martedì 29 settembre 2009

Ceci tuera cela

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Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l'edificio.
Questo pensiero, ci sembra, aveva due facce. Anzitutto era il pensiero di un prete. Era il terrore del sacerdozio davanti a un fenomeno nuovo, la stampa. Era lo spavento e l'accecamento dell'uomo del santuario davanti al torchio luminoso di Gutenberg. Era la cattedra e il manoscritto, la parola parlata e quella scritta, in allarme davanti alla parola stampata; qualcosa come lo stupore di un passerotto che vedesse l'angelo della Legione aprire tutti i suoi sei milioni di ali. Era il grido del profeta che sente rumoreggiare e brulicare l'umanità emancipata, che vede nell'avvenire l'intelligenza soppiantare la fede, l'opinione detronizzare la religione, il mondo scuotere Roma. Pronostico del filosofo che vede il pensiero umano, volatilizzato dalla stampa, evaporare dal vaso teocratico. Terrore del soldato che esamina l'ariete di bronzo e che dice: la torre crollerà. Questo significava che un potere stava per succedere ad un altro potere. Questo voleva dire: la stampa ucciderà la chiesa.
Ma sotto questo pensiero, senza dubbio il primo e il più semplice, ce n'era a nostro avviso un altro più nuovo, un corollario del primo, meno facile da avvertire e più facile da contestare, una visione altrettanto filosofica, non più del prete soltanto, ma del sapiente e dell'artista. Era il presentimento che il pensiero umano, cambiando di forma, avrebbe cambiato nel modo di espressione, che l'idea capitale di ogni generazione non sarebbe più stata scritta con lo stesso materiale e nella stessa maniera, che il libro di pietra, così solido e durevole, avrebbe fatto posto al libro di carta, più solido e più durevole ancora. Sotto quest'aspetto la formula vaga dell'arcidiacono aveva un secondo senso; significava che un'arte avrebbe detronizzato un'altra arte. Voleva dire: La stampa distruggerà l'architettura.
In effetti dall'origine delle cose fino a tutto il quindicesimo secolo dell'era cristiana, l'architettura è il grande libro dell'umanità, l'espressione principale dell'uomo nei diversi gradi del suo sviluppo, in quanto forza e in quanto intelligenza. Quando la memoria delle prima razze fu satura, quando il bagaglio di ricordi divenne per il genere umano così pesante e confuso che la parola, nuda e volante, rischiò di impolverirlo nel proprio andare, questi ricordi furono trascritti sul suolo nella maniera più visibile, più durevole e insieme più naturale, Ogni tradizione fu suggellata sotto un monumento.
I primi monumenti non furono se non blocchi di roccia che il ferro non aveva toccato, dice Mosè. L'architettura cominciò come ogni scrittura. Fu anzitutto alfabeto. Si metteva una pietra dritta, ed era una lettera, e ogni lettera era un geroglifico e su ogni geroglifico poggiava una serie di idee come il capitello su una colonna. Così fecero i primi uomini, dovunque, nello stesso momento, sulla superficie del mondo intero. La pietra alzata dei celti si ritrova nella Siberia asiatica, nella pampas americane.
Più tardi si fecero parole. Una pietra fu sovrapposta a un'altra, le sillabe di granito si accoppiarono, il verbo tentò qualche combinazione. Il dolmen e il cromlech celti, il tumulo etrusco, il galgal ebraico sono parole. Alcuni, il tumulo sopratutto, sono nomi propri. Talvolta, quando la pietra era molta e c'era un vasto spazio, si scriveva una frase. L'immenso cumulo di Karnac è una formula completa.
Vennero infine i libri. Le tradizioni avevano generato simboli, sotto i quali esse sparivano come il tronco d'albero sotto il fogliame. Tutti questi simboli, nei quali l'umanità credeva, andavano crescendo, moltiplicandosi, incrociandosi, complicandosi sempre di più; i primi monumenti non bastavano più a contenerli, ne traboccavano da ogni parte, a stento quei monumenti esprimevano ancora la tradizione primitiva, semplice, nuda e fissata al suolo come quelli erano. Il simbolo doveva espandersi nell'edificio. Allora l'architettura si sviluppò con il pensiero umano; divenne gigantesca, ebbe mille teste e mille braccia, e fissò in una forma eterna, visibile, palpabile, tutto quel fluttuante simbolismo. Mentre Dedalo, che è la forza, misurava, mentre Orfeo, che è l'intelligenza, cantava, il pilastro che è una lettera, l'arcata che è una sillaba, la piramide che è una parola, mossi da una legge che è insieme geometrica e poetica, si raggruppavano, si combinavano, si fondevano, scendevano, salivano, si disponevano vicini sul suolo, o in diversi piani nel cielo, fino a che non avessero scritto, dettati dall'idea generale di un'epoca, quei libri meravigliosi che erano anche meravigliosi edifici: la pagoda di Eklinga, il Ramseion egiziano, il tempio di Salomone.
L'idea madre, il verbo, non solo era al fondo di tutti questi edifici, ma anche nella loro forma. Il tempio di Salomone, per esempio, non era semplicemente la rilegatura del libro santo, era proprio il libro santo. In ciascuno dei suoi recinti concentrici i preti potevano leggere il verbo tradotto e palesato agli occhi e seguirne le trasformazioni di santuario in santuario fino ad afferrarlo nell'ultimo tabernacolo nella forma più concreta e ancora architettonica; l'arca. In tal modo il verbo era contenuto nell'edificio, ma era l'involucro di questo a esprimerne l'immagine, come la figura umana sul sarcofago di una mummia. E non solo la forma degli edifici ma anche la posizione in cui si situavano rivelava il pensiero in essi rappresentato. A seconda che esprimessero un simbolo leggiadro o cupo, la Grecia coronava le proprie montagne di un tempio armonioso all'occhio, l'India sventrava le sue per cesellarvi quelle deformi pagode sotterranee sostenute da gigantesche file di elefanti di granito.
In tal modo nei primi seimila anni del mondo dalla più immemorabile pagoda dell'Indostan alla cattedrale di Colonia, l'architettura è stata la grande scrittura del genere umano. E questo è talmente vero che non soltanto ogni simbolo religioso, ma anche ogni pensiero umano ha in quel libro immenso la propria pagina e il proprio monumento.
Ogni civiltà comincia con la teocrazia e finisce con la democrazia. Questa legge della libertà che succede all'unità è scritta nell'architettura.
Infatti, insistiamo su questo punto, non bisogna credere che l'arte muraria si limiti a costruire il tempio, a esprimere il mito e il simbolismo sacerdotale e a trascrivere in geroglifici sulle proprie pagine di pietra le tavole misteriose della legge. Se così fosse, poichè arriva in ogni società umana il momento in cui il simbolo sacro si usura e si oblitera nella libertà del pensiero per cui l'uomo si sottrae al prete, per cui il sopraggiungere delle filosofie e dei sistemi rode il volto della religione, l'architettura non potrebbe riprodurre questo nuovo stadio dello spirito umano e i fogli che le appartengono, scritto sul recto sarebbero vuoti sul verso, l'opera si interromperebbe, il libro sarebbe incompleto. Ma non è così.
Prendiamo per esempio il Medioevo, in cui noi vediamo più chiaro perchè ci è più vicino. nel periodo iniziale, mentre la teocrazia organizza l'Europa, mentre il Vaticano riunisce e riassetta intorno a sè gli elementi di una Roma i cui ruderi giacciono intorno al Campidoglio, mentre il cristianesimo va cercando tra le macerie della civiltà precedente tutti gli stadi della società e ricostruisce con queste rovine un nuovo universo gerarchico di cui il sacerdozio è la chiave di volta, si sente dapprima scaturire da questo caos, e poi a poco a poco si vede sotto il soffio del cristianesimo, sotto la mano dei barbari alzarsi dagli sterrati delle morte architetture greca e romana, questa misteriosa architettura romanica, sorella delle murature teocratiche egiziane e indiane, emblema inalterabile del cattolicesimo puro, immutabile geroglifico dell'unità papale.
Tutto il pensiero di allora è infatti scritto in quel cupo stile romanico. Vi si sente ovunque l'autorità, l'unità, l'impenetrabilie, l'assoluto, Gregorio VII; dovunque il prete, mai l'uomo, dovunque la casta, mai il popolo. Ma arrivano le crociate. E' un grande movimento popolare, e ogni movimento popolare, quali che ne siano le ragioni e il fine, libera sempre, nella fase di estrema concentrazione, lo spirito di libertà. Nuovi eventi si fanno strada. Ecco che si apre il periodo tempestoso delle Jacqueries, delle Fragueries e delle Leghe. L'autorità è scossa, l'unità si biforca. Il mondo feudale vuole fare a mezzo con la teocrazia, attendendo il popolo che sopraggiungerà inevitabilmente e che si prenderà, come sempre, la parte del leone. Quia nominor leo. La signoria spunta pertanto sotto il sacerdozio, il comune sotto la signoria. Il volto dell'Europa è cambiato. Ebbene, anche il volto dell'architettura è cambiato. Come la civiltà, anch'essa ha voltato pagina e lo spirito rinnovato del tempo la trova pronta a scrivere ciò che le verrà dettato. E' tornata dalle crociate con l'ogiva, come le nazioni con la libertà. Allora, mentre Roma si smembra a poco a poco, l'architettura romanica muore. Il geroglifico diserta la cattedrale e , divenendo stemma per il torrione, conferisce prestigio al feudalesimo.
La cattedrale stessa, questo edificio in altri tempi così dogmatico, invasa ormai dalla borghesia, dal comune, dalla libertà, sfugge al prete e cade in balìa dell'artista. L'artista la costruisce a modo suo. Addio mistero, addio mito, addio tempo. Ecco la fantasia e il capriccio. Il prete, purchè abbia basilica e altare, non ha nulla da dire. Le quattro mura appartengono all'artista. Il libro dell'architettura non è più del sacerdozio, della religione, di Roma. E' dell'immaginazione, della poesia, del popolo. Di qui le rapide e innumerevoli trasformazioni di questa architettura che ha solo tre secoli, così sorprendenti dopo l'immobilità stagnante dell'architettura romana che ne ha sei o sette. L'arte procede tuttavia a passi di gigante. Il genio e l'originalità popolari fanno quello che faceva il vescovo. Ogni generazione nel suo passaggio scrive una riga sul libro. Raschia i vecchi gerogilifici romani sul frontespizio delle cattedrali ed è già molto se si vede ancora il dogma affiorare qua e là sotto il nuovo simbolo che essa vi depone. L'ossatura religiosa è appena decifrabile sotto i panneggi del popolo. Impossibile farsi un'idea delle licenze che si prendono allora gli architetti, anche verso al chiesa. Possono essere capitelli in cui sono inseriti frati e monache vergognosamente accoppiati, come nella sala dei camini al Palais de Hustice di Parigi. Oppure l'avventura di Noè scolpita in tutte lettere, come sotto il grande portale di Bourges. O ancora un frate bacchico con le orecchie d'asino e un bicchiere in mano che ride in faccia a tutta una comunità, come sul lavabo dell'abbazia di Bocherville. C'è a quell'epoca, per il pensiero scritto sulla pietra, un privilegio del tutto paragonabile alla nostra attuale libertà di stampa. E' la libertà di architettura.
Tale libertà va molto lontano. A volte un portale, una facciata, una chiesa nel suo complesso esprime significati simbolici assolutamente estranei al culto o addirittura ostili alla chiesa. Guillame di Parigi fino al tredicesimo secolo, Nicolas Flamel nel quindicesimo hanno scritto di queste pagine sediziose. Saint-Jacques-de-la-Boucherie era tutta una chiesa di opposizione.
Il pensiero a quel tempo non era libero se non in questa maniera, ossia non veniva completamente scritto altro che in questi libri chiamati edifici. Privo della forma dell'edificio lo si sarebbe visto bruciare sulla pubblica piazza per mano del carnefice sotto forma di manoscritto, se fosse stato così imprudente da assumere questa forma. In forma di portale da chiesa avrebbe potuto assistere al supplizio di se stesso in forma di libro. Così, non avendo altra strada per esprimersi se non l'edilizia, vi si rifugiò da qualunque parte provenisse. Da ciò l'immensa quantità di cattedrali che hanno invaso l'Europa in numero così straordinario che appena vi si crederebbe pur avendolo verificato. Tutte le forze materiali, tutte quelle intellettuali della società convergevano in uno stesso punto: l'architettura. In tal modo, con il pretesto di costruire a Dio delle chiese, si sviluppava un'arte di magnifiche proporzioni.
A quel tempo, chiunque nascesse poeta diveniva architetto. Il genio diffuso tra le masse compresse in ogni senso dal feudalesimo come sotto una testudo di scudi di bronzo, non trovando sbocco se non nell'architettura, si riversava in quest'arte, e le sue Iliadi prendevano la forma d cattedrali. Tutte le altre arti obbedivano e si sottoponevano all'architettura. Erano le operaie della grande opera. L'architetto, il poeta, il maestro, assommava nella propria persona la scultura che gli cesellava le facciate, la pittura che gli miniava le vetrate, la musica che gli metteva in moto la campana e gli soffiava negli organi. Perfno la poesia, la povera poesia che si ostinava a vegetare nei manoscritti era obbligata per esistere a inquadrarsi nell'edificio in formadi inno o di prosa. Lo stesso ruolo, dopo tutto, che avevano avuto le tragedie di Eschilo nelle feste sacerdotali della Grecia, la Genesi al tempo di Salomone.
Così, fino a Gutenberg, l'architettura è la scrittura principale, la scrittura universale. Di questo libro di granito, cominciato dall'Oriente, continuato dall'antichità greca e romana, il medioevo ha scritto l'ultima pagina. Del resto, questo fenomeno di un'architettura del popolo che succede a un'architettura di casta quale noi abbiamo constatato nel Medioevo si riproduce in ogni analogo movimento dell'intelligenza umana nelle altre grandi epoche della storia.
Così, per enunciare solo sommariamente una legge che per essere spiegata richiederebbe interi volumi, nell'antico oriente, culla delle prime età, dopo l'architettura indù, l'architettura fenicia, questa madre opulenta dell'architettura araba; nell'antichità, dopo l'architettura egiziana di cui lo stile etrusco e i monumenti ciclopici non sono che una variazione, l'architettura greca di cui lo stile romano non è che un prolungamento caricato dalla cupola cartaginese; nei tempi moderni, dopo l'architettura romanica, l'architettura gotica.
E sdoppiando queste tre serie si ritroverà nelle tre sorelle maggiori, l'architettura indù, l'architettura egiziana, l'architettura romanica, lo stesso simbolo: cioè la teocrazia, la casta, l'unità, il dogma, Dio; e per le tre sorelle cadette, l'architettura fenica, l'architettura greca, l'architettura gotica, quale che sia del resto la diversità di forma inerente alla loro natura, si ritroverà lo stesso significato: cioè la libertà, il popolo, l'uomo.

Che si chiami bramino, mago o papa nelle costruzioni indù, egiziane o romaniche, si sente sempre il prete, nient'altro che il prete. Non è così nelle architetture del popolo, che sono più ricche e meno sacre. In quella fenicia, si sente il mercante, in quella greca, il repubblicano, in quella gotica, il borghese.
I caratteri generali di ogni architettura teocratica sono l'immutabilità, l'orrore del progresso, la conservazione delle linee tradizionali, la consacrazione dei tipi primitivi, il costante piegarsi di tutte le forme dell'uomo e della natura ai capricci incomprensibili del simbolo. Sono libri oscuri, che solo gli iniziati sanno decifrare. Del resto ogni forma, perfino ogni deformità possiede un senso che la rende inviolabile. Non chiedete alle costruzioni indù, egiziane e romaniche di correggere le loro linee o di migliorare la loro statuaria. In quelle, qualunque perfezionamento risulterebbe un'empietà. In tali architetture sembra che la rigidità del dogma si sia sparsa sulla pietra come una seconda pietrificazione. I caratteri generali delle costruzioni popolari, al contrario sono la varietà, il progresso, l'originalità, l'opulenza, il movimento perpetuo. Sono già abbastanza staccate dalla religione per pensare alla propria bellezza, per curarla, per correggere senza posa il loro ornamento di statue o di arabeschi. Appartengono al secolo. Hanno qualcosa di umano che frammischiano continuamente al simbolo divino sotto il quale ancora si presentano. Per questo sono edifici raggiungibili da qualunque anima, da qualunque intelligenza, da qualunque immaginazione, simbolici ancora, ma facili da comprendere come la natura. Tra l'architettura teocratica e questa, c'è la stessa differenza che corre tra una lingua sacra e una volgare, tra il geroglifico e l'arte, tra Salomone e Fidia.
Se riassumiamo quanto abbiamo osservato fino a qui molto sommariamente, tralasciando mille prove e mille particolareggiate obiezioni, si deve riconoscere questo: che l'architettura è stata fino al quindicesimo secolo il principale registro dell'umanità, che in tutto questo periodo nessun pensiero dotato di qualche complessità è apparso al mondo senza diventare edificio, che ogni idea popolare e ogni legge religiosa ha avuto i propri monumenti, che il genere umano non ha pensato nulla di importante senza scriverlo sulla pietra. E perchè? E' che l'idea che ha influenzato una generazione vuole influenzarne altre e lasciare traccia. Ma che immortalità precaria è quella del manoscritto! Come, invece, un edificio è un libro ben altrimenti solido, durevole e resistente! Per distruggere la parola scritta basta una torcia e un turco. Per demolire la parola costruita occorre una rivoluzione sociale, uno sconvolgimento tellurico. I barbari sono passati sul Colosseo, il diluvio forse sulle Piramidi.
Nel quindicesimo secolo tutto cambia.

Il pensiero umano scopre un modo di perpetuarsi non solo più durevole e resistente dell'architettura, ma anche più semplice e più facile. L'architettura è detronizzata. Alle lettere di pietra di orfeo succederanno quelle di piombo di Gutenberg.
Il libro ucciderà l'edificio.
L'invenzione della stampa è il più grande avvenimento della storia. E' la rivoluzione madre. E' il completo rinnovarsi del modo di espressione dell'umanità, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne assume un'altra, è il completo e definitivo mutamento di pelle di quel serpente simbolico che, da Adamo in poi, rappresenta l'intelligenza.
Sotto forma di stampa, il pensiero è più che mai imperituro. E' volatile, inafferrabile, indistruttibile. Si fonde con l'aria. Al tempo dell'architettura, diveniva montagna e si impadroniva con forza di un secolo e di un luogo. Ora diviene stormo di uccelli, si sparpaglia ai quattro venti e occupa contemporaneamente tutti i punti dell'aria e dello spazio.
Chi non vede, ripetiamo, quanto più indelebile sia in questa maniera? Da solido che era, diventa vivo. Passa dalla durata all'immortalità. Si può distruggere una mole, ma come estirpare l'ubiquità? Venga pure un diluvio, e anche quando la montagna sarà sparita sotto i flutti da molto tempo, gli uccelli voleranno ancora; e basterà che solo un'arca galleggi alla superficie del cataclisma, ed essi vi poseranno, sopravviveranno con quella, con quella assisteranno al decrescere delle acque, e il nuovo mondo che emergerà da questo caos svegliandosi vedrà planare su di sè, alato e vivente , il pensiero del mondo sommerso.
E quando si osservi che questo modo di espressione non è soltanto il più conservatore, ma anche il più semplice, il più comodo, il più praticabile da tutti, allorchè si pensi che non si tira dietro un pesante bagaglio e non mette in moto una pesante attrezzatura, quando si paragoni il pensiero obbligato per tradursi in edificio, a mettere in movimento quattro o cinque altre arti e tonnellate d'oro, tutta una montagna di pietre, tutta una foresta di legname, tutto un popolo di operai, quando lo si paragoni al pensiero che si fa libro, al quale basta un po' di carta, un po' di inchiostro e una penna, come stupirsi che l'intelligenza umana abbia abbandonato l'architettura per la stampa? Tagliate bruscamente il letto primitivo di un fiume con un canale scavato al di sotto del suo livello e il fiume diserterà quel letto.
Vedete dunque come, dalla scoperta della stampa, l'architettura si dissecca a poco a poco, si atrofizza e si denuda. Come si sente che l'acqua si abbassa, che la linfa se ne va, che il pensiero dei tempi e dei popoli se ne ritira! Il raffreddamento è press'a poco insensibile nel quindicesimo secolo, la stampa è ancora troppo debole e sottrae all'architettura ancora possente tutt'al più una sovrabbondanza di vita. Ma, dal sedicesimo secolo, la malattia dell'architettura è visibile; ormai non esprime più la società in modo essenziale. Diviene miserabilmente arte classica, da gallica, da europea, da indigena diviene greca e romana, da vera e moderna, pseudo-antica. Quello che viene chiamato Rinascimento non è che questa decadenza. Decadenza peraltro magnifica, perchè il vecchio genio gotico, questo sole che tramonta dietro il torchio gigantesco di Magonza, penetra ancora per qualche tempo con i suoi ultimi raggi in tutto quell'ibrido ammasso di arcate latine e di colonnati corinzi.
E' questo sole al tramonto che noi scambiamo per un'aurora.
Tuttavia, dal momento in cui l'architettura non è più che un'arte come un' altra, da quando non è più l'arte totale, l'arte sovrana, l'arte tiranna, non ha più la forza di legare a sè le altre arti. Per cui quelle si emancipano, spezzano il giogo dell'architetto, se ne vanno ciascuna per proprio conto, e ognuna si avvantaggia di questo divorzio. L'isolamento ingrandisce ogni cosa. La scultura diventa statuaria, l'iconografia diventa pittura, il canone diventa musica. Si direbbe un impero che si smembra alla morte del proprio Alessandro, un impero le cui province diventano regno.
Nascono allora Raffaello, Michelangelo, Jean Goujon, Palestrina, splendori dell'abbagliante sedicesimo secolo.
Contemporanemente alle arti, il pensiero si emancipa in ogni senso. Gli eresiarchi del Medioevo avevano già inferto ferite profonde al cattolicesimo. Il sedicesimo secolo spezza l'unità religiosa. Prima della stampa, la riforma sarebbe stata soltanto uno scisma, la stampa ne fa una rivoluzione. Togliete la stampa, l'eresia perde ogni nerbo. Fatale o provvidenziale che sia, Gutenberg è il precursore di Lutero.

Tuttavia, quando il sole del Medioevo è del tutto tramontato, quando il genio gotico si è per sempre spento all'orizzonte dell'arte, l'architettura si offusca, si scolora, impallidisce sempre di più. Il libro stampato, verme roditore dell'edificio, la succhia e la divora. Essa si spoglia, si sfoglia, dimagrisce a vista d'occhio. E' meschina, è povera, è nulla. Non esprime più nulla, nemmeno il ricordo dell'arte di un tempo. Ridotta a se stessa, abbandonata dalle altre arti, perchè il pensiero umano l'ha abbandonata, in mancanza di artisti chiama dei manovali. Il vetro sostituisce la vetrata. Il tagliapietre subentra allo scultore. Addio a tutto, linfa, originalità, vita, intelligenza. Essa si trascina, lamentosa mendicante di laboratorio, di copia in copia.
Michelangelo, che dal sedicesimo secolo senza dubbio la sentiva morire, aveva un'ultima, disperata idea. Da titano dell'arte aveva sovrapposto il Pantheon al Partenone e aveva fatto San Pietro a Roma.

Grande opera che meritava di restare unica, ultima espressione originale dell'architettura, firma di un artista gigantesco in calce al colossale registro di pietra che si chiudeva. Morto Michelangelo, che fa questa miserabile architettura sopravvissuta a se stessa come uno spettro o un'ombra? Prende San Pietro a Roma, e ne fa il calco e la parodia. E' una mania. E' una pietà. Ogni secolo ha il suo San Pietro di Roma, nel diciassettesimo secolo il Val-de-Grace, nel diciottesimo Sainte-Geneviève. Ogni paese ha il suo San Pietro di Roma. Londra ha il suo. Pietroburgo ha il suo. Parigi ne ha due o tre. Insignificante testamento, ultimo vaneggiamento di una grande arte decrepita che regredisce all'infanzia prima di morire.
Se invece di monumenti caratteristici come quelli di cui abbiamo parlato esaminassimo l'aspetto generale dell'arte dal sedicesimo al diciottesimo secolo, noteremmo gli stessi fenomeni di consunzione e declino. A partire da Francesco II la forma architettonica dell'edificio si cancella sempre di più e risalta quella geometrica, come la struttura ossea in un malato che smagrisce. Le belle linee dell'arte lasciano il posto a quelle fredde e inesorabili del geometra. Un edificio non è più un edificio, ma un poliedro. Tuttavia l'architettura si tormenta per nascondere tale nudità. Ecco il frontone greco e quello romano che si inseriscono l'uno nell'altro, reciprocamente. E' sempre il Pantheon nel Partenone, San Pietro a Roma. Ecco le case di mattoni di Enrico IV, a spigoli di pietra, la piazza Royale, la piazza Dauphine. Ecco le chiese di Luigi XIII, pesanti, tozze, schiacciate, raggomitolate, cariche della cupola come di una gobba. Ecco l'architettura mazzarina, il brutto pasticcio italiano delle Quatre-Nations. Ecco il palazzo di Luigi XIV, lunghe caserme per cortigiani, rigide, glaciali, noiose. Ecco infine Luigi XV, con le cicorie e i vermicelli, e tutte le verruche che sfigurano questa vecchia architettura caduca, sdentata e leziosa. Da Francesco II a Luigi XV, il male è cresciuto in progressione geometrica. L'arte non è più che pelle e ossa. Agonizza pietosamente.
Frattanto, che accade della stampa? Tutta la vita che si allontana dall'architettura finisce in lei. L'architettura si abbassa, la stampa si gonfia e cresce. Il capitale di energie che il pensiero umano spendeva in edifici lo spende ormai in libri. Così dal sedicesimo secolo la stampa, raggiungo il livello della decrescente architettura, lotta con quella e la uccide. Nel diciasettesimo è già insediata nella sua vittoria per donare al mondo la festa di un grande secolo letterario. Nel diciottesimo, dopo essersi a lungo riposata alla corte di Luigi XIV, riafferra la vecchia spada di Lutero, ne arma Voltaire, e corre, tumultuosa, all'attacco di quella vecchia Europa di cui ha già ucCiso l'espressione architettonica. Quando il secolo diciottesimo ha fine, ha ormai tutto distrutto. Nel diciannovesimo, ricomincerà a ricostruire.
Ebbene, ci domandiamo noi ora, quale delle due arti rappersenta realmente da tre secoli il pensiero umano? Quale lo traduce? Quale ne esprime, non solo le manie letterarie e scolastiche, ma il vasto, profondo,universale movimento? Quale si sovrappone costantemente, senza interruzione e senza lacune, al genere umano che avanza, mostro a mille piedi? L'architettura o la stampa?
La stampa. Non ci si inganni, l'architettura è morta, morta senza ritorno, uccisa dal libro stampato, uccisa perchè dura meno, uccisa perchè costa di più. Ogni cattedrale costa un miliardo. Cerchiamo di immaginare ora quale impiego di fondi occorrerebbe per riscrivere il libro dell'architettura; per fare che formicolino di nuovo sul suolo migliaia di edifici, per ritornare ai tempi in cui la folla dei monumenti era tale che a detta di un testimone oculare "si sarebbe detto che il mondo, scuotendosi, avesse gettato via i vecchi abiti per coprirsi di un bianco vestito di chiese". Erat enim ut si mundus, ipse excutiendo semet, rejecta vetustate, candidam ecclesiarum veste indueret (GLABER RADULPHUS).
Un libro è così presto fatto, costa così poco, e può andare così lontano! Come stupirsi che tutto il pensiero umano vada per questa china? Questo non significa che l'architettura non posso ancora avere qua e là un bel monumento, un capolavoro isolato. Si potrà ancora avere di tanto in tanto, sotto il regno della stampa, una colonna fatta, suppongo, da tutta un'armata, con cannoni fusi, come c'erano, quando regnava l'architettura, delle Iliadi e dei Romanceros, dei Mahabharata e dei Nibelunghi, creazioni rapsodiche, fuse e composite di tutto un popolo. Il caso fortuito di un architetto di genio potrà verificarsi nel ventesimo secolo, come quello di Dante nel tredicesimo. Ma l'architettura non sarà più l'arte sociale, l'arte collettiva, l'arte dominante. Il grande poema, il grande edificio, la grande opera dell'umanità non sarà più edificata, ma stampata.
E ormai, anche se l'architettura dovesse avere una risalita non avverrà mai più che sia padrona. Subirà dalla letteratura la legge che prima a sua volta impartiva. Tra le due arti, le rispettive posizioni saranno invertite. E' indubbio che nell'epoca dell'architettura i poemi, rari, è vero, assomigliano ai monumenti. Nell'India, Vyasa è folto, strano, impenetrabile come una pagoda. Nell'oriente egiziano la poesia ha la stessa grandiosità e tranquillità di linee che hanno gli edifici. Nella Grecia antica, la bellezza, la serenità e la calma, nell' Europa cristiana, la maestà cattolica, l'ingenuità popolare, la ricca e lussureggiante vegetazione di un'epoca di rinnovamento. La Bibbia assomiglia alle Piramidi, l'Iliade al Partenone, Omero a Fidia. Nel tredicesimo secolo, Dante è l'ultima chiesa romanica, Shakespeare, nel sedicesimo, l'ultima cattedrale gotica.
Quindi, per riassumere quanto abbiamo detto finora in modo necessariamente tronco e incompleto, il genere umano ha due libri, due registri, due testamenti, l'architettura e la stampa, la bibbia di pietra e la bibbia di carta. Indubbiamente, contemplando queste due bibbie spalancate nei secoli, è lecito rimpiangere la maestà visibile della scrittura di granito, quei giganteschi alfabeti formulati in colonnati, in pilastri, in obelischi, quella specie di montagne umane che coprono il mondo e il passato, dalla piramide fino al campanile, da Cheope a Strasburgo. In quelle pagine di marmo bisogna rileggere il passato. Bisogna ammirare e sfogliare incessantemente il libro scritto dall'architettura, ma non bisogna negare la grandezza dell'edificio che la stampa erige a sua volta.

Questo edificio è colossale. Non so quale saccente di statistica ha calcolato che posando uno sull'altro tutti i volumi usciti dal torchio da Gutenberg in poi si colmerebbe la distanza dalla terra alla luna; ma non è di questo genere di grandezza che vogliamo parlare. Tuttavia, se cerchiamo di costruire nel nostro pensiero un'immensa costruzione, appoggiata sul mondo intero, alla quale l'umanità lavora senza interruzione, la cui testa mostruosa si perde nelle brume dell'avvenire? E' il formicaio delle intelligenze. E' l'alveare in cui tutte le immaginazioni, queste api dorate, arrivano con il loro miele. L'edificio ha mille piani. Sulle sue rampe si vedono sbucare qua e là delle caverne tenebrose della scienza intrecciantisi nelle sue viscere. Per tutta la sua superficie l'arte fa lussureggiare davanti allo sguardo arabeschi, rosoni, merletti. ogni opera individuale, per capricciosa e isolata che sembri, vi trova spazio e risalto. L'armonia risulta dal tutto. Dalla cattedrale di Shakespeare fino alla moschea di Byron, mille piccole guglie si affollano alla rinfusa su quella metropoli del pensiero universale, alla cui base è stato riscritto qualche antico titolo dell'umanità che l'architettura non aveva registrato. A sinistra dell'entrata è stato murato il vecchio bassorilievo in marmo bianco di Omero, a destra la Bibbia poliglotta erge le sue sette teste. L'idra del Romancero si erge più lontano, così come altre forme ibride, i Veda e i Nibelunghi. Il prodigioso edificio rimane del resto sempre incompiuto. La stampa, questa macchina gigante che pompa senza tregua tutta la linfa intellettuale della società, vomita incessantemente nuovi materiali per l'opera sua. Tutto il genere umano è sull'impalcatura. Ogni spirito è muratore. Il più umile tura il suo buco o posa la sua pietra. Rètif de la Bretonne aggiunse la sua secchiata di calcinacci. Indipendentemente dall'apporto originale e individuale di ogni scrittore vi sono apporti collettivi. Il diciottesimo secolo dà l'Encyclopédie, la rivoluzione da il "Moniteur". Certo, è anche questa una costruzione che cresce e si ammucchia in spirali senza fine, anche qui c'è confusione di lingue, attività incessante, lavoro infaticabile, concorso accanito dell'umanità intera, rifugio promesso all'intelligenza contro un nuovo diluvio, contro un'invasione di barbari. E' la seconda torre di Babele del genere umano.
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da "Notre-Dame de Paris" di Victor Hugo

La sottana e la zimarra

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Nel medioevo ogni città e, fino a Luigi XII, ogni città di Francia aveva i suoi luoghi di asilo. Questi luoghi di asilo, in mezzo al diluvio di leggi penali e di giurisdizioni barbare che inondavano la città, erano come delle isole elevate al di sopra del livello della giustizia umana. Ogni criminale che vi approdava era salvo. In un circondario esistevano quasi altrettanti luoghi di asilo quanti patiboli. C'era da una parte un abuso di impunità, dall'altra un abuso di pene, due brutte cose che cercavano a vicenda di correggersi. I palazzi del re, le dimore dei principi, le chiese, sopratutto, avevano diritto d'asilo. Qualche volta una intera città, che aveva bisogno di essere ripopolata, diveniva temporaneamente un luogo di rifugio; Luigi XI dichiarò Parigi asilo nel 1467.

Una volta messo piede nell'asilo, il criminale era sacro; ma bisognava che si guardasse bene dall'uscirne. Un passo fuori dal santuario e ripiombava nei flutti. La ruota, la forca, la corda facevano buona guardia intorno ai luoghi di rifugio, e stavano in agguato, senza tregua, della preda come squali intorno a una nave. Si sono visti condannati che incanutivano così in un chiostro, sulla scala di un palazzo, nel podere di un'abbazia, sotto un portico di chiesa; in questo modo l'asilo era una prigione come un'altra.
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Avveniva talvolta che un decreto solenne del parlamento violasse il rifugio e restituisse il condannato al boia; ma la cosa era rara. I parlamenti si impaurivano di fronte ai vescovi, e quando queste due tonache arrivavano s trusciarsi, la zimarra non aveva buon gioco con la sottana. Tuttavia certe volte, come nel caso degli assassini di Petit-Jean, boia di Parigi, e in quello di Emery Rousseau, uccisore di Jean Valleret, la giustizia scavalcava la chiesa e procedeva all'esecuzione delle sue sentenze; ma, a meno di un decreto del parlamento, guai a chi violava a mano armata un luogo di asilo! Si sa quale fu la morte di Robert de Clermont, maresciallo di Francia, e di Jean de Chalons, maresciallo di Champagne; eppure si trattava solo di un certo Perrin Marc, un garzone di un cambiavalute, un miserabile assassino; ma i due marescialli avevano infranto le porte di Saint-mèry. In questo stava l'enormità.

I rifugi erano circondati da un tale rispetto che, secondo la tradizione, era percepito a volte anche dagli animali. Aymoin racconta che un cervo, cacciato da Dagoberto, si era rifugiato presso la tomba di San Dionigi e che la muta si fermò all'improvviso abbaiando.

Le chiese avevano di solito una stanzetta pronta a ricevere i supplicanti. Nel 1407 Nicola Flamel fece costruire per loro, sotto le volte di Saint-Jacques -de-la-Boucherie, una stanza che gli costò quattro lire, sei soldi e sedici denari parigini.
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da "Notre-Dame de Paris" di Victor Hugo

sabato 26 settembre 2009

Fa nulla...



Brunetta bluff
di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli - da "L'espresso" del 10/09/2009

Ha vantato risultati clamorosi contro gli assenteisti. Ma ora si scopre che purtroppo non sono diminuiti. E che le statistiche riportavano soltanto i dati ottimistici. Mentre il ministro ha penalizzato soprattutto le donne

I benefici effetti prodigiosi della 'cura Brunetta' per i fannulloni della nostra pubblica amministrazione sono il fiore all'occhiello di questo governo. Della sua terapia miracolosa, il ministro figlio di un venditore ambulante veneziano è riuscito a convincere tutti, dagli statistici agli stessi politici d'opposizione. Per la gente comune, grazie a lui l'impiegato lavativo è stato rimesso in riga. D'altronde come interpretare altrimenti il mirabolante meno 40 per cento di assenze per malattia propagandato a più riprese dal suo ministero? La realtà, però, è diversa dai fuochi d'artificio alla festa del Redentore. E poche coraggiose voci fuori dal coro fra gli statistici del nostro Paese sgonfiano quei numeri, ridimensionando l'ormai celebre effetto-Brunetta. Che si fonda su tre pilastri di cartapesta.

Il primo: l'analisi si limita agli enti che ci tengono a farsi belli della propria virtuosità (mentre gli asini se la battono).

Il secondo: nei suoi conti mancano all'appello grossi pezzi dell'apparato statale - come l'istruzione e le forze di polizia - nonché ministeri o comuni importanti.

Il terzo: le sue statistiche tagliate con l'accetta spesso finiscono col premiare chi non se lo merita e punire chi non ha colpa. Senza dimenticare che gli stessi dati del ministero iniziano a riconoscere che 'l'onda' si sta ritirando.

Che il travet non abbia più così paura degli strali di Brunetta, infatti, è proprio il suo ministero a raccontarcelo. La riduzione delle assenze per malattia registrata a settembre dello scorso anno, quando si era raggiunto il meno 44,6 per cento, è stato il picco dal quale poi non si è fatto altro che scendere. In modo graduale, ma inesorabile: meno 41 a novembre, meno 33 ad aprile, meno 27 a giugno, per finire con il meno 17 di luglio. Mai come in quest'ultimo mese ci sono state tante amministrazioni che hanno invertito la tendenza, col meno che si è andato trasformando in più.

Al Comune di Napoli le assenze si sono impennate del 30 per cento, nonostante il fatto che a palazzo San Giacomo i dipendenti siano diminuiti. Anche l'altra grande città del Regno delle due Sicilie, Palermo, si distingue per la propria indifferenza al ministro-castigatore. Con una particolarità: fra gli uffici che hanno lavorato meno, negli ultimi quattro mesi dell'anno scorso, ci sono quelli addetti a raccogliere soldi per il Comune (servizio Tributi e Tarsu). Alla faccia della lotta all'evasione. Sempre stando ai numeri ministeriali, non è che a Nord se la passino meglio. A Parma, per esempio, chi lavora in Comune a luglio se l'è squagliata: più 32 per cento, rispetto allo zero di giugno e al meno 21 per cento di maggio. E il malcostume non cambia se ci spingiamo ancora in su, per fare tappa in un paesino brianzolo piuttosto noto: ad Arcore, dove il premier ha casa, le assenze sono salite del 27 per cento rispetto all'anno scorso. In barba al suo illustre e industrioso cittadino.

L'afflosciarsi dell'effetto Brunetta è però solo una parte di quello che il ministro non dice. Se oggi il fannullone italiano inizia a essere una specie protetta, non è solo merito suo (anche se lui se lo arroga tutto). Come dimostrano i dati della Ragioneria generale dello Stato, è già da fine 2004 che si verifica nella popolazione dei dipendenti pubblici una concreta diminuzione di chi si dà malato. Ovverosia già molto prima dell'era post Brunetta del pubblico impiego.

Alla Provincia a Pisa lo sanno bene: dall'inizio del 2005 l'ente toscano è riuscito nell'impresa di abbassare del 20-30 per cento il tasso d'assenteismo. "Tutto quello che potevamo recuperare l'abbiamo recuperato, motivo per cui ora le assenze oscillano di mese in mese, seguendo cause fisiologiche come il tempo o i cicli influenzali", dice il direttore generale Giuliano Palagi, non curandosi del più 17,5 per cento fatto segnare a luglio.

Al di là di questa 'appropriazione indebita', cosa più grave nel bluff mediatico del ministro-economista è la mancanza di attendibilità dei dati che diffonde ogni mese. "Le sue cifre aprono una finestra solo su una parte del panorama della nostra pubblica amministrazione: quella migliore", fa notare Giulio Zanella, ricercatore all'Università di Siena e firma del sito di economisti noisefromamerika.org.

Appellandosi alla collaborazione delle singole amministrazioni, il ministero infatti non pubblica tutti i numeri degli enti - né potrebbe - ma solo quelli inviati di loro spontanea volontà. Per capirci, è come se a scuola venissero interrogati solo i ragazzi che si offrono volontari: ai somari per cavarsela basta stare zitti. "Però in questo modo il campione non è rappresentativo, e i risultati tanto strombazzati non hanno alcun valore scientifico, perché inevitabilmente sovrastimano la realtà", aggiunge Zanella. E non ha aiutato nemmeno "l'operazione di 'pulitura' dei dati fatta dall'Istat", perché si è trattato, per l'appunto, solo di una pulitura. "Mi aspetto che i prossimi dati ufficiali della Ragioneria generale dello Stato, che rappresenteranno la prova del nove, ridimensionino quel 40 per cento di Brunetta", conclude il ricercatore senese. Facendo piazza pulita della retorica politica.

Che i numeri del ministero siano tutt'altro che uno specchio fedele della realtà lo si capisce anche da altre falle, più o meno grandi. Prima di tutto c'è quella postilla con cui si avvertono i lettori che nell'analisi mensile non rientrano scuola, università, regioni e pubblica sicurezza. Cioè un bel pezzo d'apparato statale. Inoltre, gli stessi enti i cui dati trovi un mese, magari latitano il mese prima. Tanto che spiccano frequenti assenze di lusso: a luglio mancavano i dati del ministero degli Interni e di quello dei Trasporti, della Provincia e del Comune di Milano, dei Comuni di Torino, Bari e Venezia. Quasi tutti, ad eccezione del Viminale e del capoluogo pugliese, erano invece presenti nella rilevazione del mese precedente. Infine, a scapito delle verità di Brunetta va la scarsa collaborazione delle amministrazioni nel loro insieme: meno della metà delle 10 mila burocrazie italiane compila i moduli on line.

Certo oggi va meglio che agli inizi, quando già nei primi cinque mesi dall'approvazione della legge 133 Brunetta aveva sbandierato il suo famoso 40 per cento: all'epoca solo il 15 per cento di quella che è l'intera burocrazia italiana aveva risposto alle sollecitazioni ministeriali.

C'è poi un ultimo errore da prendere in considerazione, del quale già avvertono a scuola quando ti insegnano a fare la media fra due numeri: se io mangio due polli e tu non mangi niente, se non stai attento finisci col sostenere che abbiamo mangiato un pollo a testa. È il malinteso in cui si incappa prendendo alla lettera i dati di Brunetta. Se scorri i numeri più aggiornati fra quelli forniti dal ministero, al secondo posto nella top ten trovi il Comune di Sondrio, con un aumento delle ore di assenza per malattia di oltre il 90 per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Che sia Sondrio, proprio la terra natìa di Giulio Tremonti, la capitale dei fannulloni d'Italia? Non esattamente. A un'analisi appena meno superficiale, infatti, ti accorgi di come stiano le cose in realtà. "Quella del ministero è una statistica piuttosto rozza", contesta Alcide Molteni, sindaco del comune lombardo: "Ora, io ho circa 150 dipendenti. Tre di questi hanno malattie croniche che li obbligano a casa tutto l'anno, chi per l'infarto, chi per seri problemi polmonari, e loro da soli coprono gran parte delle assenze. Ad agosto, per esempio, su 87 giorni di malattia, in tre ne hanno fatti 62, e tutti gli altri ne hanno fatti 25". Per converso è facile capire che, come a Sondrio si punisce chi non ha colpe, la media 'del pollo' può tranquillamente finire col premiare chi invece non lo meriterebbe.

Sotto la scure di Brunetta, però, non ci finiscono solo i malati gravi. I primi risultati di uno studio ancora in corso all'Istat - sul numero di persone che fanno orario ridotto a causa di malattia in una settimana tipo - smorzano gli entusiasmi dei brunettiani convinti, concentrandosi sui primi sei mesi dall'entrata in vigore della legge. Ebbene, il primissimo (e forse l'unico) colpo inferto dalla sua crociata antifannulloni si è abbattuto nell'estate 2008 su una ben precisa fetta dei dipendenti pubblici: le donne del Centro Italia. E basta. Che cosa avranno mai fatto le donne di Roma per meritarsi questo? Una possibile spiegazione ce la suggerisce Riccardo Gatto, ricercatore Istat, e autore dello studio insieme ad Andrea Spizzichino: "D'estate, una volta chiuse le scuole, si hanno più problemi a trovare qualcuno a cui affidare un bimbo, e quindi è possibile che ci si assenti solo per gestirli meglio. Infatti, la differenza significativa rispetto agli uomini sul lavoro è che sono ancora le donne a farsi tipicamente carico delle mansioni familiari". E sempre le donne, secondo un calcolo fatto da Zanella, fanno mediamente due giorni di assenza l'anno in più degli uomini, per evidenti ragioni familiari e biologiche. Fra l'autunno e l'inverno, invece, ci si ammala per davvero. E proprio negli ultimi tre mesi del 2008, sempre secondo lo studio di Gatto, l'effetto Brunetta semplicemente "non emerge più dall'analisi dei dati". "Già nei tre mesi estivi il fenomeno non è particolarmente rilevante", osserva, "perché passa dall'1,8 dell'anno prima all'1,3 per cento. Ma nel quarto trimestre la legge sembra aver esaurito il suo effetto". Conclusioni pesanti e fuori dal coro, quelle di Gatto, pronunciate durante un seminario a 'casa' del ministro. E passate sotto silenzio.

Insomma, malati cronici, donne con figli, ma di fannulloni puniti, per ora, neanche l'ombra. Fatta la tara, che cosa resta concretamente di questa 'cura Brunetta'? Secondo Zanella, in ultima analisi, si potrebbe parlare di un 10 per cento in meno di assenze. Ma qui finisce. "Il fatto che quest'anno i numeri del ministro si siano ridotti è normale, perché le assenze non possono continuare a calare all'infinito". Un effetto, quindi, c'è stato, ma è "un puro effetto di prezzo, dovuto alla decurtazione dallo stipendio dei giorni di assenza. Se oggi le arance costano un euro, e domani due, ne comprerai di meno. Qui è la stessa cosa. Ognuno fa i propri conti: prima potevo ammalarmi quanto volevo, adesso non più, quindi cercherò di fare meno assenze. Allora si raggiunge un nuovo equilibrio, in cui le assenze tornano a essere costanti".
Certo è che però non basta tenere la gente in ufficio (magari con 38 di febbre) per farla essere produttiva. "La soluzione non è costringere la gente ad andare al lavoro in qualsiasi condizione di salute, visto che si può arrivare a perdere fino a 50 euro al giorno in caso di malattia", contesta Michele Gentile della Cgil: "Quel che servirebbe, in realtà, sarebbero più controlli da parte dei dirigenti, cosa che nel privato avviene molto più che nel pubblico", suggerisce Gianni Baratta della Cisl. Insomma, conclude Gentile, "la diagnosi è giusta, ma la terapia è sbagliata".

Pittsburgh

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PICCOLA AGENDA PER I GRANDI - da "La repubblica" del 25/09/2009 - di Federico Rampini

Il G20 iniziato ieri in Pennsylvania doveva essere l' appuntamento con la riforma del capitalismo globale, sprofondato nella crisi un anno fa. Ma la fase acuta della recessione è alle spalle, la pressione per nuove regole si è smorzata. Resta il dramma dell' occupazione e l' urgenza di un modello di sviluppo più equilibrato. Su questi temi il G20 cercherà di dare nelle conclusioni di stasera almeno una parvenza di unità.
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AMBIENTE. Pittsburgh, ex capitale dell' acciaio, è un modello. Fu una delle metropoli più inquinate, oggi è la prova che si possono abbattere le emissioni di CO quindi gli obiettivi fissati all' Aquila: meno 80% le emissioni nei paesi ricchi entro il 2050, meno 30% nei paesi emergenti. I cinesi obiettano: Pittsburgh è pulita perché la siderurgia l' avete lasciata a noi, delocalizzando le industrie inquinanti. Hu Jintao chiede trasferimenti di tecnologie verdi dai paesi ricchi, e 300 miliardi di dollari di aiuti alle nazioni meno sviluppate per far fronte al cambiamento climatico. Obama punta all' eliminazione dei sussidi sui carburanti fossili, tuttora in vigore in molti paesi emergenti. Alcuni europei vorrebbero mettere all' ordine del giorno una carbon tax, tabù negli Stati Uniti.
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BANCHE Per renderle meno fragili saranno raccomandati nuovi requisiti patrimoniali. Quindi più capitalizzazione. Sembra sconfitta la resistenza dei banchieri europei. I quali lamentano che l' aumento dei capitali congelati nelle loro riserve riduce il credito, quindi toglie un sostegno al sistema delle imprese.
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BONUS La Merkel e Sarkozy hanno lottato con successo per i limiti alle gratifiche dei banchieri e dei loro spericolati trader. Perché tanta insistenza? Perché la struttura delle retribuzioni ha avuto un ruolo nel crac sistemico del 2007-2008, incentivando l' accumulazione di rischi intollerabili nei bilanci delle banche. Un accordo di principio è ormai certo, le retribuzioni bancarie devono essere subordinate ai risultati di bilancio. Ergo: proibito fare bancarotta e scappare con maxi liquidazioni. Ma difficilmente Berlino e Parigi costringeranno gli angloamericani a limiti precisi che vincolino i bonus agli utili su un periodo lungo.
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DEFICIT Cina e Germania temono l' esplosione del debito americano, che può indebolire ulteriormente il dollaro e diffondere inflazione. I padroni di casa devono tener conto di questa preoccupazione, tanto più che Pechino è il loro creditore numero uno. Obama dirà cose rassicuranti, non per forza convincenti: come può ridurre un deficit che viaggia oltre il 10% del Pil, e promettere agli americani che non aumenterà le tasse?
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EMERGENTI Cina India e Brasile usciranno vincitori nel rimescolamento dei diritti di voto al Fondo monetario internazionale. I paesi ricchi dovranno cedere dal 5 al 7% dei loro "pacchetti azionari" in questa istituzione della governance globale. Il rapporto fra le vecchie nazioni industrializzate e le potenze emergenti si avvicinerà alla parità. Di che placare solo momentaneamente la pressione dei Bric per ridimensionare il ruolo universale del dollaro.
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EXIT STRATEGY Su pressione di Obama ormai sono tutti d' accordo per dire: è prematura. L' exit strategy sarebbe il percorso di uscita con cui i governi smantelleranno le misure di emergenza anti-crisi. Ma la recessione sta finendo solo ora e sulla solidità della ripresa non v' è certezza. Annunciare già oggi la fine delle manovre di sostegno alla crescita servirebbe certo a placare i timori d' inflazione, ma potrebbe provocare una ricaduta di sfiducia e pessimismo. Per ora solo le banche centrali vanno avanti con la loro exit strategy: ritirando gradualmente le iniezioni di liquidità d' emergenza.
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OCCUPAZIONE E' il dramma del momento, e lo resterà chissà per quanto tempo ancora. Da Ben Bernanke a Jean-Claude Trichet anche i governatori delle banche centrali lo confermano. La ripresa che viene sarà una "jobless recovery", non porterà con sé creazione di lavoro. Di qui il piano-quadro che Obama ha portato al G20, "per una crescita equilibrata e sostenibile". Si articola per grandi aree dell' economia mondiale. L' America s' impegna a ridurre i suoi debiti che furono tra le cause strutturali della crisi. Ma per compensare la fine del consumismo americano, altri devono diventare le locomotive di una ripresa che generi occupazione. La Cina stimoli i suoi consumi interni e importi di più. L' Europa faccia le riforme strutturali, inclusa una maggiore flessibilità dei mercati del lavoro. E tutti insieme rifuggano dal protezionismo, che ucciderebbe la crescita. Belle promesse che non costano molto, finché rimangono su un comunicato.
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PARADISI FISCALI Al G20 di Londra in aprile ci fu l' impegno ad aumentare la pressione sugli Stati-reprobi che attirano i capitali degli evasori. Da allora c' è stato lo storico accordo tra il ministero di Giustizia americano e la Svizzera sul caso dell' Ubs: migliaia di nomi di clienti americani sono stati consegnati all' Internal Revenue Service. E' un precedente importante, che incoraggia a proseguire la cooperazione tra i leader del G20. Tanto più che il recupero di gettito fiscale è un bisogno impellente in questa congiuntura.
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REGOLE Sarà un caso se nessuno parla più di questo G20 come di una Bretton Woods II? All' apice della crisi, quando un anno fa l' intera finanza mondiale era al collasso, sembrava inevitabile una grande riforma dei mercati sul modello di quella voluta da Roosevelt e Keynes nel 1944. Adesso il panico è passato, i poteri forti della finanza sono ringalluzziti, e fanno ostruzionismo contro riforme radicali. All' ordine del giorno restano i controlli sui titoli derivati, sui futures sulle materie prime, su tutta la finanza creativa ad alto tasso di speculazione. Ma sono già tramontate le idee radicali, come il divieto di speculazione sulle materie prime o la Tobin-tax che prelevi un' imposta su tutte le transazioni finanziarie. Nessun processo alle agenzie di rating né alle authority di vigilanza. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto.

venerdì 25 settembre 2009

Il successo in società

Per sorella morte corporale

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Perché ho il diritto di scegliere la mia morte - di Umberto Eco - da "La repubblica" del 12/02/2009

Benchè il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall' altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia.

Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell' altro, ma per protestare contro l' attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d' accordo.

Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi? Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise.

Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza. In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro.

Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all' esternazione. Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma.

Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche).

In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas...

Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall' eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l' avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un' anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo.

Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l' alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita? Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c' è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo.

Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere? A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell' umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me.

La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all' infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre.

La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l' orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante.

Questo sarebbe l' inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell' inferno. Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative.

In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell' incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari.

Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale? Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D' Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l' inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso. E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo?

Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità? Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l' hanno amata più di quanto l' abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all' amore che una morte può incarnare.

"Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, - da la quale nullu homo vivente pò skappare: - guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; - beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, - ka la morte secunda no ' l farrà male".

Coda di paglia

lunedì 21 settembre 2009

L' eccezionale uomo medio

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Vi sono persone di cui è difficile dire qualcosa che possa raffigurarle con un'unica pennellata, nel loro insieme, nel loro aspetto più tipico e caratteristico; vengono perciò definite abitualmente gente "comune", "maggioranza" e, in effetti, costituiscono la stragrande maggioranza di ogni società.

Un considerevole numero di scrittori, nei romanzi e nelle novelle, cerca di scegliere e di rappresentare in senso artistico tipi che fanno parte della società, ma che si incontrano molto raramente nella realtà e che, ciò nonostante, sono quasi più reali della realtà stessa. Podkolesin [Il protagonista de Il matrimonio di N.V. Gogol' - 1842], nel suo aspetto tipico, anche se è un personaggio caricaturale, forse non è per nulla inverosimile.

Quante persone intelligenti, dopo che hanno conosciuto Podkolesin nell'opera di Gogol', hanno subito cominciato a trovare che decine e centinaia di loro buoni conoscenti e amici sono sorprendentemente simili a lui? Prima di leggere Gogol' infatti, questi signori erano consapevoli che alcuni loro amici erano paragonabili a Podkolesin, ma non sapevano che si potessero definire e raffigurare in un modo simile. Nella realtà, i fidanzati fuggono raramente dalle finestre alla vigilia del loro matrimonio, per la ragione che, tralasciando tutte le conseguenze del caso, non gli conviene: ciò nonostante quanti fidanzati, e mi riferisco anche a persone degne di rispetto e intelligenti, prima della cerimonia, nel profondo della propria coscienza sono disposti, loro per primi, a riconoscersi in Podkolesin?

Non tutti i mariti gridano in ogni momento: "Tu, l'as voulu, George Dandin!". Ma, Dio mio, quanti milioni e milioni di volte i mariti di tutto il mondo hanno ripetuto quest'esclamazione, che saliva dal profondo, dopo la loro luna di miele e, chi può saperlo, forse anche subito, già all'indomani del matrimonio?

E così, senza entrare nel merito di spiegazioni più approfondite, diremo soltanto che, nella realtà, la tipicità delle persone risulta annacquata e tutti questi Georges Dandin e Podkolesin in effetti esistono, vanno e vengono, corrono davanti ai nostri occhi ogni giorno, ma è come se le loro caratteristiche fossero diluite. Precisato infine, per amore di verità, che seppure raramente, nella realtà è possibile trovare anche un Georges Dandin nella sua completezza, così come lo ha creato Molière, poniamo fine alla nostra dissertazione che comincia a divenire simile ad una critica da rivista giornalistica.

Ciò nonostante ci resta da risolvere una questione: che cosa deve fare un romanziere alle prese con la gente ordinaria, assolutamente "comune", e come deve presentarla al lettore per renderla un poco più interessante? Nel racconto non si possono evitare del tutto le persone ordinarie perchè sono, in ogni momento e nella maggioranza dei casi, l'elemento indispensabile che collega gli avvenimenti quotidiani; ignorandole, dunque, contravverremmo alla legge della verosimiglianza. Riempire i romanzi solo di tipi o anche, molto più semplicemente, di persone strane e inesistenti, sarebbe inverosimile e persino poco interessante.

A nostro avviso lo scrittore deve cogliere le sfumature accattivanti e interessanti anche nelle persone ordinarie.

Infatti l'essenza stessa di alcune persone ordinarie consiste nel loro essere sempre e immutabilmente ordinarie, oppure - ancora meglio - nonostante tutti gli enormi sforzi che esse fanno per uscire a qualunque costo dalla normalità e dalla monotonia quotidiana, nel rimanere tali e quali in eterna compagnia del solito tran tran, acquisendo persino proprietà specifiche, come per l'appunto quella proprietà dell'uomo ordinario che per niente al mondo accetta di rimanere ciò che è, e vuole diventare originale e indipendente a tutti i costi pur senza avere la minima possibilità di guadagnarsi questo nuovo stato.

(...) Infatti non c'è nulla di più irritante che essere, per esempio, ricchi, di buona famiglia, dotati di bella presenza, di un'istruzione abbastanza buona, non stupidi, persino di buon carattere e nello stesso tempo non avere nessun talento, nessuna particolarità, neanche qualche stranezza, nessuna idea personale, ed essere decisamente "come tutti gli altri". Si ha la ricchezza, ma non si è dei Rothschild; la famiglia è perbene ma non si è mai distinta in niente; la presenza è gradevole, ma molto poco espressiva; il grado di istruzione è piuttosto buono, ma non si sa come metterlo a frutto; l'intelligenza c'è, ma è priva di idee proprie; il cuore c'è, ma non conosce magnanimità, e così via, per tutti gli aspetti della vita.

Questa gente è la stragrande maggioranza nel mondo e ce n'è persino più di quanto non sembri; la suddetta schiera si divide, come d'altronde tutto il genere umano, in due categorie primarie; della prima fanno parte gli uomini limitati; della seconda quelli "troppo intelligenti".

I primi sono i più felici; per un uomo "ordinario", per esempio, non c'è niente di più facile che credersi un uomo fuori dal comune e originale e deliziarsi di ciò senza esitazione alcuna.

Questo vale per alcune nostre signorine che, tagliati i capelli corti, indossati occhiali azzurri, definitesi nichiliste, si sono subito persuase di aver cominciato ad acquisire all'istante "convinzioni" proprie e personali.

Il discorso vale anche per qualche persona che avendo riscontrato nel proprio cuore l'esistenza di una semplice briciola di sentimento universale (comune peraltro a tutti gli uomini) e buono, si è immediatamente persuasa di provare particolari sentimenti come nessun altro al mondo, nonchè di essere all'avanguardia del progresso generale. Lo stesso esempio è calzante per qualcun altro che, presa alla lettera un'idea qualunque oppure letta una paginetta qualsiasi dall'inizio alla fine, si convince all' istante che si tratti di pensieri "propri e personali", nati autonomamente nel suo cervello. Una simile ingenua sfrontatezza, se così ci si può esprimere, in alcuni casi raggiunge livelli incredibili; tutto ciò ha dell'inverosimile, ma si incontra a ogni istante.
[...]
Uno dei personaggi del nostro racconto, Gavrila Ardalionovic Ivolgin, fa parte invece della seconda categoria, quella degli uomini "ordinari", "troppo intelligenti", che desiderano essere originali dalla testa ai piedi a tutti i costi. Gli appartenenti a questa categoria, come abbiamo notato poco fa, sono molto più infelici di quelli della prima.
Infatti l'uomo "ordinario" intelligente, anche se si è immaginato di sfuggita (o forse anche per tutta la sua vita) di essere geniale e originale, ciò nonostante conserva, nel suo cuore, il tarlo del dubbio che lo porta alla disperazione più profonda; egli si rassegna soltanto quando è ormai avvelenato dalla vanità che gli si è insinuata nel profondo.
Tuttavia noi abbiamo preso ad esempio un caso limite: per la stragrande maggioranza di persone che fanno parte di questa categoria intelligente, le cose non si svolgono poi in maniera così tragica; il fegato si guasta solo verso gli ultimi anni di vita, ed è tutto.
Ciò nonostante, prima di rassegnarsi e di acquietarsi, questa gente, talvolta per molto tempo, commette degli spropositi, a partire dalla giovinezza all'età della rassegnazione, e tutto questo per il desiderio di essere originali. Si incontrano dei casi anche assai strani: per il desiderio di originalità qualche uomo onesto è disposto a commettere persino un'azione vile;
capita anche che qualcuno di questi infelici non solo sia onesto, ma sia anche buono, rappresenti il punto di riferimento della sua famiglia, mantenga e nutra a proprie spese persino degli estranei, non soltanto i famigliari - e cosa gli succede? Per tutta la vita non può mettersi l'anima in pace. Per lui il pensiero di aver adempiuto ai propri doveri umani non è nè tranquillizzante, nè confortante; anzi, lo irrita, e così dice: "Ecco per cosa ho speso tutta la mia vita, ecco cosa mi ha legato mani e piedi, ecco cosa mi ha impedito di scoprire la polvere da sparo! Se non ci fossero stati questi impedimenti, forse avrei scoperto o la polvere da sparo o l'America, certo, non so ancora che cosa, ma avrei scoperto una delle due senz'altro!". L'elemento più caratteristico di questi signori consiste nel fatto che, per tutta la loro esistenza, non potranno mai sapere con esattezza che cosa avrebbero dovuto e che cosa siano stati sul punto di scoprire nel corso della loro vita: se la polvere da sparo oppure l'America. Ma la sofferenze e le angosce di costoro per quello che dovrebbero ancora scoprire, in verità, sarebbero stato sufficienti per i destini di Colombo e di Galileo.

da "L' idiota" di F.M. Dostoevskij

domenica 20 settembre 2009

Damnatio memoriae new age

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Embrioni alla porta del Paradiso
di Umberto Eco (da L'espresso - 2005)

È curioso il ribaltamento della posizione della Chiesa sulla vita umana rispetto alla dottrina di San Tommaso.
Nei giorni scorsi Giovanni Sartori, sul 'Corriere della Sera' è intervenuto in termini filosofici sulla questione degli embrioni e dell'inizio della vita, citando ampiamente la posizione detta 'creazionista' di San Tommaso d'Aquino.

Si tratta di una posizione già ricordata negli ultimi tempi da alcuni autori laici (io per esempio ne avevo parlato in una Bustina del settembre 2000) ma che curiosamente non è stata mai ripresa negli ambienti fondamentalisti cattolici.

La posizione di Tommaso (che nel corso dei secoli la Chiesa non ha mai espressamente negato, condannando anzi quella opposta di Tertulliano) è la seguente: i vegetali hanno anima vegetativa, che negli animali viene assorbita dall'anima sensitiva, mentre negli esseri umani queste due funzioni vengono assorbite dall'anima razionale, che è quella che rende l'uomo dotato di intelligenza e ne fa una persona come 'sostanza individua di una natura razionale'.

Tommaso ha una visione molto biologica della formazione del feto: Dio introduce l'anima solo quando il feto acquista, gradatamente, prima anima vegetativa e poi anima sensitiva. Solo a quel punto, in un corpo già formato, viene creata l'anima razionale ('Summa Theologiae', I, 90).

L'embrione ha solo l'anima sensitiva ('Summa Theologiae', I, 76, 2 e I, 118, 2). Nella 'Summa contra gentiles' (II, 89) si dice che vi è una gradazione nella generazione, "a causa delle forme intermedie di cui viene dotato il feto dall'inizio sino alla sua forma finale".

Ed ecco perché nel Supplemento alla 'Summa Theologiae' (80, 4) si legge questa affermazione, che oggi suona rivoluzionaria: dopo il Giudizio Universale, quando i corpi dei morti risorgeranno affinché anche la nostra carne partecipi della gloria celeste (quando già secondo Agostino rivivranno nel pieno di una bellezza e completezza adulta non solo i nati morti ma, in forma umanamente perfetta, anche gli scherzi di natura, i mutilati, i concepiti senza braccia o senza occhi), a quella 'risurrezione della carne' non parteciperanno gli embrioni. In loro non era stata ancora infusa l'anima razionale, e pertanto non sono esseri umani.

Si può dire che la Chiesa, spesso in modo lento e sotterraneo, ha cambiato tante posizioni nel corso della sua storia che potrebbe avere cambiato anche questa. Ma è singolare che qui siamo di fronte alla tacita sconfessione non di una autorità qualsiasi, ma dell'Autorità per eccellenza, della colonna portante della teologia cattolica.

Le riflessioni che nascono a questo proposito portano a conclusioni curiose. Noi sappiamo che a lungo la stessa chiesa cattolica ha resistito alla teoria dell'evoluzione, non tanto perché sembrava contrastare col racconto biblico dei sette giorni della creazione (su questo erano già d'accordo i commentatori antichi, la Bibbia parla per metafore ed espressioni poetiche, e sette giorni potrebbero anche voler dire sette milioni di anni) ma perché cancellava il salto radicale, la differenza miracolosa tra forme di vita pre-umane e l'apparizione dell'Uomo, annullava la differenza tra una scimmia, che è animale bruto, e un uomo che ha ricevuto un'anima razionale.

Poi lentamente la chiesa ha non dico sostenuto ma ammesso il darwinismo purché si riconoscesse che, nella continuità della catena della vita dal primo unicellulare ad Adamo, s'inseriva una spaccatura, il momento in cui a un essere vivente viene conferita un'anima immortale. Solo i fondamentalisti protestanti (e qualche sciagurato consulente del nostro ministero della Pubblica Istruzione) hanno continuato ad avere orrore dell'ipotesi evoluzionista.

Ora la battaglia certamente neo-fondamentalista sulla pretesa difesa della vita, per cui l'embrione è già essere umano in quanto in futuro potrebbe diventarlo, sembra portare i credenti più rigorosi sulla stessa frontiera dei vecchi materialisti evoluzionisti di un tempo: non c'è frattura (quella definita da San Tommaso) nel corso dell'evoluzione dai vegetali agli animali e agli uomini, la vita ha tutta lo stesso valore. E infatti Sartori nella sua polemica si chiede se non si faccia una certa confusione tra la difesa della vita e la difesa della vita umana, perché il difendere a ogni costo la vita ovunque là dove si manifesti, in qualsiasi forma si manifesti, porterebbe a definire come omicidio non solo spargere il proprio seme a fini non fecondativi, ma anche mangiare polli e ammazzare zanzare, per non dire del rispetto dovuto ai vegetali.

Conclusione: le attuali posizioni neofondamentalistiche cattoliche non solo sono di origine protestante (che sarebbe il meno) ma portano a un appiattimento del cristianesimo su posizioni insieme materialistiche e panteistiche, e su quelle forme di panpsichismo orientale per cui certi guru viaggiano con la garza sulla bocca per non uccidere micro-organismi respirando. Non sto pronunciando giudizi di merito su una questione certamente molto delicata. Sto rilevando una curiosità storico-culturale, un curioso ribaltamento di posizioni. Dev'essere l'influenza del New Age.

Quando levarono dal muro il primo mattone

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da "La repubblica" del 15/09/2009 - di Bernardo Valli

VARSAVIA - Il viaggio nell' 89 ha tante tappe obbligate, è ritmato da tante date decisive che conducono al crollo del Muro di Berlino, il 9 novembre, e poi, in dicembre, al tragico finale rumeno, con la fucilazione in Romania dei coniugi Ceausescu. L' esecuzione conclude l' anno, fino allora senza spargimento di sangue.
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Ritorneremo sui nostri passi, ma partendo dalla Polonia si impone una data: il 4 giugno 1989. A Pechino, quel giorno, sulla Tiananmen, la protesta dei giovani viene soffocata dai carri armati. Nelle stesse ore a Varsavia, e nel resto della Polonia, si svolgono le prime elezioni semilibere in una delle cosiddette democrazie popolari, ossia nei paesi comunisti all' ombra dell' impero sovietico. La tragedia cinese monopolizza l' attenzione del mondo e fa quasi ignorare il voto polacco, in quel momento marginale per l' attualità, ma che si rivelerà una delle tappe più significative dell' anno in cui cambia il mondo.

Ai due estremi dell' universo comunista avvenimenti simultanei sono affrontati con metodi opposti: in Asia con una violenza che condurrà a un comunismo di mercato di clamoroso successo; in Europa con uno zelo riformista che condurrà dritto al fallimento di un sistema irriformabile, e alla formazione di una nuova Europa.

Il comunismo cinese va al compromesso ideologico con un massacro. Il comunismo europeo tenta il compromesso con una revisione incruenta e impossibile.

Le regole del voto polacco sono singolari. Il 35 per cento dei seggi della Dieta, la Camera dei deputati,è accessibile ai candidati non comunisti, quindi a quelli del sindacato Solidarnosc, ormai riconosciuto dal regime. I restanti sono riservati al partito. Per il Senato invece l' elezione è libera, aperta a diverse candidature. L' insolito, anzi inedito voto di Varsavia, viene espresso in un clima d' attesa, in cui speranze e timori si alternano, in tutti gli angoli dell' impero sovietico. Esso è stato concordato, nei minimi particolari, due mesi prima durante un' eccezionale Tavola rotonda, cui hanno partecipato gli uomini del potere comunista e quelli del movimento democratico.

Quest' ultimo, nato durante gli scioperi di Danzica, nel 1980, è formato da tre correnti: la tendenza operaia di cui l' elettricista Lech Walesa è il simbolo; la tradizione cattolica e nazionalista; e la resistenza intellettuale, incarnata, tra gli altri (secondo Adam Michnik, uno dei protagonisti di Solidarnosc), da Czeslaw Milosz, Premio Nobel per la poesia. Il Partito non è monolitico: a una tendenza maggioritaria, refrattaria al revisionismo, se ne affianca una riformista che si esprime nel settimanale Polityka.

La Tavola rotonda e le successive elezioni, con la partecipazione di Solidarnosc, perseguitato da anni e appena uscito dalla clandestinità, sono state rese possibili dalla situazione creatasi nell' Europa dell' Est. Senz' altro dalla lunga lotta del sindacato democratico e dalla sua crescente influenza nella società polacca; ma anche dalle forti vampate nazionaliste che agitano le repubbliche dell' Urss; dai riformatori che in seno ai partiti comunisti nelle diverse capitali alzano sempre più la voce; dalla destituzione, a Budapest, di Janos Kadar provocata da quei riformatori; ma a elettrizzare il clima politico, in tutti i paesi comunisti, è quel che accade a Mosca.

Già dal 1986 Mikhail Gorbaciov, dall' anno prima segretario generale del partito, nel tentativo di riformare il sistema, immerso in una crisi economica e morale, ha promosso sul piano politico la glasnost (alla lettera «trasparenza»,e in senso figurato: la possibilità di esprimersi); e su quello economico la perestroika (la «ristrutturazione»).

L' evoluzione politica nell' Unione sovietica ad opera di Gorbaciov, dice Adam Michnik, è stato il motore principale dell' 89. Al contrario del nuovo segretario sovietico, convinto di una possibile revisione del sistema del quale era la massima autorità, i dissidenti polacchi pensavano però che quel tentativo avrebbe condotto alla inevitabile distruzione del blocco comunista. E quindi credevano in una imminente rivoluzione senza violenza, senza utopia né progetto. Una rivoluzione un giorno vittoriosa. Ma quando?

Negli anni Trenta l' Unione Sovietica poteva anche apparire, secondo Michnik, come il simbolo del progresso e dello sviluppo. Ma mezzo secolo dopo era diventata una società anacronistica. Inoltre l' antagonismo tra il modello sovietico, basato sul pensiero unico, e le diverse tradizioni nazionali dei paesi satelliti, era diventato controllabile soltanto con periodici interventi militari.

Come a Budapest nel ' 56 o a Praga nel ' 68. La dottrina Breznev, sulla sovranità limitata degli Stati socialisti, sembrava ormai di difficile applicazione, anche se la sua abolizione ufficiale sarebbe stata annunciata soltanto un mese dopo le elezioni polacche, durante il vertice del Patto di Varsavia (l' alleanza militare a guida sovietica) convocato a Bucarest.

E' in questa atmosfera che all' alba del 5 giugno 1989 i militanti di Solidarnosc, una dozzina in tutto, raccolgono i risultati del voto del giorno prima. Si sono annidati nel caffé Niespodzianka (il Caffé Sorpresa) armati di telefoni e lavagne sulle quali scrivono i dati in arrivo dai centri elettorali. I varsaviesi diretti al lavoro si fermano davanti al locale, sotto i portici di viale Marszalkowska, che parte da piazza della Costituzione, storica ribalta di Varsavia.

All' improvviso dalla folla sempre più densa si levano grida di gioia. I numeri sulle lavagne, appese fuori dal Niespodzianka, sono una rivelazione. Al Senato 99 eletti su 100 non sono comunisti. E alla Dieta tutti i candidati di Solidarnosc sono stati eletti. Mentre 15 dei 17 membri dell' Ufficio politico del partito hanno perduto il loro seggio. Il movimento democratico ha stravinto nelle prime elezioni semilibere. E' il trionfo di Solidarnosc. Il 18 agosto, sempre nel 1989, l' intellettuale cattolico Tadeusz Mazowiecki, membro di Solidarnosc, sarà nominato capo del governo. Il primo non comunista a ricoprire la carica nell' Europa centro-orientale.

Due anni dopo si dissolverà l' Unione Sovietica. Nelle varie capitali, i proconsoli comunisti erano inquieti. Seguivano con apprensione l' attività e le dichiarazioni degli esperti che circondavano Mikhail Gorbaciov. In particolare va ricordato Alexander Iakovlev, il più ascoltato dei consiglieri. Il quale, poco prima di morire (2005) spiegherà con orgoglio: «Noi abbiamo dato l' ordine ai nostri ufficiali e ai nostri soldati di non uscire dalle caserme, neppure per fare dello shopping».

Iakovlev pronuncerà queste parole riferendosi alle truppe sovietiche acquartierate nella Germania Orientale alla vigilia e durante la caduta del Muro, avvenuta in novembre. Ma già prima Oleg Bogomolov, un altro degli esperti di Gorbaciov, nella sua veste di presidente dell' Istituto di marxismo- leninismo presso il comitato centrale del partito sovietico, aveva creato perplessità o addirittura il panico, lasciando apertamente capire che l' interpretazione degli avvenimenti del ' 68 praghese poteva essere ristudiata.

I comunisti ortodossi avevano ragione di preoccuparsi: nel centro dell' impero si pensava a una revisione partendo dall' eresia della Primavera cecoslovacca, repressa vent' anni prima? A questo scenario si deve aggiungere che prima delle elezioni semilibere polacche di giugno, c' erano state in marzo le elezioni nell' Unione Sovietica: e il dissidente Andrei Sakharov, simbolo del male per i comunisti russi, liberato da Gorbaciov, era entrato nel Congresso dei deputati del popolo.

Sono in tanti ad aggiudicarsi il merito di avere contribuito, nell' Europa dell' Est, alla «primavera dei popoli». I polacchi hanno validi motivi. L' espressione romantica, un po' ottocentesca, di «primavera dei popoli», vuole riassumere gli avvenimenti verificatisi nel 1989, a breve distanza uno dall' altro, spesso quasi simultanei, come tante frane successive, inarrestabili, fino allo sgretolamento dell' Impero Sovietico, che arrivava nel cuore della Germania.

Gyorgy Lukàcs, il critico letterario e filosofo marxista, al quale chiedevo un giudizio sul comunismo, subito dopo l' invasione della Cecoslovacchia (eravamoa Budapest nel tardo ' 68), mi disse: «Pensi al cristianesimo quando aveva una sessantina d' anni. Anche il comunismo cambierà nei prossimi millenni». Vent' anni dopo la morte di Lukacs il sistema comunista, del quale lui, sia pur da una posizione critica, non riusciva neppure a immaginare la fine, è franato. Sarebbe morto nell' impossibile tentativo di riformarsi.

A Washington si pensa che la politica di Reagan, puntando sulla sfida degli armamenti, abbia messo alle corde l' Unione Sovietica, incapace di sostenere il confronto, anche sul piano economico.

A Berlino c' è chi è pronto a giurare che l' ostpolitik di Willy Brandt, vale a dire il dialogo con i paesi comunisti, abbia contribuito col tempo al crollo dell' impero.

In Vaticano si è convinti, con incontestabile ragione, che l' azione di Giovanni Paolo II, il papa polacco, abbia pesato. Le folle che attirò durante le sue visite in Polonia umiliarono il potere comunista. E si può sottolineare, adesso, che, senza il suo carisma e finita la situazione d' emergenza, nella Polonia democratica il partito cattolico (L' Unione nazionale cristiana), fondato nel ' 90, ha ottenuto meno voti di quello comunista.

Anchea Kabul si pensa che i mujahidin, provocando il disastroso ritiro delle truppe sovietiche dall' Afghanistan, abbiano inferto un colpo mortale all' URSS.

Adam Michnik ha comunque ragione quando dice che la prima grande «delegittimazione», a Est, è venuta dal sindacato polacco Solidarnosc.