
Che la giustizia, la giustizia assoluta, sia sempre stata cercata non è un buon motivo per dire che possa anche essere trovata. Quante cose, lungo la nostra esistenza, cerchiamo e non troviamo. Si è tanto lavorato con argomenti solo apparentemente inoppugnabili e i risultati, le concezioni della giustizia, sono state tante, tutte altrettanto prive di valore assoluto, quanto dotate di attrattive soggettive. Si potrebbe perfino dire che proprio il grande, inesauribile e inesausto lavoro dei filosofi sulla giustizia è la migliore dimostrazione dell'irraggiungibilità della meta. (...) cercare la giustizia pensando di trovarla una volta per tutte e per tutti è insensato, ma rinunciare per questo motivo a cercarla sarebbe a sua volta un'amputazione della nostra umanità, una consapevole autoriduzione allo stato ferino. Nel discorso sulle beatitudini, il "discorso del monte", (Matteo, 5, 6 e 10) non si parla affatto dei giusti come di coloro che hanno trovato la giustizia e la mettono in pratica ma come di quelli "che hanno fame e sete di giustizia" e di quelli che sono "perseguitati per causa della giustizia". La giustizia che è concessa agli esseri umani è una ricerca, un andar cercando, lungo strade piene di pericoli. Dunque non si tratta di un abbaglio o di un miraggio ma di un aspetto della humana condicio.
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Il principio "a ciascuno il suo" è forse il più antico principio della giustizia, un principio al quale nessuno saprebbe dire di no. Ma, purtroppo, è soltanto un principio formale, privo di contenuto. E', come si dice, una scatola vuota e, essendo vuota, ognuno di noi la può riempire come gli pare. Per questo è impossibile non essere d'accordo con questa formula che contiene un precetto che, a rigor di logica, chiunque, quale che sia il contenuto del suo agire, potrebbe dimostrare di avere rispettato. Il prezzo dell'accordo è la sua vacuità. (...) San Martino (...) incontrato un ignudo, scese da cavallo e divise in due, in parti uguali, il suo mantello. Questa è un'applicazione della massima "a ciascuno il suo". Ma ricorderà certamente anche quanto (quasi come il monito dantesco all'ingresso dell'inferno: lasciate ogni speranza...) stava scritto all'ingresso del campo nazista di Buchenwald, come benvenuto preparato per ebrei, oppositori politici, deportati di ogni genere: Jedem das Seine, a ciascuno il suo. Che cosa dire, se non che si tratta di una formula completamente vuota di significato? Così come vuote sono del resto tutte le formule assolute della giustizia. Vale la regola che, se sono assolute, sono vuote; se fossero piene, non sarebbero assolute ma relative; varrebbero cioè per uno ma non necessariamente per un altro; in un tempo, in un luogo, ma non in altri tempi e luoghi.
Quel che non è detto è che cosa sia "il suo", cioè quel che ognuno si merita. Anche le specificazioni: a ciascuno ciò che corrisponde al suo merito, alle sue opere, ai suoi bisogni ecc. sono solo apparenti. Chi determinerà l'indeterminato? E come lo determinerà? Questo è il punto decisivo. Perfino l'apparentemente meno ambiziosa definizione utilitaristica della giustizia: il maggior bene diviso per il maggior numero, tace sul punto essenziale, che cosa sia il bene (e che cosa sia il male). Le formule generali della giustizia non faranno altro che ratificare quel che sarà deciso da parte di chi avrà il potere di decidere.
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Si tratta di prendere atto che nelle nostre società vivono numerose concezioni della vita giusta e che queste sono continuamente in confronto le une con le altre, si influenzano reciprocamente e, a contatto tra loro e in presenza di situazioni e problemi in precedenza sconosciuti, si modificano, muoiono e altre ne prendono il posto. Questa situazione, potremmo dire, di pluralismo, e anche di relativismo della giustizia, rende impossibile - aggiungo: per nostra fortuna - la giustizia assoluta, quella giustizia di cui abbiamo già visto i pericoli. Il diritto, in molte situazioni, da strumento di imposizione formale della giustizia, nella sua nozione esclusiva vigente, diventa allora la via della convivenza tra le diverse concezioni della vita giusta. Naturalmente esistono dei fondamentali comuni a tutti, senza i quali una società non sarebbe una società e la stessa coesistenza delle plurime concezioni della giustizia non potrebbe darsi. Un nucleo minimo di diritto forte, spesso presidiato dalla sanzione penale, non può dunque non esistere. Ma al di là di questo, il diritto deve farsi mite, per essere strumento di convivenza delle diversità. Uno dei maggiori problemi costituzionali che oggi abbiamo davanti agli occhi è qual'è il confine tra questi due ambiti, fin dove il legislatore può spingersi a imporre regole uniformi che mortificano la diversità e a partire da dove, invece, le diversità devono essere rispettate.
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La costituzione non è affatto il comando di un legislatore supremo, di un'autorità sovrana. E' invece il punto d'incontro, l'accordo, il compromesso che sta alla base della convivenza di tanti soggetti, portatori di identità politiche diverse che cercano di combinarle in un patto di convivenza. Nell'epoca del pluralismo, domani del "multiculturalismo", continuare a dire che la costituzione è una""decisione sovrana", ripetendo formule adeguate forse a momenti costituzionali del passato, significa impedire a sè e agli altri la comprensione del tempo presente.
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La costituzione sta "sopra", quando la si fa valere come norma più elevata (higher law) per contrastare la politica che si avvalesse di leggi incostituzionali. Questo modo di vedere è tipico delle giurisdizioni costituzionali e sta alla base del controllo di costituzionalità delle leggi. (...) Al tempo stesso, la Costituzione è da concepirsi come legge fondamentale (basic law), legge che fornisce le fondamenta al pavimento dell'abitazione, secondo l'espressione che si trova nella Opinione sulla giuria costituzionale dell'abate Sieyè (1795). Mentre la legge più alta suggerisce un'idea di repressione delle deviazioni incostituzionali, la legge che sta al fondo suggerisce piuttosto un'idea di radici e di sviluppo alimentato dalle radici, e ciò tanto più in quanto la Costituzione sia ricca di principi che chiedono di essere progressivamente attuati.
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Il diritto non vive di se stesso, ma vive di noi che agiamo per creare le sue premesse.
da "La virtù del dubbio - Intervista su etica e diritto a Gustavo Zagrebelsky" - a cura di Geminello Preterossi
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