a Sud. Altre volte si perdono. Cadono a faccia in giù sfiniti, affamati, assetati senza che nessuno trovi più i loro cadaveri. Un filmato però rivela una di queste stragi. Un breve video che 'L'espresso' è riuscito a fare uscire dalla Libia e poi dal Niger. Un'operazione di rimpatrio andata male. Undici morti. Sette uomini e quattro donne, da quanto è possibile vedere nelle immagini.

Il video è stato girato con un telefonino da una persona in viaggio dalla Libia al Niger lungo la rotta che da Al Gatrun, ultima oasi libica, porta a Madama e a Dao Timmi, avamposti militari della Repubblica nigerina. È la rotta degli schiavi. La stessa percorsa dal 2003 da decine di migliaia di emigranti africani. Uomini e donne in cerca di lavoro in Libia, per poi pagarsi il viaggio in barca fino a Lampedusa.

Secondo la data di creazione del file, il video è stato girato il 16 marzo 2009 alle 12.31. L'ora centrale della giornata è confermata dall'assenza di ombre nelle immagini. L'uomo che filma è accompagnato da una pattuglia militare. Per una breve sequenza, si vede un fuoristrada pick-up con una mitragliatrice.

Le 11 persone morte di sete sarebbero arrivate fino a quel punto a piedi. Si sono raccolte vicino a una collina di rocce e sabbia. Forse speravano di avvistare da quell'altura un convoglio di passaggio e chiedere aiuto. Addosso o accanto ai cadaveri, scarpe e pantaloni di marche che si comprano in Libia.

Intorno non ci sono altri fuoristrada o camion. Non ci sono strade né piste battute. È una regione del Sahara in cui ci si orienta solo con il sole e le stelle.

In quei giorni migliaia di emigranti dell'Africa subsahariana salgono in Libia da Agadez, l'ultima città del Niger, ancora isolata dal mondo per la guerra civile tra l'esercito e una fazione di tuareg. Dalla fine del 2008 si contano almeno 10 mila emigranti in partenza ogni mese, dopo una lunga interruzione del traffico di clandestini. I passatori del Sahara riaprono gli affari sfruttando la ribellione tuareg, sostenuta dalla Francia per ottenere lo sfruttamento del secondo giacimento al mondo di uranio, a Imouraren, vicino ad Agadez.

Il 2 marzo il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è invece in Libia per siglare l'ennesimo accordo con il colonnello Muhammar Gheddafi. È la visita in cui Berlusconi porge le scuse per l'occupazione coloniale. Quella in cui i governi di Roma e Tripoli mettono le basi per la collaborazione nei pattugliamenti sottocosta, contro le partenze per Lampedusa. Nel 2008 il regime di Gheddafi aveva lasciato salpare verso l'Italia più di 30 mila immigrati, un record che ha richiamato in Libia migliaia di persone fino a quel momento bloccate ad Agadez.

Nell'incontro Berlusconi e Gheddafi non parlano solo di immigrazione. Discutono di affari personali, dei 5 miliardi di dollari in vent'anni a carico dell'Eni per il risarcimento dei danni di guerra, di contratti per il petrolio e il gas.

Tripoli offre subito un segnale di buona volontà e rispedisce verso il Niger centinaia di migranti rinchiusi nel campo di detenzione della base militare di Al Gatrun. Forse i cadaveri filmati con il telefonino sono la tragica conclusione di una di quelle operazioni. Al Gatrun e Agadez sono separate da 1.490 chilometri di deserto. Dieci giorni di viaggio e in mezzo una sola oasi, Dirkou. Fino a quando non si entra ad Agadez non si può dire di essere sopravvissuti al Sahara. Ma la polizia e l'esercito libici di Al Gatrun non si sono mai preoccupati della sorte degli stranieri una volta lasciati al di là del confine con il Niger.

Gli immigrati espulsi vengono scaricati dai camion militari e costretti a proseguire a piedi. Oppure sono affidati ai trafficanti che spesso li abbandonano molto prima di arrivare a destinazione.

Dalla linea di frontiera tratteggiata sulla carta geografica, la prima postazione militare del Niger è solo Madama, a 80 chilometri di colline e avvallamenti senza pozzi. Non c'è altro. Ottanta chilometri in cui, persa la rotta e abbandonato il bidone d'acqua per camminare leggeri, si è destinati a morire.

Già nel 2005 'L'espresso' aveva scoperto che le operazioni di rimpatrio verso il Niger, dopo il primo accordo tra Berlusconi e Gheddafi, avevano provocato 106 morti in quattro mesi. Ed erano soltanto le cifre ufficiali. Come i 50 schiacciati da un camion sovraccarico che si è rovesciato. Oppure il ragazzo del Ghana mai identificato, sbranato da un branco di cani selvatici durante una sosta a Madama. E le tre ragazze nigeriane morte di sete o le 15 raccolte in fin di vita con quattro uomini da un convoglio umanitario francese, dopo essere state abbandonate. Tutti condannati a morte da chi aveva organizzato il loro rimpatrio.

La notizia del filmato arriva a 'L'espresso' nella primavera 2009 durante la preparazione del documentario 'Sulla via di Agadez'. L'uomo con il telefonino però non è più nella città di fango rosso: "È tornato in Libia", sostiene una fonte: "Lo stesso giorno del filmato, a molti chilometri da quei cadaveri, hanno soccorso due ragazzi ancora vivi. I due hanno detto che erano stati costretti dai militari a partire da Al Gatrun. Arrivati nella zona del confine hanno dovuto proseguire a piedi".

Nel Sahara i passaparola richiedono molto tempo. Ma di solito vanno a destinazione. Il 16 luglio il dvd con il filmato viene recapitato in redazione. Mancano altre conferme. Bisogna aspettare che l'uomo con il telefonino torni ad Agadez e passano cinque mesi. È il 9 gennaio di quest'anno quando finalmente arrivano le risposte.

Nel frattempo il video finisce anche in altre mani. Il 13 dicembre qualcuno lo carica su YouTube dagli Stati Uniti. Dice di averlo ricevuto da Augustine, ospite di un campo di rifugiati a Malta. Augustine però non conosce la storia delle espulsioni a piedi. Palazzo Chigi sa ufficialmente dal 3 marzo 2004 che gli immigrati bloccati in Libia subiscono maltrattamenti. È la data stampata su un rapporto riservato della presidenza del Consiglio che 'L'espresso' ha potuto leggere. La relazione viene consegnata allo staff di Berlusconi, dopo la visita nel Sahara della delegazione della Protezione civile che deve progettare la costruzione dei centri di detenzione libici: "Si ritiene di dover scegliere, per motivi di opportunità e per una fluidità delle operazioni, la via che impegna il governo italiano in misura ridotta", dice il rapporto: "Tale soluzione ci farebbe calare meno nella configurazione dei centri, in considerazione anche del trattamento che riservano i libici ai cittadini extracomunitari trattenuti nei loro centri, di cui si allega documentazione fotografica".

Il governo invece si cala, eccome. Fino a chiedere a Gheddafi di proteggere i nostri confini meridionali. Costi quel che costi. Incuranti che in Italia esiste ancora l'articolo 40 del codice penale. Dice così: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo".

giovedì 28 gennaio 2010

Dichiarazione di inizio abusi?!

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ART. 27 - LEGGE REGIONALE (PUGLIA) 19 febbraio 2008, n. 1 - (APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DI DENUNCIA INIZIO ATTIVITÀ PER GLI IMPIANTI DI PRODUZIONE DI ENERGIA ELETTRICA DA FONTI RINNOVABILI)
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1. Per gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), con potenza elettrica nominale fino a 1 MW e da realizzare nella Regione Puglia, fatte salve le norme in materia di valutazione di impatto ambientale e di valutazione di incidenza, si applica la disciplina della denuncia di inizio attività (DIA), di cui agli articoli 22 e 23 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e successive modifiche e integrazioni, nei seguenti casi:

a) impianti fotovoltaici posti su edifici industriali, commerciali e servizi, e/o collocati a terra internamente a complessi industriali, commerciali e servizi esistenti o da costruire;

b) impianti eolici on-shore;

c) impianti idraulici;

d) impianti alimentati a biomassa posti internamente a complessi industriali, agricoli, commerciali e servizi, esistenti o da costruire;

e) impianti alimentati a gas di discarica, posti internamente alla stessa discarica, esistente o da costruire;

f) impianti alimentati a gas residuati dai processi di depurazione, posti internamente a complessi industriali, agricoli, commerciali e servizi, esistenti o da costruire;

g) impianti alimentati a biogas, posti internamente a complessi industriali, agricoli,commerciali e servizi, esistenti o da costruire.
2. Gli impianti di cui al comma 1 possono anche essere realizzati in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici, tenuto, peraltro, conto di quanto specificato dall’articolo 12, comma 7, del d.lgs. 387/2003.

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vd. anche "Circolare 38-8763 del 1 Agosto 2008" emanata dall' Assessorato allo sviluppo economico e innovazione tecnologica:

Commissione Nazionale... SOB!

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Viaggio nella crisi delle Authority Consob, le tentazioni di Cardia
di Adriano Bonafede - da Repubblica Affari&Finanza del 25/01/2010

Il rito più importante di ogni mattina, alla Consob, non è il cappuccino e il cornetto ma la lettura dei giornali. Con un misto di curiosità e di paura. Curiosità per sapere quali società quotate cominciano ad avere dei problemi. Paura perché bisogna in fretta e furia iniziare un' istruttoria su queste società prima che lo faccia la Procura e prima che i giornali tirino fuori altre magagne senza che la Consob lo sappia.

Basta cominciare da qui per tracciare il magro bilancio degli anni in cui Lamberto Cardia è stato presidente. Il suo incarico, prorogato da 5 a 7 anni, scadrà a giugno. E, salvo che non tiri fuori dal cilindro qualche altro coniglio, (proprio adesso è uscita fuori la storia che sarebbe in gestazione un' altra leggina ad hoc per prorogare la sua presidenza) quella è la data in cui libererà il posto alla Commissione nazionale per le società e la Borsa.

Ma perché la Consob, che nella sua relazione annuale dà molti numeri sull' attività ispettiva ma poi, sul campo, non arriva mai prima sul luogo del delitto, ma soltanto dopo che sono già presenti i fotografi, la stampa e i magistrati? È accaduto con tutti i casi più gravi ed eclatanti, a cominciare da Parlamat: una società che per anni e anni ha falsificato i bilanci senza che alla Consob ne sapessero nulla. Per finire al caso più recente, quello di Mariella Burani, su cui ha aperto un' indagine la magistratura.

Non è strano, tutto ciò. È vero che Cardia ha messo in luce, nell' ultima Relazione annuale, il rafforzamento che c' è stato negli ultimi anni nel numero dei dipendenti, passati dai 382 del 2004 ai 506 del 2008. Quel che però il presidente non dice è che questo aumento non è andato a rafforzare con decisione l' attività operativa, l' unica in grado di scovare le frodi. E infatti, oltre il 50 per cento degli addetti continua a essere impiegato nell' attività burocratica di supporto, solo il 49,3 in quella operativa. Alla Sec, tanto per fare un raffronto, all' attività operativa è dedicato il 77 per cento dei dipendenti.

Ma non basta. Cardia non dice che alla Consob ci sono pochi analisti di bilancio, quelli cioè che sarebbero in grado spulciare fra i conti delle società quotate per vedere cosa c' è che non quadra.

E ancora: questa pur debole struttura non ha finora individuato un solo caso eclatante di frode (come Parmalat, per intendersi) anche perché sembra che l' orientamento del management interno sia quello di indirizzare questi analisti più verso l' avvistamento di possibili crisi aziendali che non verso la scoperta delle frodi. Ma non è detto, naturalmente, che dietro una crisi ci sia per forza una frode, mentre è possibile che dietro bilanci floridi si nasconda qualche magagna.

Nell' ultima Relazione Cardia ha dedicato pagine e pagine alla crisi dei mercati finanziari. Secondo gli osservatori, ciò indica che Cardia sembra interessato più alla stabilità del sistema come fa la Banca d' Italia, che però ha proprio questo come scopo istituzionale - che non alla trasparenza, alla correttezza dei comportanti sociali e alla tutela del risparmio (che significa soprattutto tutela dei piccoli risparmiatori e degli azionisti di minoranza). Saremmo di fronte, secondo alcuni, di un errore metodologico che, a cascata, permea ogni altro comportamento dell' autorità. La quale, ricordiamolo, ha come obiettivo di legge "la tutela degli investitori e l' efficienza, la trasparenza e lo sviluppo del mercato mobiliare". Non la stabilità del sistema.

La filosofia di Cardia è bene esposta nella lettera che lo stesso presidente Consob inviò a Repubblica in risposta al direttore di Affari & Finanza, Massimo Giannini. «Nell' attuale contesto di crisi dei mercati finanziari ritengo che sia opportuno rafforzare gli strumenti di difesa delle società quotate, in particolare quelle di valenza strategica».

La lettera si riferiva alle misure che erano state prese dal governo e che lui stesso aveva caldeggiato: in particolare l' emendamento che introduce la possibilità, per le società quotate, di riacquistare fino al 20% delle proprie azioni (buy back), esentando anche dall' Opa chi, esercitando il controllo con il 30 per cento, decida di salire al 35. Il combinato disposto di queste due norme consente all' azionista di controllo di salire fino al 43,75 per cento (anche se come si ricorderà le azioni proprie non votano) senza dover estendere l' offerta a tutti gli azionisti. Una filosofia che ha fatto inorridire molti osservatori distaccati.

L' economista Alessandro Penati nota che «per Cardia è importante difendere gli interessi del governo, della nazione, degli azionisti di controllo, della proprietà delle banche. Ma la Consob dovrebbe invece difendere la trasparenza e gli interessi di chi non è tutelato, ovvero gli azionisti di minoranza e i risparmiatori».

L' altro tassello della filosofia di Cardia è quello di stabilire un buon rapporto con i politici, a cui non si è mai opposto. Ma questa sua benevolenza è andata a volte in contrasto con la sua mission. Prendiamo il caso Alitalia: nell' ultima Relazione Cardia sostiene di aver "rafforzato la vigilanza sulla regolarità nel funzionamento del mercato" a proposito della compagnia di bandiera. Ma verso la fine del governo Prodi, in concomitanza con l' offerta Air FranceKlm, si sono susseguite dichiarazioni pubbliche da parte di Berlusconi e di altri esponenti del centro destra in grado di avere considerevoli effetti sul titolo. Cardia, però, è rimasto incredibilmente muto. Successivamente, il decreto Alitalia del governo Berlusconi, sospendeva - in contrasto con la legge comunitaria - gli obblighi d' informazione al mercato durante l' offerta coordinata da Intesa Sanpaolo. La sospensione di quegli obblighi è passata senza che Cardia proferisse una sola parola, mentre si ricorda qualche dichiarazione contraria del presidente dell' Antitrust, Antonio Catricalà.

Nell' ultima relazione annuale, il passaggio che riguarda questo decreto non riporta alcuna considerazione in merito, come se se lo avesse accettato naturaliter. La politica di Cardia è guardinga anche nei confronti delle Procure della Repubblica, a cui del resto sono arrivate soltanto "2 segnalazioni 2" per abuso di informazioni privilegiate nel 2008, come riportato nella Relazione. La preoccupazione è solo quella di mantenere buoni rapporti. La verità sostengono gli addetti ai lavori è che le due istituzioni dovrebbero collaborare per comprendere come le frodi avvengono ed evitare casi futuri. Invece pare che le Procure si fidino poco della Consob, e facciano indagini per conto loro. Se un giorno si dovrà fare un bilancio degli anni di Cardia alla Consob, bisognerà comunque mettere in primo piano come in tutti questi anni l' attività sia andata a rilento. L' elenco delle cose non fatte è molto lungo, ma se c' è una cosa che davvero esprime la cifra di questa presidenza è il mancato regolamento sulle "operazioni su parti correlate" (ovvero quelle operazioni che coinvolgono una società quotata e i suoi amministratori o gli azionisti di rilievo o gli organi di controllo). Nella sua ultima Relazione annuale, Cardia scrive con orgoglio che "le scelte regolamentari che saranno a breve sottoposte a una nuova ultima fase di consultazione, intendono salvaguardare la flessibilità e l' autonomia delle società». Sembra una cosa quasi fatta, ma è dal gennaio 2005 che questo regolamento avrebbe dovuto essere emanato. Invece, dopo due tentativi andati a vuoto, resta appeso al palo.

«La Consob - ha scritto l' ex commissario Salvatore Bragantini - sta mancando al suo dovere. Lo strapotere dei soci di controllo è la grande anomalia del nostro mercato finanziario, che espone gli azionisti non rappresentati nella stanza dei bottoni ad ogni sorta di angherie». L' elenco delle operazioni dubbie sulle parti correlate è lungo. Uno dei più recenti riguarda Telecom Italia, che ha venduto la tedesca Hansanet a Telefonica tra le proteste del socio di minoranza Fossati, che riteneva fosse stata svenduta. «Ma la verità - dice sconsolato un osservatore - è che Cardia non si è mai voluto mettere contro Mediobanca, che vive di operazioni su parti correlate».

Mettersi "contro" non è proprio nello stile di Cardia. Che adesso, per tutti i "servigi" resi un po' qua e un po' là cerca, alla venerabile età di 76 anni, un premio sotto forma di un rinnovo dell' attuale incarico. In subordine, è ben accetto anche un altro posto.

martedì 26 gennaio 2010

Le cose di Puglia e quelle d'Italia

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Quando il capo non sa vedere
di Adriano Sofri - da La Repubblica del 26/01/2010

Primo: non infierire. Ma come si fa? Mettiamola così: ci sono due buone notizie. In Puglia si sono svolte le primarie con un'adesione sentita, e finalmente abbiamo il candidato. A Bologna il sindaco si è dimesso, che è proprio la cosa che andava fatta. Tutto bene, dunque. E ora facciamo due chiacchiere.

Bersani ha ribadito lealmente il sostegno del Pd a Vendola, caldo di una così larga investitura. E ricapitolando - mi viene sempre questo verbo, mannaggia - le ragioni dell'impegno per Boccia, ha ribadito il proposito di guadagnare adesioni fuori dai confini della sinistra, dentro i quali invece è destinata a restare la candidatura di Vendola.

Una prima obiezione possibile riguarda la riduzione della ricerca di consensi cosiddetti moderati all'alleanza con l'Udc. Tanto più quando non ci si misuri con tempi tagliati e fronti uniti, come sarebbe stato se Berlusconi avesse imposto elezioni politiche anticipate. L'obiezione maggiore è un'altra: e cioè che i dirigenti del Pd commettono un serio peccato di appropriazione indebita quando parlano del "proprio" elettorato, dei "proprii" suffragi già acquisiti e bisognosi di allargamento. Non mi riferisco tanto agli elettori che si sono presi da tempo una libera uscita dalle fedeltà di schieramento. Mi riferisco piuttosto alle persone, ancora tantissime, che si sentono tuttavia fedeli a un ideale, o almeno a un'idea, di sinistra e di democrazia, e stentano a riconoscerla nel Pd. Persone che dirottano il loro voto sulla costellazione di partiti e movimenti che affettano un'intransigenza eroica, o lo conservano al pulviscolo di etichette che furono già della sinistra malamente detta "radicale" e diventata extraparlamentare, dai verdi ai comunisti, o, più consistentemente, decidono che non voteranno più, con uno spirito amaro o punitivo.
Si faccia un conto, come suggeriscono i politici "esperti", e ne risulterà una somma di voti superiore a quella promessa dall'alleanza con l'Udc. Il saldo diventa più allarmante se si consideri la disaffezione crescente dentro la base che si definì un po' rozzamente "lo zoccolo duro" (formula non così distante da quella borsistica del "parco buoi", e non per caso). Ogni volta che i dirigenti del Pd fanno appello alla necessità di andare oltre i "propri" elettori, stanno ingannando se stessi. Frughino bene: hanno le tasche bucate.

Ognuno dei voti che presumono "loro" va riguadagnato. E non al prezzo di un sovrappiù di irresponsabilità, di rinuncia all'intenzione di governare, di demagogia: al contrario.

Abbiamo intravisto sugli schermi le lunghe file di cittadini pugliesi alle primarie, e anche la folla entusiasta a festeggiarne il risultato. È improbabile che quei cittadini siano ostili per principio alle alleanze e ai ragionati compromessi: però non si rassegnano alle primarie negate per non dispiacere a Casini. Chissà quanti di quei cittadini che si sobbarcano all'impegno di una domenica d'inverno per scegliere un candidato avrebbero deciso di non andare a votare nelle elezioni "vere" se il candidato fosse stato imposto d'autorità.

I dirigenti del Pd non lo vedono? Vivono altrove, e di che cosa? Massimo D'Alema ebbe un'uscita magistrale, qualche giorno fa, quando all'improvviso dichiarò, delle cose di Puglia, di non capirci niente. È un buon punto di partenza. Le primarie per la segreteria del Pd furono in fondo, per chi non fosse legato stretto alle cordate concorrenti, un apprezzabile modo per restituire autorevolezza alla leadership di un partito che l'aveva perduta, chiunque vincesse fra candidati senz'altro rispettabili.

Questa ennesima intenzione responsabile portò un numero ingente di persone a votare, e non la passione per i rivali in gara. Ancora una volta, come ora in Puglia, le persone che vogliono bene all'Italia e alla democrazia e a un ideale, o almeno un'idea, di sinistra, si mostrarono disinteressate e lungimiranti, e disposte a dare una spinta - fisicamente, come si fa con una macchina che è restata col motore spento in salita - a chi aspirava a rappresentarle.

Il piccolo gruzzolo in più di consensi che si registrò subito dopo (già dilapidato) non andava tanto alla corrente che era stata più votata, ma alla speranza che una leadership fosse stata investita, e facesse il suo mestiere. Quanto al merito, proprio dalla corrente di Bersani e di D'Alema ci si aspettava caso mai che fosse la più determinata e capace di recuperare l'adesione di quella larga diaspora perduta fra antipolitica, risentimento, giustizialismo e caudillismo - o pura stanchezza. Tutto precipitato nello strettissimo imbuto dell'Udc serva di due padroni, o padrona di due servi.

Ma bisogna pur limitare i danni della perdita di regioni che ci appartenevano - diranno i dirigenti esperti. (Dai quali ci si aspetta che prima o poi mettano all'ordine del giorno la questione sempre più spaventosa della sistemazione personale di chi "fa politica", e della sua influenza soverchiante sulla politica da fare).

Ammesso che sia il punto, e non è mai bello far politica con l'acqua alla gola, o più su, il risultato è lontanissimo dal confermarne il realismo. Se non si perderà la Puglia, sarà grazie all'insipienza della destra, che a sua volta non scherza, ma non gliene importa granché, le piace così, e grazie alla ribellione degli elettori delle primarie a una politica di partito in cui l'ottusità ha fatto a gara con la prepotenza. D'Alema, che non si tira indietro dalle proprie responsabilità, farebbe però male oggi ad ammettere semplicemente una sconfitta. Le sconfitte prevedono una misura: qui non c'è stata partita. Qui, semplicemente, uno dei contendenti "non ci aveva capito niente". E se invece ci aveva capito, e ci si è infilato lo stesso, occorre rivolgersi ai professionisti, ma della psicoanalisi o della vita monastica. Se non si perderà il Lazio, sarà grazie alla speranza suscitata da una candidata come Emma Bonino che, qualunque opinione si abbia delle sue singole opinioni, non appartiene a quel modo di praticare la politica.
Parliamo di candidati a presiedere regioni, Bonino e Vendola, che starebbero comunque al proprio posto in un Partito Democratico come quello che si era immaginato, e per il quale ancora a distanza di anni e di disinganni la gente si mette in fila d'inverno, a rimetterlo in carreggiata e dare una spinta.

Fire burns (but purifies)

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Nichi e il suo popolo lontani dalla nomenclatura
di Curzio Maltese - da "La Repubblica" del 26/01/2010

Il ciclone Vendola ha travolto tutti. Da oggi il laboratorio pugliese, che avrebbe dovuto lanciare il nuovo centrosinistra alleato con i centristi, si rovescia nel laboratorio della crisi del Pd.

La festa e il dramma, evidenti da giorni, sono diventati reali alle 10 di sera, quando nel quartier generale di Vendola sono cominciati a piovere numeri come pietre sulle teste del gruppo dirigente democratico.

Ottanta a venti per Vendola su Francesco Boccia a Bari centro, 75 a 25 nella periferia di Japigia, 80 a 20 in provincia.

Subito dopo, le conferme perfino nelle "Stalingrado del dalemismo": le vittorie nel Salento, nei quartieri operai di Taranto, nel Foggiano, nel Brindisino.

A Gallipoli, città di D' Alema, vince addirittura con l' 85%.

Alle dieci e un quarto la sede del Pd è già deserta e la Fabbrica di Vendola esplode di gioia e di telecamere. Il compagno Nichi non resiste, esce dalla stanza dei fedelissimi. Cinque anni fa aveva dovuto aspettare l' alba per vincere di 1.600 voti su 80mila, oggi stravince in un plebiscito di 200mila.

In procinto di scoppiare nell' elegante principe di Galles, annuncia: «È fatta, è fatta!». Quasi gli saltano addosso, ma lui non perde la lucidità del politico. Capisce che una vittoria tanto clamorosa, al limite del problematico, gli nega il diritto d' infierire: «Ringrazio anzitutto gli elettori del partito democratico. S' è visto che io ero il loro candidato. Il torto di D' Alema sta nel non aver capito loro, non me. Ma da oggi io, più di chiunque altro, mi devo far carico delle incomprensioni passate. Perché ora dobbiamo vincere sul serio».

La notizia che il centrodestra può correre diviso, con il poco attraente candidato Rocco Palese e l' indipendente Poli Bortone, sostenuta dall' Udc, è la ciliegia sulla festa del compagno Nichi. «Se è così, possiamo farcela e anche bene», riesce ancora a dire prima di essere risucchiato da una festa che durerà fino all' alba.

È nata una stella nel panorama politico nazionale, la stella di Vendola, destinato forse a vincere altre partite oltre i confini della Puglia. E ne sono tramontate altre. Ma soprattutto una. Massimo D' Alema raccoglie la peggiore sconfitta in quasi quarant' anni di vita politica. Nella partita pugliese si era speso più di tutti, più di sempre. Neppure nel 2001, quando era in gioco il suo stesso seggio a Gallipoli, D' Alema aveva fatto tante telefonate, partecipato a tanti dibattiti televisivi, macinato chilometri e chilometri su e giù per il Tavoliere.

Accanto al pupillo Boccia fino all' ultimo. A costo di far rinviare la nomina al Copasir. A costo di fregarsene della par condicio per apparire con un implicito appello al voto a dodici ore da una consultazione popolare sullo schermo della tv pubblica, di Raitre, nel salotto di Fabio Fazio. Come non ha mai fatto neppure Berlusconi con le reti di proprietà.

Ma è stato tutto inutile, anzi controproducente. L' ex feudo gli ha voltato le spalle in massa, quasi con gioia. Sotto la maschera dell' ossequio forzato, è evidente, covava un largo rancore. E quando D' Alema ha messo da solo la testa nella trappola pugliese, a molti non è parso vero di soffiare nei corni della caccia alla volpe.

La Volpe del Tavoliere, come lo chiamava Luigi Pintor, è finita impagliata. Ma la sconfitta non è solo sua. Con il peso del carisma e dell' ostinazione, il leader ha trascinato con sé alla disfatta l' intero Partito democratico. Alla fine per combattere la battaglia dalemiana tutti hanno messo la faccia nella partita pugliese, e tutti l' hanno persa. Da Pierluigi Bersani a Dario Franceschini, passando per Enrico Letta.

Il laboratorio è scoppiato nelle mani dell' incauto scienziato, ma le schegge sono tutte conficcate nel corpaccione inerte del partito. La rivolta della base si è misurata qui in Puglia nei seggi, s' è vista nella notte di Bari con il pellegrinaggio da San Nichi di lunghe teorie di militanti, consiglieri, semplici elettori democratici. Di fronte a scelte o inesistenti o incomprensibili di un partito, come ha scritto Ilvo Diamanti, «senza fissa dimora».

L' elezione di Bersani era stata salutata con entusiasmo, ma poi il segretario è progressivamente sparito, delegando le scelte e la scena ad altri, oscurato dalle trame dell' asse di ferro D' Alema e di Casini. Che alla prima prova concreta si è rivelato un asse di vetro soffiato. La stessa mappa delle alleanze sulla quale il Pd bersanian-dalemiano ha costruito l' intero dibattito, la centralità dell' alleanza con l' Udc, risulta sconvolta.

Il Pd credeva di liquidare i conti col Vendola pugliese e ora si ritroverà a dover far i conti con Vendola leader nazionale, potenzialmente popolare quanto Casini e Di Pietro e forse perfino di più. Nel complesso, un bel guaio per Bersani. Tanto da far passare sottotraccia un altro disastro.

Il siluramento di Francesco Boccia, cui per la seconda volta è stato fatale l' abbraccio dalemiano, che doveva essere nelle intenzioni di Bersani il leader del ricambio generazionale. Ruolo per il quale il giovane professore aveva numeri e curriculum.

Non fosse per il limite, comune ai giovani del Pd, di non avere mai il coraggio di uccidere simbolicamente i padri. E neppure i padrini. La Puglia rimane in ogni caso laboratorio. Qui la partita del nuovo Pd è stata persa, ma da qui può cominciarne un' altra. Dipende da come il partitone e l' intero centrosinistra reagiranno alla batosta.

Le ipotesi sono due. Le stesse che circolavano fin da ieri notte.

Il primo film è «D' Alema 2, la vendetta». L' apparato dalemiano o quel che resta lavorano per la sconfitta di Vendola alle elezioni di marzo. In modo da confermare, a posteriori, la bontà della scelta del capo, pur non compresa dalla stolta base.

Il secondo film è «Bersani, l' avvento». Il segretario ufficiale del Pd decide di prendere in mano il disastro pugliese e di giocarsi fino in fondo la carta Vendola, che oggi appare l' unica vincente del centrosinistra nel Mezzogiorno, a parte la meno significativa Basilicata.

Sbagliare è umano, perseverare sarebbe a questo punto più patetico che diabolico.

lunedì 25 gennaio 2010

Il cyber-sino-grossraum

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Perché il potere ha paura del web
Scontro tra Cina e Usa sul motore di ricerca. In gioco c'è la libertà d'informazione. E il concetto di sovranità nazionale ai tempi di Internet dal corrispondente - di Federico Rampini- da La Repubblica del 25/01/2010

NEW YORK - "Il nostro obiettivo è cambiare il mondo", è uno slogan di Eric Schmidt, il chief executive officer di Google. Lo stesso Schmidt che quattro anni fa, all'inaugurazione del motore di ricerca in mandarino, con l'indirizzo locale segnato dal suffisso ". cn", dichiarò: "Siamo qui in Cina per rimanerci sempre".

Ora quelle due affermazioni - cambiare il mondo, rimanere in Cina - sono diventate tra loro inconciliabili. Se Google non accetta le regole di Pechino, e la censura delle autorità locali, la sua avventura cinese dovrà chiudersi. Lo scontro epico che si è aperto fra la più grande potenza di Internet e la più grande nazione del pianeta, è destinato a ridefinire nei prossimi anni l'architettura globale del web, i limiti geopolitici della libertà d'informazione, e il nuovo concetto di sovranità nello spazio online.

Il precipitare degli eventi ha colto tutti di sorpresa, almeno in Occidente. Questo copione non è stato scritto né a Mountain View, il quartier generale di Google nella Silicon Valley californiana, né tanto meno a Washington nelle sedi del potere politico.

Negli scenari più pessimisti elaborati dal Pentagono, quando due anni fa l'Esercito Popolare di Liberazione centrò in pieno un proprio satellite in un test di guerre stellari, fu detto che la conquista dello spazio sarebbe stata la prossima sfida tra l'America e la Cina. Nessuno aveva messo in conto quello che sta accadendo da due settimane: l'improvviso gelo tra i soci del G2 per il controllo del cyber-spazio.

Eppure quando Google lanciò la sua versione in mandarino nel 2006, la censura di Stato esisteva già. Come Microsoft, come Yahoo, come Rupert Murdoch, anche il colosso di Mountain View accettò il patto con il diavolo: collaborare con il regime facendo propri i suoi tabù, interiorizzarne i limiti alla libertà di espressione, autocensurarsi con dei filtri di software automatici approvati dalle autorità locali. Sembrava logico. Google si comportava come tante altre multinazionali "normali", separava le regole universali del business capitalistico dal contesto politico locale. Come un qualsiasi fabbricante di auto o di jeans,

Schmidt pensò di poter chiudere gli occhi sugli abusi contro i diritti umani, e partire alla conquista del più vasto mercato mondiale. Anzi, nel 2006 la questione di coscienza per gli americani sembrava risolta una volta per tutti dalle parole ottimiste di Bill Gates: "Per quanti limiti possano mettere all'attività di Microsoft, l'avvento di Internet introduce nella società cinese un volume d'informazioni senza precedenti. La Cina sarà comunque migliore di prima, grazie a noi".

Ai vertici di Google, a onor del vero, non tutti la pensavano così. Sulle condizioni dello sbarco in Cina aveva dei forti dubbi uno dei due co-fondatori dell'azienda, Sergey Brin. Per la sua biografia personale - nato nell'Unione sovietica, emigrò in America da bambino con i genitori - aveva intuito un'incompatibilità insolubile, tra la "natura" profonda del business di Google e quella della Repubblica Popolare.
La casistica dei conflitti tra i regimi autoritari e la libertà online è ricca di precedenti, dall'Iran alla Birmania. Ma la questione cambia completamente quando la posta in gioco è un mercato di 330 milioni di utenti, ormai il più popoloso del pianeta.

Il comunicato del governo cinese che stigmatizza Google e ribatte alle critiche di Hillary Clinton, fa esplicito riferimento alle "regole della rete cinese". Nessuno immagina che possa esistere un "Internet iraniano". Ci sono solo le barriere che Teheran frappone per l'accesso locale alla rete: che resta una, indivisa e globale.

Ma l'idea che la Cina possa organizzarsi come un cyber-universo autonomo da noi, è altrettanto impensabile?In Occidente diamo ormai per scontato da anni che la superficie terrestre sia scandagliata minuziosamente da GoogleMap. Ricordo il divertimento con cui mi accorsi, quando abitavo a San Francisco, che dalle foto satellitari si poteva vedere non solo casa mia ma anche la targa della mia auto. Non appena mi trasferii a Pechino nel 2004 scoprii che intere zone della capitale cinese invece erano oscurate, a cominciare dal quartiere di Zhongnanhai dove risiede la nomenklatura comunista. Ciò che a noi appare naturale, o inevitabile, cioè che la mappatura terrestre sia fatta da un'impresa privata americana, non è accettabile a Pechino.

E' un'intrusione virtuale nella sovranità: un valore per il quale gli Stati scendono in guerra da secoli. E visto da Pechino il confine che separa un colosso privato come Google dal governo di Washington, è labile.
Ken Auletta, autore del saggio "Googled" (il passivo del verbo "googlare"), osserva che "poche altre tecnologie - la stampa di Gutenberg, il telefono - hanno avuto effetti sociali rivoluzionari come questo motore di ricerca, che ha sconvolto il nostro modo di produrre informazione, selezionarla, consumarla".

Ma Internet essendo nato in America, tutta l'organizzazione del world wide web ha un'impronta made in Usa. Porta i segni inconfondibili di un "sistema": regole e valori nati negli Stati Uniti, per estensione occidentali, non necessariamente percepiti come universali a Pechino. Dove noi parliamo di "architettura aperta", altri capiscono "egemonia americana".

La Grande Muraglia di Fuoco, è il nome che i dissidenti hanno affibbiato alla censura online della Repubblica Popolare. E' il più moderno e sofisticato apparato di controllo dell'informazione, con almeno 15.000 tecnici informatici in servizio permanente. Eppure il governo di Pechino ha avuto bisogno fino a ieri di appoggiarsi sul "collaborazionismo" di Google, Yahoo, Microsoft.

I dissidenti, o anche i giovani cinesi più curiosi e dotati per l'informatica, hanno appreso ad aggirare la Grande Muraglia. Usano metodi simili a quelli degli hacker: ad esempio per dissimularsi attraverso domicili online all'estero.

Sono esattamente i metodi mutuati dai cyber-pirati al servizio del governo, nelle incursioni denunciate da Google il 12 gennaio. Hanno violato la privacy della posta elettronica Gmail di numerosi militanti dei diritti umani; nonché di un grande studio legale di Los Angeles impegnato in un processo contro aziende di Stato cinesi per violazioni di copyright. E hanno profanato le email di 34 aziende hi-tech nella Silicon Valley, un grave episodio di spionaggio industriale che getta un'ombra sulla sicurezza di tutto l'impero Google.
L'esperto d'informatica Holman Jenkins evoca per questa offensiva un precedente poco noto. "All'inizio degli anni Novanta ci fu un'escalation di episodi di pirateria navale nel Mare della Cina meridionale. Hong Kong, che era ancora una colonia inglese, raccolse le prove che i pirati erano in realtà al servizio delle forze armate cinesi. Era un modo per rivendicare la sovranità di Pechino su rotte di comunicazione strategiche".

I cyber-pirati che la Cina ha scatenato contro Google, innescando un conflitto che ha portato fino all'intervento dell'Amministrazione Obama, starebbero facendo un gioco simile. Come il corsaro Francis Drake al servizio di sua maestà Elisabetta I contro l'impero spagnolo. In palio stavolta c'è uno spazio virtuale, perfino più strategico delle rotte marittime.

La Cina punta molto in alto, se ha sentito il bisogno di intimidire Google fino a mettere in discussione la privacy dei suoi clienti industriali: tutti ormai potenzialmente spiati. I dirigenti della Repubblica Popolare possono immaginare un Trattato di Yalta del terzo millennio, con cui l'America prenda atto della loro sovranità su una parte di Internet. Se passa il loro piano, il discorso visionario di Hillary Clinton che ha esaltato Internet come "il grande egualizzatore", si applicherebbe solo al di qua della Grande Muraglia.

Immemorabile

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Il Pd, un partito senza fissa dimora
di Ilvo Diamanti - da La Repubblica del 24/01/2010

Il clima d' opinione è grigio. Economia e lavoro. Politica. Anche la fiducia nel premier e nel governo, passata la benefica onda emotiva prodotta dall' aggressione a Milano, un mese fa, si è ripiegata. Senza, peraltro, che l' opposizione ne abbia tratto vantaggio.

Il Partito Democratico, in particolare. Nelle stime elettorali naviga intorno al 30%. Un po' sotto, per la verità. È sceso, rispetto a qualche mese fa. L' elezione di Bersani l' aveva rafforzato. Ragionevole e competente, guardato con simpatia anche dagli elettori di centrodestra. Poi, la sospensione delle ostilità interne: non c' erano più abituati gli elettori del Pd. Così la nave del Pd aveva ripreso il suo viaggio.

Oggi, all' avvio della campagna che conduce alle elezioni regionali di fine marzo, sembra essersi incagliata di nuovo. Senza una rotta. Senza una bussola. Le stesse primarie per scegliere i candidati stanno frenando il Pd. Ciò è significativo, visto che le primarie sono, al tempo stesso, «mito e rito fondativo» (la formula è di Arturo Parisi) del Partito Unitario di Centrosinistra.

L' Ulivo di Prodi, dapprima, e, quindi, il Partito Democratico di Veltroni. Diversi modelli di un comune progetto politico e istituzionale: maggioritario e bipolare. La risposta di centrosinistra al modello imposto da Berlusconi.

Oggi le primarie sembrano, invece, un' arena dove regolare i conflitti interni al partito e alla coalizione. Perlopiù, un ostacolo di fronte ai disegni del gruppo dirigente del partito. D' altronde, è difficile ricorrere alle primarie se si privilegia l' alleanza con l' Udc. Che ha fatto del proporzionale una ragione di vita. E che, comunque, non avrebbe una base elettorale adeguata a imporre i propri candidati in una consultazione popolare.

Più in generale, è arduo cogliere una strategia coerente nelle scelte del Pd, in questa fase. Quasi dovunque il partito appare diviso. In contrasto al proprio interno e con i dirigenti centrali. Spesso incapace di decidere.

Nel Lazio si è piegato - senza discussioni - all' autocandidatura della Bonino. Non proprio in accordo con l' intenzione di accostarsi alle componenti cattoliche moderate e all' Udc.

In Puglia, invece, oggi le primarie celebrano lo scontro - più che il confronto - tra Vendola e Boccia (trainato da D' Alema). Divisi su molti temi. Non ultimo l' intesa con l' Udc.

Anche a Venezia la scelta del candidato sindaco avviene in un clima acceso. Da vicende personali e dalla questione del rapporto con i moderati. Insomma, le primarie, invece di mobilitare e unificare gli elettori del Pd e del centrosinistra intorno alla ricerca di un candidato comune, si stanno trasformando in una resa dei conti.

Il Pd nazionale non sembra, peraltro, capace di regolare le scelte assunte in ambito regionale. Semmai, le complica ulteriormente. Somma le proprie divisioni a quelle locali. Rischia, così, di affermarsi un "modello balcanizzato", come l' ha definito Edmondo Berselli.

Ciò avviene perché il Pd resta sospeso in una zona d' ombra. A metà fra la tentazione - implicita e inconfessa - di rifare il "partito di massa" fondato sulle appartenenze e sull' apparato. E l' imperativo - esplicito - di costruire il "partito dei cittadini", maggioritario e bipolare.

Il percorso congressuale ha accentuato questa incertezza. Dapprima, la lunga sequenza dei congressi a livello territoriale ha mimato il "partito di iscritti". Le primarie, poi, hanno evocato il modello americano, che coinvolge elettori e simpatizzanti.

Bersani è stato eletto da entrambi i modelli di partito. Avrebbe potuto, sfruttando la legittimazione conquistata, imprimere una svolta chiara al Pd. Indicare un progetto, definire un programma, con obiettivi chiari. Ai "suoi" elettori, anzitutto. Fin qui non l' ha fatto. Anche se continua a riscuotere ampia fiducia personale, mentre il Pd perde consensi. Una contraddizione significativa. Riflesso dell' incerta identità del Pd, ma anche di una leadership personale ancora incompiuta. Bersani, infatti, è simpatico a molti, non solo a sinistra, anche perché le sue parole non fanno male. Non segnano confini netti. Non marcano appartenenze né differenze chiare. Nello stesso Pd, dove emergono posizioni diverse e talora contraddittorie, ad esempio: sui temi della giustizia e dell' immunità. E ciò lascia trapelare il dubbio che le decisioni importanti vengano prese altrove, da altri. I soliti noti. Magari è una scelta meditata. Ha deciso di non decidere, di lasciare in sospeso le scelte strategiche, in vista di tempi migliori. Per non tradurre le divisioni interne in fratture. Ma allora meglio dirlo apertamente, per non passare da debole. In-deciso.

Insomma, il Pd oggi è un partito in grado di aggregare il 30% dei voti. Ma non dà speranza. Gli riesce difficile allargare i propri consensi. (E perfino tenere quelli che ha). Da solo ma anche attraverso alleanze. Perché non dice chi è, cosa intende fare e insieme a chi. È un ibrido. Forse: un equivoco.

Un partito di massa senza apparato, con una debole presenza nella società e un ceto politico resistente. Al centro e in periferia. Un partito americano provincialista. Senza territorio ma condizionato dalle oligarchie locali. Un partito americano all' italiana. Parla un linguaggio difficile da capire.

Anche perché non ha un vocabolario e neppure un sillabario. Non sa gridare uno slogan che risuoni forte nell' aria. Non ha una bandiera riconoscibile, dai sostenitori e dagli avversari. Le parole che usa hanno perso il significato di un tempo. Come il "riformismo". Oggi che le riforme le vogliono tutti. A partire dal premiere dal centrodestra, che pensano alla giustizia, al "legittimo impedimento" e al presidenzialismo. Il Pd: quali riforme vuole? E quali "non" vuole? Detti la sua agenda. Dica due o tre cose "memorabili".

Che restino nella memoria. Le primarie che si svolgono a partire da oggi e le elezioni di marzo, per il Pd, sono un' occasione importante. Importantissima. Da non perdere. Per non perdersi definitivamente. Ma chi lo guida deve tracciare un orizzonte. Che vada oltre i prossimi tre mesi. Per non rischiare che il Pd venga percepito come un partito provvisorio. Soprattutto dai suoi elettori.

domenica 24 gennaio 2010

Mattone dopo mattone vien su la muraglia

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Dalla Cina ultimatum agli Usa"Pronti a oscurare Google"
Il regime si schiera contro "il nuovo imperialismo cybernetico degli Stati Uniti". E lancia il suo diktat: "Sì ai filtri oppure andate via" dal nostro corrispondente - di Giampaolo Visetti - da La Repubblica del 24/01/2010

PECHINO - La Cina è pronta a chiudere Google. Il manifesto della Clinton contro la censura sul web, ha rovesciato lo scontro. Fino a ieri era il motore di ricerca Usa a minacciare l'abbandono del Dragone. Ora è il governo di Pechino a lanciare l'ultimatum.Se Google non si piegherà alla censura cinese, cosa che continua prudentemente a fare dal 2006, e la Casa Bianca non toglierà la Cina dalla lista nera degli stati canaglia online, il sito cinese del colosso di Mountain Views sarà oscurato.

A tre giorni dallo scoppio della guerra di Internet tra Cina e Usa, innescata dall'attacco di hacker cinesi contro 34 clienti hi-tech di Google, la decisione è stata presa ieri dai vertici del partito comunista e dai più influenti esponenti del governo. Domani saranno riprese le trattative tra le autorità e Google.

Ma la strategia è cambiata. Prima delle accuse americane, Pechino era decisa a sgonfiare il caso nel tempo, trattandolo come un contenzioso commerciale. Ora che il salto politico internazionale è compiuto, e che le reazioni interne premiano la linea nazionalista del governo schierato contro "il nuovo imperialismo cybernetico degli Stati Uniti", lo strappo è destinato ad un'accelerazione prima della fine di gennaio.

I leader cinesi, sorpresi dall'attacco della Clinton, si sono infine convinti che una Cina "Google-free" convenga, sia al partito che al business. Alzare il primo muro virtuale del millennio darebbe a Pechino il vantaggio dell'iniziativa nel definire la nuova geografia del potere nella Rete. La Cina non intende lasciarsi sfuggire la grande occasione offerta dalla crisi aperta da Google.

I mediatori cinesi sono stati incaricati di dire a quelli americani che se gli Stati Uniti non forniranno le prove che gli attacchi denunciati sono partiti dall'Oriente con il sostegno di Pechino, la Cina darà il via "al progetto di un Internet totalmente cinese", che ricalchi i confini nazionali reali. "La globalizzazione del web - ha spiegato Fu Mengzi, docente dell'Istituto di relazioni internazionali e consulente presidenziale - ha messo in crisi l'equilibrio tra democrazie e Paesi con tradizioni politiche diverse. Dividere le nuove acque internazionali da quelle territoriali può evitare tensioni dannose. Senza Google Pechino non perde nulla e guadagna parecchio".

Nel 2009 l'affare Internet in Cina ha superato i 74 miliardi di dollari, quest'anno arriverà ai 100. I 385 milioni di utenti animano un sesto del mercato mondiale e già hanno decretato il primato planetario dell'e-commerce di Alibaba, che ha rilevato Yahoo.

L'addio di Google e l'incertezza di Microsoft e Cisco, offriranno al cinese Baidu non solo il quasi monopolio del business interno, ma l'opportunità di insidiare anche all'estero le web corportation Usa. Per questo giornali e tivù cinesi, controllati dal governo, hanno proseguito ieri la martellante campagna antiamericana. "Non siamo né l'Iraq, né le Hawaii - il tormentone - e non faremo la fine del Giappone. L'Internet di Washington non ci trasformerà in una colonia degli interessi occidentali".
Dietro lo scontro, secondo analisti vicini al governo, non ci sono solo i timori di instabilità cinesi e la necessità americana di riaffermare la leadership della libertà. Pechino è convinta che l'affondo della Casa Bianca sulla censura del web sia "una ritorsione". "E' partita - dice Sun Zhe, docente di scienza delle finanze all'università Tsinghua - dopo che la Cina ha deciso di resistere alle pressioni per apprezzare lo yuan e per non ridurre gli acquisti del debito americano. Ma non si vede perché dovremmo continuare a saldare i conti scoperti di chi cerca di frenare la nostra crescita".

La Cina resta il primo cliente dei bond Usa. All'inizio dell'anno il governo ha comunicato però l'intenzione di "differenziare" le riserve in valuta estera. Nel 2010 solo il 4,6% dei titoli di stato statunitensi dovrebbero finire nelle casse cinesi, contro il 20,2 del 2008 e il 47,4 del 2006.Considerata la sete di denaro americana per riaccendere la crescita, i vertici comunisti cinesi si sono convinti di poter vincere il braccio di ferro sulla Rete.

Ieri hanno deciso così di bloccare la distribuzione in Cina di "Army of Two", kolossal del videogiochi made in Usa ambientato a Shanghai. Il gioco termina con la distruzione della metropoli pronta a inaugurare l'Expo e alluderebbe a mercenari assoldati dal governo per incarcerare i contestatori. Pronta la reazione americana.

Critiche per la censura cinese su internet, a sorpresa, sono arrivate dal vice presidente di Taiwan. L'ambasciata e i consolati Usa in Cina hanno convocato nelle sedi per "un lungo confronto" i più famosi blogger dissidenti.

La nuova grande muraglia

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Google, la Cina sfida gli Usa Danni alle relazioni bilaterali
di Giampaolo Visetti - da La Repubblica del 23 gennaio 2010

PECHINO - Il disperato tentativo della Cina di ridurre il caso Google ad una disputa commerciale è fallito. Il manifesto di Hillary Clinton per la libertà di internet, ha posto il problema dell' inscindibilità tra Rete, business e democrazia. Pechino, fino all' altra notte decisa a non farsi trascinare in un pericoloso scontro diplomatico contro Washington, è stata costretta a raccogliere una sfida dagli esiti incerti.

La prima guerra online del vacillante G2, dai diritti di Google, si è spostata al controllo delle informazioni web: l' affare del secolo. Per la Cina, internet è da ieri il «male assoluto». Per gli Stati Uniti è invece il «bene assoluto».

Il salto politico di qualità, certificato dalla durissima reazione cinese alle accuse della Casa Bianca, erige un Muro virtuale tra le potenze del millennio.

Google e il partito comunista cinese, in poche ore, hanno visto bruciare le residue possibilità di un accordo senza sconfitti. La comunità internazionale, sorpresa e impreparata al conflitto, assiste ad una sfida che ridefinisce gli equilibri tra le due superpotenze: elevando la Cina, quale antagonista, sullo stesso piano degli Usa.

Dopo l' irritazione a caldo, il ministero degli Esteri cinese ha risposto ieri alla Clinton con una meditata nota di condanna che sancisce una rottura profonda. «Le irragionevoli accuse alla Cina del segretario di Stato americano - ha scritto il portavoce Ma Zhaoxu- danneggiano i rapporti tra Cina e Stati Uniti. Ci opponiamo fermamente a queste parole e a queste azioni, contrarie alla realtà. Chiediamo agli Stati Uniti di rispettare i fatti e di smettere di usare la cosiddetta libertà di informazione per criticare la Cina senza motivo». Secondo il governo di Pechino, «internet in Cina è aperto e la Cina è il Paese più attivo nel suo sviluppo. Ma la Cina ha la sua situazione nazionale, le sue tradizioni e la sua cultura, e gestisce internet secondo le sue leggi e le norme internazionali». Infine la minaccia economica: «Nell' interesse delle relazioni bilaterali, auspichiamo che gli Usa rispettino gli impegni assunti dai leader».

Ufficialmente, l' attacco delle autorità cinesi si è fermato qui. Giornali e media online, sotto rigido controllo statale, si sono invece scatenati ricorrendo a toni nazionalistici estremi.

Il ministro della Pubblica sicurezza, Meng Jianzhu, ha dichiarato che «internet è diventato lo strumento principale delle forze anti-cinesi per infiltrarsi nel Paese e amplificare la loro forza distruttiva».

Il Global Times, barometro del potere in lingua inglese, ha scritto che «le pressioni Usa per l' apertura di internet sono l' ultima forma dell' imperialismo occidentale deciso a imporre i propri valori».

Secondo il giornale, «un web libero renderebbe la Cina vulnerabile alla retorica aggressiva dell' America e difendersiè essenziale per la stabilità».

In un editoriale di inedita violenza intitolato, «Ossigeno per l' egemonia Usa», il China Daily ha denunciato i tentativi di Cia e Casa Bianca di usare la Rete per innescare «rivoluzioni a colori» negli Stati antiUsa. Il giornale ha citato i casi di Iran e Moldavia nel 2009, accusando la Casa Bianca di volersi infiltrare anche in Cina. Secondo gli analisti, l' articolo riprende un rapporto riservato del ministero degli Interni.

Dopo poche ore, a conferma che il governo cinese è ancora indeciso sull' intensità dello scontro, gli articoli contro l' America sono stati tolti dalla Rete. Aggirando i filtri, si è però sfogato il popolo clandestino dei blogger. Su un fronte gli oppositori, che inneggiavano «al discorso storico di Hillary», «allo scoppio della guerra di internet», e «all' inizio di una nuova Guerra Fredda tra democrazia e autoritarismo», paragonando le accuse della Clinton alle parole di Churchill sulla cortina di ferro.

Chi pensava che internet avrebbe cambiato la Cina, inizia a pensare che potrebbe avvenire il contrario. Se il caso Google doveva essere un test sulla voglia di libertà della web-generation cinese, il risultato per ora è una vittoria della censura, della propaganda e dell' orgoglio patriottico imposti online da Pechino.

La Cina però è preoccupata. E' convinta che la Casa Bianca abbia cercato lo scontro. «Internet - ha detto un consigliere presidenziale- è il solo potere che gli resta. Non può perdere il controllo mondiale delle informazioni. Ma il segnale vero è che in due mesi il vento tra Usa e Cina è cambiato».

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La Rete non può accettare censure così Pechino si isola dal mondo
da La Repubblica del 23/01/2010

L'amministratore delegato di Google Eric Schmidt ha sempre difeso la decisione della sua azienda di operare in Cina, malgrado le restrizione imposte da Pechino alla libertà di Internet. Ma la settimana scorsa Google ha seccamente minacciato di sospendere ogni servizio dopo essere stata presa di mira da hacker che si ritiene abbiano scagliato il loro attacco proprio da quel Paese.
Presidente Schmidt, come mai ha preso questa decisione che ha colto di sorpresa molta gente e tante aziende?

«Google è un' azienda diversa da molte altre. Operare in Cina è sempre stato molto difficile per noi. Come è risaputo ci era stato chiesto di accettare un sistema di censura che ci aveva messo in grande imbarazzo, ma eravamo giunti alla conclusione che operare in quel Paese era meglio in ogni caso per tutti - per noi e per il popolo cinese - più che rimanere in disparte. Abbiamo deciso di non poter più collaborare con questa censura».

Che cosa è accaduto nei mesi scorsi, per indurvi a prendere questa decisione?

«Abbiamo preso atto concretamente di come i dissidenti cinesi siano controllati quando navigano in Rete. Non abbiamo prove a carico di nessuno, ma ognuno può trarre da sé le proprie conclusioni».

Non crede che alcune persone potranno affermare che voi avete una precisa responsabilità come fiduciari nei confronti dei vostri azionisti e che pertanto a voi spetta massimizzare i profitti?

«La nostra non è stata una decisione aziendale: questa naturalmente sarebbe stata di continuare a operare nel mercato cinese. La nostra è stata una decisione basata su valori precisi. Abbiamo cercato di chiedere ciò che sarebbe stato meglio da un' ottica globale».

Crede che la Cina possa ancora globalizzarsi pur mantenendo il suo sistema di censura?

«L' iniziale globalizzazione della Cina ha rappresentato un grande slancio. Ha tolto milioni di persone dalla povertà. Ma Pechino applica forti restrizioni all' informazione, come nessun altro Paese ».

Ritiene che questo possa avere un impatto economico sulla stessa Cina?

«Sul lungo periodo sì. Si sta molto meglioe si lavora meglio in un sistema nel quale la gente è libera di immaginare, inventare, entrare in contatto con il prossimo. Quante più persone possono interagire e fare progetti, tanto meglio. Quante più persone allacciano rapporti tra di loro, tanto meglio. Ogni cosa che noi facciamo a Google mira a conferire potere ai singoli utenti, ed è proprio questo che ci ripromettiamo di fare».

© Newsweek - Traduzione Anna Bissanti

Alea iacta est

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Un diritto ad personam
di Franco Cordero - da "La Repubblica" del 23/01/2009

Nelle classifiche dei paesi evoluti l' Italia naviga male e detiene un primato poco invidiabile, lo stile criminofilo. "Stilus" significa anche procedura.

In penale, quando ho dato l' esame sessant' anni fa, era materia risibile, imparata su libercoli: fino al 1938 addirittura assente dal programma accademico; stava relegata nell' ultimo, trascurabile capitolo del corso penalistico.

Carnelutti la chiamava Cenerentola. Tra i penalisti eminenti era quasi punto d' onore schivarla, mirando diritto alla discussione nel merito: se quel fatto sia avvenuto; chi l' abbia commesso; come qualificarloe via seguitando. Adesso rende servizi loschi.

Il codice nato ventun anni fa doveva chiudere l' epoca postinquisitoria ma i legislatori non sapevano cosa significhi "processo accusatorio": significa forme sobrie, garanzie serie, agonismo leale, rigorosa economia del contraddittorio; in mano loro diventa cavillo micromaniaco, invadente, esoso, comodo nelle furberie ostruzionistiche; e la XIII legislatura completa la perversione codificando teoremi filati dalla Bicamerale (sui quali Licio Gelli vanta un diritto d' autore); sotto insegna centrosinistra spirava aria berlusconoide.

La prassi attua una metamorfosi. Chiamiamola arte del sur place: difese con poche chances nel merito giocano partite dilatorie; sparisce l' autentica questione, se l' asserito reato esista e chi l' abbia commesso; futili schermaglie sfruttano i torpori dell' apparato sovraccarico, finché il tempo inghiotta i reati.

Fanno storia le campagne giudiziarie dell' Unto: dopo tanto rumore resta un delitto estinto; altrove tagliava corto abolendo la norma incriminante, vedi falso in bilancio.

Dopo sette anni e mezzo al vertice dell' esecutivo, avendo sconvolto l' ordinamento nel suo privatissimo interesse, corre ancora rischi penali: persa l' immunità fornitagli dai due lodi, invalidi come la legge con cui aveva sotterrato l' appello del pubblico ministero, gioca grosso macchinando un istituto senza eguali nel museo dei mostri giudiziari.

I processi italiani sono patologicamente lunghi (abbiamo appena visto perché): in proposito l' Italia figura male; cresce l' esborso alle vittime d' una giustizia tardiva; e il dl n. 1880, su cui Palazzo Madama ha votato mercoledì 20 gennaio, quadra i circoli riprendendo l' idea d' una sinistra toccata dal virus bicamerale.

Eccola: imporre dei termini, scaduti i quali ogni processo ancora pendente vada in fumo; colpevoli o innocenti, tutti fuori, sotto lo scudo del ne bis in idem; allegramente liquidati i carichi pendenti, la giostra riparte.

Figure da commedia dell' arte, divertenti ma non attecchiranno, finché il diritto sia ancora cosa seria. Sarà il quarto capolavoro berlusconiano abortito davanti alla Consulta. Vari i motivi. Consideriamone alcuni.

Esiste l' articolo 112 della Costituzione: l' azione penale è obbligatoria; se non agisce, il pubblico ministero, deve chiedere un provvedimento che lo sciolga dall' obbligo, perché rebus sic stantibus l' accusa sarebbe insostenibile; e rimane aperta la via d' ulteriori apporti. Azione obbligatoria, quindi irretrattabile: ciascuno dei due caratteri implica l' altro; mosse dall' attore pubblico, le ruote girano da sole, mentre nei sistemi anglosassoni può desistere (allora drops the prosecution ); quando cambia idea, chieda l' assoluzione; il giudice dirà se vi sia o no un colpevole. Questo sistema esclude processi evanescenti allo scadere dei termini: equivarrebbero all' accusa lasciata cadere; ogni procedimento bene aperto, dove non ricorrano fatti estintivi del reato, esige la decisione nel merito (salvo un singolo caso, il non liquet previsto dall' articolo 202, comma 3, qualora il segreto di Stato interdica la prova sine qua non). L' articolo 112 della Costituzione è tra i più aborriti nel bestiario nero del monarca; e sappiamo cosa covi quando elucubra revisioni costituzionali: procure agli ordini del ministro affinché i possibili affari penali passino nel filtro delle convenienze. Sedici anni fa chi voleva insediare in via Arenula? Cesare Previti, uomo sicuro.

Secondo profilo d' invalidità: l' occupante scatena un terremoto pro domo sua; il mostro deve valere nei giudizi pendenti; così stabilisce l' articolo 2, escludendo appello e Cassazione (irragionevolmente: articolo 3 della Costituzione). Anche in tali limiti la novità affossa procedimenti a migliaia: è amnistia sotto nome diverso, anzi l' effetto risulta più grave, perché l' amnistia estingue i reati, mentre qui, svanendo il processo, non consta niente, e magari esistono prove più chiare del sole; ma le amnistie richiedono leggi votate in ogni articolo da due terzi delle Camere (articolo 79 della Costituzione).

Terzo profilo (stiamo enumerando i macroscopicamente rilevabili). I processi lunghi non dipendono da operatori poltroni, hanno cause organiche: ipertrofia legislativa, apparato povero, gli pseudogarantismi sotto la cui ala l' augusta persona guadagnava tempo; né questa politica criminofila vuol rimuoverle. Supponiamo che un processo su sette sconfini dai termini estinguendosi. La giustizia penale diventa lotteria: essere o no quel fortunato dipende da imponderabili, fuori d' ogni criterio legale, nella sfera del caso (tanto peggio se fosse manovrato sotto banco); Bridoye, racconta Rabelais, emetteva sentenze tirando i dadi. Valutato secondo l' articolo 3 della Costituzione, l' intero meccanismo appare perverso.

La ventesima legge ad personam salva l' ipotetico corruttore nel caso Mills, perché il procedimento pende davanti al Tribunale da oltre due anni, id est un quarto della pena massima. Supponiamo una notitia criminis precoce, indagini rapidissime, udienza preliminare trascinata ad defatigandum e altrettanto il dibattimento: scaduti due anni, scatta il praestigium; il processo era fuoco fatuo; Monsieur ridiventa innocente, anche se le prove lo inchiodano, quando l' ipotetico reato sarebbe prescritto solo in otto anni (articolo 157 codice penale), anzi dieci, contando gl' incrementi da fatti interruttivi. I numeri misurano l' assurdo dell' avere un padrone senza barlumi d' etica.