giovedì 31 dicembre 2009

The whipping boy

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Prince Edward's whipping boy
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Whether or not it is a bad thing to get punished will largely depend upon the punishment, but when you deserve to be punished, and some one else is at hand to receive it in your stead, then punishment is apt to become a farce. Just consider this: I deserve the whipping, but you are hired to take it for me. Perhaps you think this is a joke, but I am really in earnest. I am alluding to a practice which was actually once in vogue—though never to a great extent—in this and other countries. By whipping one boy instead of another it was hoped that the feelings of the offender would be so worked upon, that he would refrain from doing wrong rather than have an innocent lad punished.

Well, the long retinue of servants in the households of kings usually included a whipping-boy, kept to be whipped when a prince needed chastisement. What a funny occupation!
D'Ossat and Du Perron, who ultimately rose to the dignity of cardinals in the Roman Catholic Church, were whipped by Pope Clement VIII. in the place of Henri IV. And there stood for Charles I. a lad called Mungo Murray, whose name would seem to show that he was of Scottish birth. The most familiar example of whipping-boy is mentioned by Fuller in his "Church History." His name was Barnaby Fitzpatrick, and the prince whose punishments he bore was Edward, son of bluff King Hal, who was afterwards Edward VI., the boy-king of England.
The scene which the picture (...) brings vividly (...) represents one aspect of the use of whipping-boys. It tells its story well.
The young prince would seem to have incurred his tutor's displeasure, and the birch is about to be employed upon the person of the unfortunate Fitzpatrick. But Prince Edward cannot bear to see poor Barnaby flogged instead, and is interceding with his grave guardian on behalf of the lad.
By all accounts which we have the boy-king was a clever and amiable youth, and his untimely death in his sixteenth year would appear to show that he stood much more in need of the tenderest care than of the birch.
It need hardly be added that as soon as he mounted the throne the services of Fitzpatrick could no longer be in request. You may whip a prince, but when that prince becomes king, even while still a boy, the rod must be banished forthwith. Shakespeare says "uneasy lies the head that wears a crown," and this must be especially true in such a case as that of the hapless young Edward, who had to discharge all the kingly duties without being old enough to feel much, if any, interest in them. His courtiers spoke of him as if he were a boy Solomon, and he cannot have needed much castigation, even through the medium of Barnaby Fitzpatrick.
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da "Little Folks (October 1884) - A Magazine for the Young"
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A whipping boy, in the 1600s and 1700s, was a young boy who was assigned to a young prince and was punished when the prince misbehaved or fell behind in his schooling. Whipping boys were established in the English court during the monarchies of the 15th century and 16th century. They were created because the idea of the Divine Right of Kings, which stated that kings were appointed by God, and implied that no one but the king was worthy of punishing the king’s son. Since the king was rarely around to punish his son when necessary, tutors to the young prince found it extremely difficult to enforce rules or learning.

Whipping boys were generally of high birth, and were educated with the prince since birth. Due to the fact that the prince and whipping boy grew up together since birth, they usually formed an emotional bond, especially since the prince usually did not have playmates like other children would have had. The strong bond that developed between a prince and his whipping boy dramatically increased the effectiveness of using a whipping boy as a form of punishment for a prince. The idea of the whipping boys was that seeing a friend being whipped or beaten for something that he had done wrong would be likely to ensure that the prince would not make the same mistake again.

The life of a whipping boy was usually one of sorrow and pain,[citation needed] but, sometimes, they were rewarded by the princes they served. King Charles I of England made his whipping boy, William Murray, the first Earl of Dysart in 1643 after he had been living in the palatial Ham House since 1626 under the request of King Charles I.
The children's book
The Whipping Boy by Sid Fleischman, which is about a prince and his whipping boy, was the winner of the Newbery Medal in 1987.
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da WIKIPEDIA

mercoledì 30 dicembre 2009

Basta pagare... (?)

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L'amaca di Michele Serra del 29/12/2009

Gli "sprovveduti" che in montagna mettono a repentaglio la propria vita e quella dei soccorritori sono gli stessi che affollano gli alberghi,i ristoranti,i negozi di articoli sportivi, e hanno arricchito le valli alpine.

Bertolaso fa bene a biasimarli: ma questo è il turismo di massa. Cioè l' idea, demagogica ma economicamente fruttuosa, che tutto sia alla portata di tutti, dalla spiaggetta tranquilla alla cresta aguzza, dalla grigliata sugli scogli al trekking sopra i crepacci e in mezzo alle slavine.

Poiché non è spendibile il proposito di restituire ai pochi e ai ricchi il privilegio della bellezza, sarebbe però urgentissimo dire forte e chiaro che non tutto è facile, non tutto acquistabile. Che salire (anche in senso metaforico) è difficile, duro, faticoso, selettivo. Salire (migliorare, migliorarsi) non è il dozzinale benefit che i venditori promettono a chiunque, purché paghi. È una disciplina, è uno stravolgimento delle comodità e delle consuetudini, comporta l' errore, comporta la rinuncia. E questo vale per la montagna, per la cultura, per il successo, per la fortuna sociale, per tutto ma proprio tutto quello che la società di massa ha trasformato in una svendita. E invece è una libera, avventurosa conquista.

martedì 15 dicembre 2009

Isteria politica (con tutti gli annessi e connessi in termini di illiberalità varie)

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Dove non batte mai il sole
da "Tempo reale", il blog di Vittorio Zucconi su repubblica.it - post del 15/12/2009

Forse bisognerebbe piantarla con queste stronzate su Internet come untore di epidemie mentali e diffusore di virus sovversivi, che periodicamente riaffiorano come l’herpes. Questo blog – tenuto aperto e con un minimo di disinfestazione – dimostra che di imbecilli, provocatori e spargi cazzate gratutite e insolenti il mondo abbonda, ma se qualcuno si prendesse la briga di consultare i cataloghi delle librerie e delle biblioteche, si accorgerebbe che non c’è stato bisogno di Internet per diffondere il Manifesto dei Comunisti, il Mein Kampf di Hitler e altri scritti che hanno cambiato, in peggio o in meglio, il mondo, come le tesi di Martin Lutero (per favore, capite il senso, non sto paragonando i cristiani riformati ai nazisti o ai comunisti), o il Corano (idem). Le peggiori tragedie umane, le stragi più oscene, le tirannidi più truculente non hanno avuto bisogno dei blog e dei social network per diffondersi o per organizzare olocausti e genocidi, e neppure della televisione, per avverarsi. Al contrario, con un po’ meno di reazione riflessa (kneejerk reaction, in inglisc, come il riflesso del ginocchio battuto dal martelletto del medico) si potrebbe arguire che è vero l’opposto, che l’areazione dei peggiori sentimenti e degli umori più fetidi che albergano nella pancia della società tende, semmai, a funzionare da disinfettante. E’ dove non batte mai il sole e non passa l’aria che si sviluppano, nel buio e in assenza di ossigeno, le infezioni più micidiali.

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Cambiamenti di clima
da "Tempo reale", il blog di Vittorio Zucconi su repubblica.it - post del 15/12/2009

Chi di noi ricorda, per averli vissuti personalmente come li vissi io che quella mattina dovetti andare in via Fani per “La Stampa”, i 55 giorni del rapimento, della prigionia e dell’assassinio di Aldo Moro, o le ore strazianti dell’agonia del mio allora vice direttore Casalegno a Torino, dovrebbe segnalare agli esagitati commentatori e ai cinici strumentalizzatori di queste ore, che avventurarsi in paragoni con gli anni ‘70 è, prima che falso, criminale. Chi non c’era, potrebbe credere che esista davvero un parallelo fra quanto è accaduto domenica in Piazza del Duomo a Milano e quanto accadde nella primavera del 1978 o nei giorni in cui si accendeva la radio ogni giorno per sapere chi fosse stato gambizzato, rapito o fatto secco. Chi c’era e sostiene che viviamo un clima da anni ‘70, non soltanto mente sapendo di mentire, ma insulta la memoria di uno statista tormentato e autentico come Aldo Moro.

Si vis pacem... Et cetera et cetera...

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Il soldato riluttante
di Vittorio Zucconi (da "La Repubblica" del 11/12/2009)


Sta nell'equivoco insidioso tra "pacifico" e "pacifista" la chiave per capire le perplessità e i sarcasmi che hanno accompagnato, in America come nel resto del mondo, la consegna del Nobel per la pace a Barack Obama.

Se il Presidente americano sembra avere tradito le speranze che lui stesso aveva suscitato e avere accettato un riconoscimento che stride con la escalation della guerra in Afghanistan, è perché si vuole ignorare la differenza fondamentale che esiste fra coloro che combattono guerre "per scelta" e coloro che le combattono "per necessità".

È la abissale distanza morale che separa le guerre di Roosevelt in Europa e nel Pacifico, dalle guerre di Johnson e Nixon in Asia, le divisioni di Wilson sacrificate sul fronte francese dalla aggressione nipponica a Pearl Harbor, e che Obama ha riassunto, nell'accettare il premio con modestia ai limiti dell'imbarazzo, in un altro aggettivo chiave: "giusta".

Per la nobile sensibilità del pacifista, quella fra "giusta" e "ingiusta" è una distinzione senza una differenza, essendo ogni guerra per definizione il Male assoluto da respingere. Per la responsabilità dell'uomo pacifico e del guerriero riluttante, le armi sono invece l'ultimo ricorso, quando ogni altro tentativo, se fatto seriamente e non soltanto per predisporsi un alibi propagandistico, è fallito.

Nel confondere Obama con Bush, nel mescolare la tragica ideologia della "democrazia da esportare" laddove aggradi al più forte con la amarissima, sofferta scelta di insistere nell'operazione afghana, troppi osservatori dimenticano, forse in malafede, che l'invasione, l'occupazione e le operazioni di controguerriglia in Afghanistan ebbero, e ancora hanno, la piena e formale sanzione dell'Onu, che riconobbe nel regime Talebano e nella metastasi terroristica da esso ospitata, una minaccia per l'umanità, manifestata nell'ignominia delle Due Torri.

Fu invece soltanto a cose fatte e decise, dopo la stravagante e inedita formula della "coalizione di chi era disposto a starci", costruita su un cumulo di false prove e di dottrine tagliate su misura, che l'Onu diede a malincuore una copertura agli Stati Uniti, quando invasero e occuparono una nazione governata da un regime abominevole, ma estraneo alle trame del fondamentalismo globale.
Qui si spalanca l'equivoco fra "pacifista" e "pacifico". Se la ideologia del pacifismo fosse accettabile, sarebbe Neville Chamberlain, il premier britannico che non osò fermare Hitler per non spezzare la pace formale in Europa, a meritare il Nobel, e sarebbe invece Winston Churchill, colui che utilizzando ogni arma in proprio possesso, rispose ferocemente all'aggressione tedesca, garantendo così due generazioni di pace e di libertà all'Europa occidentale.

Il pacifismo, ben oltre il valore sempre assai discutibile di un premio come questo Nobel che ha coronato discutibili campioni della mitezza come Kissinger, il nordvietnamita Le Duc-Tho o Yasser Arafat, è un lusso che il primo responsabile di una nazione come gli Stati Uniti non si può concedere.

Non quando dal sistema di sicurezza collettiva instaurato dopo il 1945, non per volontà americana ma per il risucchio del suicidio europeo, dipende, ieri nella Guerra Fredda, oggi nella guerra subdola e asimmetrica contro il fanatismo armato, la sopravvivenza di chi agli Usa si è affidato. Scoprendosi, come disse un incontestabile leader della sinistra mondiale, Enrico Berlinguer, "più sicuri" da questa parte.

La scelta di accrescere, e non di smobilitare, l'occupazione dell'Afghanistan, lo scontro contro i neo-Taleban risorti grazie al fallimento della strategia adottata da Bush che aveva sprecato consenso e uomini per abbattere Saddam mentre si ricostituiva al Qaeda, l'estensione delle missioni in territorio pakistano - come Obama aveva sempre annunciato di voler fare - potrà rivelarsi catastrofica o vincente, un nuovo Vietnam o almeno una Corea stabilizzata nella sua suddivisione. Ma Obama è sicuramente dentro la storia e la tradizione e la cultura americana, anche se i sondaggi per il momento lo castigano, nell'accettare la tragica necessità della guerra e nello sfuggire, come fecero Wilson, come Roosevelt, come Truman, alla tentazione dell'isolazionismo e dell'autoesclusione da un mondo che non è più separato da comodi oceani.

Obama è l'uomo tranquillo che non vorrebbe battersi, ma non può accettare la violenza, il sopruso e la minaccia alla nazione che gli si è affidata.

È il leggendario "Sergente York" interpretato nel 1941 da Gary Cooper, strenuo obbiettore di coscienza e pacifista che, costretto in trincea, impara a uccidere e a sconfiggere il nemico. E sa che la strada per ogni pace, pur effimera, è sempre, nel calvario della storia umana, lastricata dalla guerra. Se quello sarà il risultato, questo Nobel sarà stato ben meritato.

sabato 12 dicembre 2009

Si vis pacem para bellum

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Your Majesties, Your Royal Highnesses, distinguished members of the Norwegian Nobel Committee, citizens of America, and citizens of the world:
I receive this honor with deep gratitude and great humility. It is an award that speaks to our highest aspirations -- that for all the cruelty and hardship of our world, we are not mere prisoners of fate.
Our actions matter, and can bend history in the direction of justice.
And yet I would be remiss if I did not acknowledge the considerable controversy that your generous decision has generated.

In part, this is because I am at the beginning, and not the end, of my labors on the world stage. Compared to some of the giants of history who’ve received this prize -- Schweitzer and King ; Marshall and Mandela -- my accomplishments are slight. And then there are the men and women around the world who have been jailed and beaten in the pursuit of justice ; those who toil in humanitarian organizations to relieve suffering ; the unrecognized millions whose quiet acts of courage and compassion inspire even the most hardened cynics. I cannot argue with those who find these men and women -- some known, some obscure to all but those they help -- to be far more deserving of this honor than I.

But perhaps the most profound issue surrounding my receipt of this prize is the fact that I am the Commander-in-Chief of the military of a nation in the midst of two wars.

One of these wars is winding down. The other is a conflict that America did not seek ; one in which we are joined by 42 other countries -- including Norway -- in an effort to defend ourselves and all nations from further attacks.

Still, we are at war, and I’m responsible for the deployment of thousands of young Americans to battle in a distant land. Some will kill, and some will be killed. And so I come here with an acute sense of the costs of armed conflict -- filled with difficult questions about the relationship between war and peace, and our effort to replace one with the other.
Now these questions are not new.
War, in one form or another, appeared with the first man. At the dawn of history, its morality was not questioned ; it was simply a fact, like drought or disease -- the manner in which tribes and then civilizations sought power and settled their differences.
And over time, as codes of law sought to control violence within groups, so did philosophers and clerics and statesmen seek to regulate the destructive power of war. The concept of a « just war » emerged, suggesting that war is justified only when certain conditions were met : if it is waged as a last resort or in self-defense ; if the force used is proportional ; and if, whenever possible, civilians are spared from violence.

Of course, we know that for most of history, this concept of « just war » was rarely observed. The capacity of human beings to think up new ways to kill one another proved inexhaustible, as did our capacity to exempt from mercy those who look different or pray to a different God.

Wars between armies gave way to wars between nations -- total wars in which the distinction between combatant and civilian became blurred. In the span of 30 years, such carnage would twice engulf this continent. And while it’s hard to conceive of a cause more just than the defeat of the Third Reich and the Axis powers, World War II was a conflict in which the total number of civilians who died exceeded the number of soldiers who perished.
In the wake of such destruction, and with the advent of the nuclear age, it became clear to victor and vanquished alike that the world needed institutions to prevent another world war. And so, a quarter century after the United States Senate rejected the League of Nations -- an idea for which Woodrow Wilson received this prize -- America led the world in constructing an architecture to keep the peace : a Marshall Plan and a United Nations, mechanisms to govern the waging of war, treaties to protect human rights, prevent genocide, restrict the most dangerous weapons.

In many ways, these efforts succeeded. Yes, terrible wars have been fought, and atrocities committed. But there has been no Third World War. The Cold War ended with jubilant crowds dismantling a wall. Commerce has stitched much of the world together. Billions have been lifted from poverty. The ideals of liberty and self-determination, equality and the rule of law have haltingly advanced. We are the heirs of the fortitude and foresight of generations past, and it is a legacy for which my own country is rightfully proud.

And yet, a decade into a new century, this old architecture is buckling under the weight of new threats. The world may no longer shudder at the prospect of war between two nuclear superpowers, but proliferation may increase the risk of catastrophe. Terrorism has long been a tactic, but modern technology allows a few small men with outsized rage to murder innocents on a horrific scale.
Moreover, wars between nations have increasingly given way to wars within nations. The resurgence of ethnic or sectarian conflicts ; the growth of secessionist movements, insurgencies, and failed states -- all these things have increasingly trapped civilians in unending chaos.
In today’s wars, many more civilians are killed than soldiers ; the seeds of future conflict are sown, economies are wrecked, civil societies torn asunder, refugees amassed, children scarred.

I do not bring with me today a definitive solution to the problems of war. What I do know is that meeting these challenges will require the same vision, hard work, and persistence of those men and women who acted so boldly decades ago. And it will require us to think in new ways about the notions of just war and the imperatives of a just peace.

We must begin by acknowledging the hard truth : We will not eradicate violent conflict in our lifetimes. There will be times when nations -- acting individually or in concert -- will find the use of force not only necessary but morally justified.

I make this statement mindful of what Martin Luther King Jr. said in this same ceremony years ago : « Violence never brings permanent peace. It solves no social problem : it merely creates new and more complicated ones. » As someone who stands here as a direct consequence of Dr. King’s life work, I am living testimony to the moral force of non-violence. I know there’s nothing weak -- nothing passive -- nothing naïve -- in the creed and lives of Gandhi and King.

But as a head of state sworn to protect and defend my nation, I cannot be guided by their examples alone. I face the world as it is, and cannot stand idle in the face of threats to the American people. For make no mistake : Evil does exist in the world. A non-violent movement could not have halted Hitler’s armies. Negotiations cannot convince al Qaeda’s leaders to lay down their arms. To say that force may sometimes be necessary is not a call to cynicism -- it is a recognition of history ; the imperfections of man and the limits of reason.

I raise this point, I begin with this point because in many countries there is a deep ambivalence about military action today, no matter what the cause. And at times, this is joined by a reflexive suspicion of America, the world’s sole military superpower.
But the world must remember that it was not simply international institutions -- not just treaties and declarations -- that brought stability to a post-World War II world.

Whatever mistakes we have made, the plain fact is this : The United States of America has helped underwrite global security for more than six decades with the blood of our citizens and the strength of our arms. The service and sacrifice of our men and women in uniform has promoted peace and prosperity from Germany to Korea, and enabled democracy to take hold in places like the Balkans. We have borne this burden not because we seek to impose our will. We have done so out of enlightened self-interest -- because we seek a better future for our children and grandchildren, and we believe that their lives will be better if others’ children and grandchildren can live in freedom and prosperity.

So yes, the instruments of war do have a role to play in preserving the peace.
And yet this truth must coexist with another -- that no matter how justified, war promises human tragedy. The soldier’s courage and sacrifice is full of glory, expressing devotion to country, to cause, to comrades in arms. But war itself is never glorious, and we must never trumpet it as such.

So part of our challenge is reconciling these two seemingly inreconcilable truths -- that war is sometimes necessary, and war at some level is an expression of human folly.
Concretely, we must direct our effort to the task that President Kennedy called for long ago. « Let us focus, » he said, « on a more practical, more attainable peace, based not on a sudden revolution in human nature but on a gradual evolution in human institutions. » A gradual evolution of human institutions.
What might this evolution look like ? What might these practical steps be ?
To begin with, I believe that all nations -- strong and weak alike -- must adhere to standards that govern the use of force.

I -- like any head of state -- reserve the right to act unilaterally if necessary to defend my nation. Nevertheless, I am convinced that adhering to standards, international standards, strengthens those who do, and isolates and weakens those who don’t.
The world rallied around America after the 9/11 attacks, and continues to support our efforts in Afghanistan, because of the horror of those senseless attacks and the recognized principle of self-defense. Likewise, the world recognized the need to confront Saddam Hussein when he invaded Kuwait -- a consensus that sent a clear message to all about the cost of aggression.
Furthermore, America -- in fact, no nation -- can insist that others follow the rules of the road if we refuse to follow them ourselves. For when we don’t, our actions appear arbitrary and undercut the legitimacy of future interventions, no matter how justified.
And this becomes particularly important when the purpose of military action extends beyond self-defense or the defense of one nation against an aggressor. More and more, we all confront difficult questions about how to prevent the slaughter of civilians by their own government, or to stop a civil war whose violence and suffering can engulf an entire region.

I believe that force can be justified on humanitarian grounds, as it was in the Balkans, or in other places that have been scarred by war. Inaction tears at our conscience and can lead to more costly intervention later. That’s why all responsible nations must embrace the role that militaries with a clear mandate can play to keep the peace.

America’s commitment to global security will never waver.
But in a world in which threats are more diffuse, and missions more complex, America cannot act alone. America alone cannot secure the peace. This is true in Afghanistan. This is true in failed states like Somalia, where terrorism and piracy is joined by famine and human suffering. And sadly, it will continue to be true in unstable regions for years to come.
The leaders and soldiers of NATO countries, and other friends and allies, demonstrate this truth through the capacity and courage they’ve shown in Afghanistan. But in many countries, there is a disconnect between the efforts of those who serve and the ambivalence of the broader public.
I understand why war is not popular, but I also know this : The belief that peace is desirable is rarely enough to achieve it. Peace requires responsibility. Peace entails sacrifice. That’s why NATO continues to be indispensable. That’s why we must strengthen U.N. and regional peacekeeping, and not leave the task to a few countries. That’s why we honor those who return home from peacekeeping and training abroad to Oslo and Rome ; to Ottawa and Sydney ; to Dhaka and Kigali -- we honor them not as makers of war, but of wagers -- but as wagers of peace.
Let me make one final point about the use of force. Even as we make difficult decisions about going to war, we must also think clearly about how we fight it.
The Nobel Committee recognized this truth in awarding its first prize for peace to Henry Dunant -- the founder of the Red Cross, and a driving force behind the Geneva Conventions.

Where force is necessary, we have a moral and strategic interest in binding ourselves to certain rules of conduct. And even as we confront a vicious adversary that abides by no rules, I believe the United States of America must remain a standard bearer in the conduct of war. That is what makes us different from those whom we fight. That is a source of our strength. That is why I prohibited torture. That is why I ordered the prison at Guantanamo Bay closed. And that is why I have reaffirmed America’s commitment to abide by the Geneva Conventions. We lose ourselves when we compromise the very ideals that we fight to defend. (Applause.) And we honor -- we honor those ideals by upholding them not when it’s easy, but when it is hard.
I have spoken at some length to the question that must weigh on our minds and our hearts as we choose to wage war. But let me now turn to our effort to avoid such tragic choices, and speak of three ways that we can build a just and lasting peace.

First, in dealing with those nations that break rules and laws, I believe that we must develop alternatives to violence that are tough enough to actually change behavior -- for if we want a lasting peace, then the words of the international community must mean something. Those regimes that break the rules must be held accountable. Sanctions must exact a real price. Intransigence must be met with increased pressure -- and such pressure exists only when the world stands together as one.

One urgent example is the effort to prevent the spread of nuclear weapons, and to seek a world without them. In the middle of the last century, nations agreed to be bound by a treaty whose bargain is clear : All will have access to peaceful nuclear power ; those without nuclear weapons will forsake them ; and those with nuclear weapons will work towards disarmament. I am committed to upholding this treaty. It is a centerpiece of my foreign policy. And I’m working with President Medvedev to reduce America and Russia’s nuclear stockpiles.

But it is also incumbent upon all of us to insist that nations like Iran and North Korea do not game the system. Those who claim to respect international law cannot avert their eyes when those laws are flouted. Those who care for their own security cannot ignore the danger of an arms race in the Middle East or East Asia. Those who seek peace cannot stand idly by as nations arm themselves for nuclear war.

The same principle applies to those who violate international laws by brutalizing their own people. When there is genocide in Darfur, systematic rape in Congo, repression in Burma -- there must be consequences. Yes, there will be engagement ; yes, there will be diplomacy -- but there must be consequences when those things fail. And the closer we stand together, the less likely we will be faced with the choice between armed intervention and complicity in oppression.

This brings me to a second point -- the nature of the peace that we seek. For peace is not merely the absence of visible conflict. Only a just peace based on the inherent rights and dignity of every individual can truly be lasting.

It was this insight that drove drafters of the Universal Declaration of Human Rights after the Second World War. In the wake of devastation, they recognized that if human rights are not protected, peace is a hollow promise.

And yet too often, these words are ignored. For some countries, the failure to uphold human rights is excused by the false suggestion that these are somehow Western principles, foreign to local cultures or stages of a nation’s development. And within America, there has long been a tension between those who describe themselves as realists or idealists -- a tension that suggests a stark choice between the narrow pursuit of interests or an endless campaign to impose our values around the world.
I reject these choices. I believe that peace is unstable where citizens are denied the right to speak freely or worship as they please ; choose their own leaders or assemble without fear. Pent-up grievances fester, and the suppression of tribal and religious identity can lead to violence. We also know that the opposite is true. Only when Europe became free did it finally find peace. America has never fought a war against a democracy, and our closest friends are governments that protect the rights of their citizens. No matter how callously defined, neither America’s interests -- nor the world’s -- are served by the denial of human aspirations.

So even as we respect the unique culture and traditions of different countries, America will always be a voice for those aspirations that are universal. We will bear witness to the quiet dignity of reformers like Aung Sang Suu Kyi ; to the bravery of Zimbabweans who cast their ballots in the face of beatings ; to the hundreds of thousands who have marched silently through the streets of Iran. It is telling that the leaders of these governments fear the aspirations of their own people more than the power of any other nation. And it is the responsibility of all free people and free nations to make clear that these movements -- these movements of hope and history -- they have us on their side.

Let me also say this : The promotion of human rights cannot be about exhortation alone. At times, it must be coupled with painstaking diplomacy. I know that engagement with repressive regimes lacks the satisfying purity of indignation. But I also know that sanctions without outreach -- condemnation without discussion -- can carry forward only a crippling status quo. No repressive regime can move down a new path unless it has the choice of an open door.

In light of the Cultural Revolution’s horrors, Nixon’s meeting with Mao appeared inexcusable -- and yet it surely helped set China on a path where millions of its citizens have been lifted from poverty and connected to open societies. Pope John Paul’s engagement with Poland created space not just for the Catholic Church, but for labor leaders like Lech Walesa. Ronald Reagan’s efforts on arms control and embrace of perestroika not only improved relations with the Soviet Union, but empowered dissidents throughout Eastern Europe. There’s no simple formula here. But we must try as best we can to balance isolation and engagement, pressure and incentives, so that human rights and dignity are advanced over time.

Third, a just peace includes not only civil and political rights -- it must encompass economic security and opportunity. For true peace is not just freedom from fear, but freedom from want.

It is undoubtedly true that development rarely takes root without security ; it is also true that security does not exist where human beings do not have access to enough food, or clean water, or the medicine and shelter they need to survive. It does not exist where children can’t aspire to a decent education or a job that supports a family. The absence of hope can rot a society from within.

And that’s why helping farmers feed their own people -- or nations educate their children and care for the sick -- is not mere charity. It’s also why the world must come together to confront climate change. There is little scientific dispute that if we do nothing, we will face more drought, more famine, more mass displacement -- all of which will fuel more conflict for decades. For this reason, it is not merely scientists and environmental activists who call for swift and forceful action -- it’s military leaders in my own country and others who understand our common security hangs in the balance.

Agreements among nations. Strong institutions. Support for human rights. Investments in development. All these are vital ingredients in bringing about the evolution that President Kennedy spoke about. And yet, I do not believe that we will have the will, the determination, the staying power, to complete this work without something more -- and that’s the continued expansion of our moral imagination ; an insistence that there’s something irreducible that we all share.

As the world grows smaller, you might think it would be easier for human beings to recognize how similar we are ; to understand that we’re all basically seeking the same things ; that we all hope for the chance to live out our lives with some measure of happiness and fulfillment for ourselves and our families.

And yet somehow, given the dizzying pace of globalization, the cultural leveling of modernity, it perhaps comes as no surprise that people fear the loss of what they cherish in their particular identities -- their race, their tribe, and perhaps most powerfully their religion. In some places, this fear has led to conflict. At times, it even feels like we’re moving backwards. We see it in the Middle East, as the conflict between Arabs and Jews seems to harden. We see it in nations that are torn asunder by tribal lines.

And most dangerously, we see it in the way that religion is used to justify the murder of innocents by those who have distorted and defiled the great religion of Islam, and who attacked my country from Afghanistan. These extremists are not the first to kill in the name of God ; the cruelties of the Crusades are amply recorded. But they remind us that no Holy War can ever be a just war. For if you truly believe that you are carrying out divine will, then there is no need for restraint -- no need to spare the pregnant mother, or the medic, or the Red Cross worker, or even a person of one’s own faith. Such a warped view of religion is not just incompatible with the concept of peace, but I believe it’s incompatible with the very purpose of faith -- for the one rule that lies at the heart of every major religion is that we do unto others as we would have them do unto us.

Adhering to this law of love has always been the core struggle of human nature. For we are fallible. We make mistakes, and fall victim to the temptations of pride, and power, and sometimes evil. Even those of us with the best of intentions will at times fail to right the wrongs before us.

But we do not have to think that human nature is perfect for us to still believe that the human condition can be perfected. We do not have to live in an idealized world to still reach for those ideals that will make it a better place. The non-violence practiced by men like Gandhi and King may not have been practical or possible in every circumstance, but the love that they preached -- their fundamental faith in human progress -- that must always be the North Star that guides us on our journey.

For if we lose that faith -- if we dismiss it as silly or naïve ; if we divorce it from the decisions that we make on issues of war and peace -- then we lose what’s best about humanity. We lose our sense of possibility. We lose our moral compass.

Like generations have before us, we must reject that future. As Dr. King said at this occasion so many years ago, « I refuse to accept despair as the final response to the ambiguities of history. I refuse to accept the idea that the ‘isness’ of man’s present condition makes him morally incapable of reaching up for the eternal ‘oughtness’ that forever confronts him. »

Let us reach for the world that ought to be -- that spark of the divine that still stirs within each of our souls. (Applause.)
Somewhere today, in the here and now, in the world as it is, a soldier sees he’s outgunned, but stands firm to keep the peace. Somewhere today, in this world, a young protestor awaits the brutality of her government, but has the courage to march on. Somewhere today, a mother facing punishing poverty still takes the time to teach her child, scrapes together what few coins she has to send that child to school -- because she believes that a cruel world still has a place for that child’s dreams.
Let us live by their example.
We can acknowledge that oppression will always be with us, and still strive for justice. We can admit the intractability of depravation, and still strive for dignity. Clear-eyed, we can understand that there will be war, and still strive for peace. We can do that -- for that is the story of human progress ; that’s the hope of all the world ; and at this moment of challenge, that must be our work here on Earth.

Thank you very much.

Police bombing

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(...) la teoria odierna della guerra giusta mira proprio alla discriminazione dell'avversario in quanto artefice di una guerra ingiusta. La guerra stessa diviene un crimine nel senso penalistico del termine. L'aggressore viene definito criminale nel peggiore significato del termine, ed è posto outlaw come un pirata. Ma il torto dell'aggressione e dell'aggressore non risiede in una colpa materialmente e realmente determinabile come colpa di guerra nel senso di causa del conflitto, ma nel crime de l'attacque, nell'aggressione in quanto tale.

Chi spara il primo colpo o compie uno degli altri atti orrispondenti è l'autore di questo nuovo delitto. Il problema della justa causa rimane al di fuori di tale ambito di determinazione concettuale. Già è per questo motivo che la distinzione moderna tra guerra giusta e guerra ingiusta non ha una relazione interna con la dottrina scolastica medioevale e con Vitoria.

Quest'ultimo è a conoscenza, come lo è l'intera dottrina medioevale, di un bellum justum offensivum. Egli è altresì cosciente del carattere dubbio dell'intera dottrina, ed è sufficiente riflettere attentamente solo una volta sui cinque dubia circa bellum justum e sui nove dubia "quantum liceat in bello justo" presenti nella sua Relectio de jure belli per comprendere che il grande progresso del diritto internazionale interstatale europeo consiste nell'aver sostituito la dottrina della justa causa con quella dell'eguaglianza giuridica di entrambi gli justi hostes. Forse che oggi questa acquisizione deve essere semplicemente abbandonata? Non è così semplice, dopo un processo di razionalizzazione delle relazioni intestatali durato vari secoli, tornare a una dottrina prestatale.

(...)

Se oggi alcune formule relative alla dottrina della guerra giusta - dottrina che è radicata nell'ordo istituzionale della respublica christiana medioevale - vengono adoperate nel contesto di costruzioni concettuali moderne e globali, ciò indica un regresso, quanto la trasformazione fondamentale subita dai concetti di nemico, guerra, ordo concreto e giustizia, presupposti dalla dottrina medioevale.

Per i teologi scolastici anche la guerra ingiusta rimaneva pur sempre una guerra, e il fatto che una delle parti belligeranti conducesse una guerra giusta e l'altra una guerra ingiusta non eliminava il concetto stesso di guerra. D'altra parte è sempre implicita nella giustizia di una guerra, nella misura in cui quest'ultima si richiama alla justa causa, la tendenza latente a discriminare l'avversario ingiusto, e quindi l'eliminazione della guerra in quanto istituto giuridico.

La guerra diventa allora facilmente mera azione a carattere punitivo, la quale fa ben presto dimenticare i numerosi e seri dubia della dottrina del bellum justum. Il nemico diventa semplicemente un criminale e il passo successivo - vale a dire la privazione dell'avversario dei suoi diritti e la sua depredazione, ovvero la distruzione del concetto formale di nemico, che presupponeva ancora l'idea di uno justus hostis - si compie allora praticamente da sé.

"Princeps qui habet bellum justum fit judex hostuim" afferma Vitoria. E già in Cajetano si dice perfino: "Habens bellum justum gerit personam judicis criminaliter procedentis". Ma anche se si parla in questo modo del carattere punitivo della guerra giusta, non si deve vedere in ciò il segno di concezioni mdoerne della giustizia penale, o addirittura di odierne azioni di polizia criminale, magari nel senso del moderno diritto penale, che ormai altro non è che disinfestazione del socialmente nocivo.

In altre parole: la dottrina della guerra giusta nel senso della justa causa belli non aveva ancora prodotto il venire meno del concetto di guerra in generale e la trasformazione dell'azione bellica in semplice azione di giustizia o di polizia di tipo moderno. Ciò non era possibile, se non altro perchè all'epoca del diritto feudale di faidea e e del diritto cetuale di resistenza una giustizia o una polizia statale centralizzata nel senso odierno non esistevano.

(...) per Vitoria la guerra - come del resto per tutta la dottrina medioevale - nonostante il suo "carattere punitivo" la guerra resta ancora guerra per entrambe le parti. Nemmeno a una guerra giusta, condotta da principi cristiani contro principi e popoli non cristiani, Vitoria disconosce il carattere di vera guerra, nella quale l'avversario è considerato senza dubbio nella sostanza come justus hostis.

Nella concezione moderna e discriminante della guerra la distinzione tra giustizia e ingiustizia della guerra consiste invece poprio nel fatto che il nemico non è più considerato justus hostis, ma criminale. La guerra cessa pertanto di essere un concetto diritto internazionale benchè non cessino affatto in essa le uccisioni, le depredazioni e l'annientamento ma siano addirittura accresciuti da nuovi moderni mezzi d'annientamento.

(...) l'avversario non può più, dall'altra parte, essere justus hostis. Contro di lui non viene più condotta una guerra, e nemmeno una guerra come quella contro i pirati, i quali sono nemici in un senso del tutto diverso da quello degli avversari bellici del diritto internazionale europeo.

Egli ha perpetrato un crimine nel senso penalistico del termine: il crimine dell'attacco, le crime de l'attaque. L'azione contro di lui è di conseguenza tanto poco guerra quanto lo è l'azione della polizia statale contro un gangster: è semplice esecuzione e infine - in seguito alla moderna trasformazione del diritto penale in disinfestazione sociale - soltanto provvedimento contro un elemento nocivo o di distuirbo, contro un perturbateur, che può essere reso innocuo ricorrendo a tutti i mezzi della tecnica moderna, ad esempio mediante un police bombing. La guerra è così eliminata, ma solo perchè i nemici non si riconoscono più reciprocamente sul medesimo piano morale e giuridico.
da "Il nomos della terra" di Carl Schmitt

Schmitt e il positivismo

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Il moderno positivismo "dell'atto di posizione" fu la creazione di giuristi disillusi, il cui atteggiamento spirituale - dopo le delusioni politiche del 1848 - tradiva la completa sottomissione alle pretese egemoniche delle scienze naturali, alla pretesa di progresso dello sviluppo tecnico industriale e alla nuova pretesa di legittimità della rivoluzione. I giuristi non si erano accorti, nel quadro nichilistico del loro tempo, che gli atti di posizione finivano per diventare disgregazioni, e non avevano nemmeno notato - malgrado l'ammonimento di Savigny - fino a che punto il loro preteso positivismo legale li avrebbe condotti a porre in dubbio le loro stesse premesse storiche, intellettuali e professionali.

La legge si riduceva, di conseguenza, ad atto di posizione rivolto all' apparato statale che lo applica con "possibilità di costrizione all'obbedienza". "Legge" e "provvedimento" non si potevano più distinguere tra loro. Ogni comando pubblico o segreto, purchè esegito all'interno dell'apparato statale, poteva essere chiamato legge; la sua possibilità di costringere all' obbedienza non era minore, ed anzi era forse maggiore di quella delle statuizioni acclamate e proclamate dopo lunghi dibattiti del tutto pubblici.

Da una simile filosofia del diritto non venne alcun aiuto terminologico o concettuale al fine di tradurre adeguatamente il termine nomos.

(...)

La differenziazione tra atti costituenti e istituzioni costituite, l'opposizione di ordo ordinans e ordo ordinatus, pouvoir constituant e pouvoir constitué, è in sé universalmente riconosciuta e ricorrente. I giuristi di dirtto positivo, ovvero di diritto costituito e posto, si sono tuttavia in ogni epoca abituati a considerare soltanto l'ordinamento esistente e i processi all'interno di esso, cioè soltanto l'ambito di ciò che è già stabilmente ordinato e costituito, in particolare solo il sistema di una determinata legalità statale. Essi rifiutano volentieri, come non giuridica, la questione dei proessi di fondazione dell'ordinamento, ritenendo sensato ricondurre ogni legalità alla costituzione o alla volontà dello Stato inteso come persona.

Alla questione ulteriore della provenienza di questa costituzione e delle origini di questo stato, essi si limitano a rispondere che entrambe, la genesi di una costituzione e le origini di uno stato, sono meri dati di fatto.

Tutto ciò possiede, in tempi di non problematica sicurezza, un certo suo significato pratico, sopratutto se si pensa che la moderna legalità è in primo luogo il modo di funzionamento della burocrazia statale. Quest'ultima non si interessa del diritto della propria origine, ma solo della legge del proprio funzionamento.

Ma anche la dottrina dei processi costitutivi e delle forme in cui il potere costituente si manifesta fa parte della problematica giuridica. Vi sono infatti più tipi di diritto. Non vi è soltanto la legalità statale, ma anche il diritto pre-, extra- e inter- statale.

In particolare, per quanto riguarda il diritto internazionale, vi sono in ogni capitolo della storia esempi di imperi, paesi e popoli i quali sviluppano i più svariati ordinamenti della propria coesistenza, la cui componente più importante è sempre rappresentata dai princìpi e dai procedimenti di mutamento territoriale, tanto di dititto pubblico quanto di diritto privato.

da "Il nomos della terra" di Carl Schmitt

martedì 8 dicembre 2009

Dal cerchio al surf

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I due ragazzi americani che, contro ogni buon senso, stavano scaricando nel loro garage l' intero web si chiamavano Larry Page e Sergey Brin. Ai tempi avevano 23 anni. Facevano parte della prima generazione cresciuta tra i computer: gente che già alle elementari viveva con una mano sola perché l' altra era avvitata sul mouse.

In più venivano entrambi da famiglie di insegnanti o ricercatori informatici. In più studiavano nella Silicon Valley. In più avevano due cervelli micidiali (nel senso di uno a testa, si intende).

Adesso noi siamo colpiti dal fatto che poi, in cinque anni, i due siano riusciti a guadagnare qualcosa come 20 miliardi di dollari: ma è importante capire che, all' inizio, non erano i soldi quello che cercavano.

Quel che avevano in mente era un obbiettivo tanto candidamente folle quanto semplicemente filantropico: rendere accessibile tutto il sapere del mondo: accessibile a chiunque, in modo facile, veloce e gratuito. Il bello è che ci sono riusciti. La loro creatura, Google, è di fatto quel che di più simile all' invenzione della stampa ci sia stato dato di vivere. Quei due sono gli unici Gutenberg venuti dopo Gutenberg.

Non la sparo grossa: è importante che capiate che è vero, profondamente vero.

Oggi, usando Google, ci vuole una manciata di secondi e una decina di click perché un umano dotato di computer acceda a qualsiasi insenatura del sapere. Sapete quante volte gli abitanti del pianeta Terra faranno quell' operazione oggi, proprio oggi? Un miliardo di volte. Più o meno centomila ricerche al secondo. Avete in mente cosa significa?

Percepite l' immane senso di "liberi tutti", e sentite le urla apocalittiche dei sacerdoti che si vedono scavalcati e improvvisamente inutili?

Lo so, l' obbiezione è: quel che sta in rete, per quanto enorme sia la rete, non è il sapere. O almeno non è tutto il sapere. Per quanto derivata, spesso, da una certa incapacità a usare Google, è un' obbiezione sensata: ma non illudetevi troppo. Pensate che non sia stato lo stesso per la stampa e Gutenberg? Avete in mente le tonnellate di cultura orale, irrazionale, esoterica che nessun libro stampato ha mai potuto contenere? Ci pensate a tutto quello che è andato perso perché non entrava nei libri? O a tutto quello che ha dovuto semplificarsi e addirittura svilirsi per riuscire a diventare scrittura, e testo, e libro?

Eppure, non ci abbiamo pianto troppo sopra, e ci siamo assuefatti a questo principio: la stampa, come la rete, non è un innocente contenitore che ospita il sapere, ma una forma che modifica il sapere a propria immagine. E' un imbuto dove passano i liquidi, e tanti saluti, che so, a una palla da tennis, a una pesca o a un cappello. Che piaccia o no, è già successo con Gutenberg, risuccederà con Page e Brin.

Dico questo per spiegare che se qui parliamo di Google non stiamo parlando di una robetta curiosa o di una esperienza come un' altra, tipo il vino o il calcio.

Google non ha nemmeno dieci anni di vita, ed è già nel cuore della nostra civiltà: se tu lo spii non stai visitando un villaggio saccheggiato dai barbari: sei nel loro accampamento, nella loro capitale, nel palazzo imperiale. Mi spiego? è da ' ste parti che, se c' è un segreto, tu puoi trovarlo. Così diventa importante capire cosa, esattamente, fecero quei due che nessuno prima aveva immaginato.

La risposta giusta sarebbe: molte cose. Ma è una, in particolare, quella che, per questo libro, sembra rivelativa. Provo a spiegarla.

Per quanto possa sembrare strano, il vero problema, se vuoi inventare un motore di ricerca perfetto, non è tanto quello di dover scaricare un database di 13 miliardi di pagine web (tante sono, oggi). In fondo, se stipi migliaia di computer in un hangar e sei uno nato con Windows, ce la puoi fare serenamente. Il vero problema è un altro: una volta che hai isolato in mezzo a quell' oceano i tre milioni e passa di pagine web dove compare la parola lasagne, come fai a metterle in un qualsiasi ordine che faciliti la ricerca? è chiaro che se le sbatti lì, a caso, tutto il tuo lavoro è vano: sarebbe come far entrare un poveretto in una biblioteca in cui ci sono tre milioni di volumi (sulle lasagne) e poi dirgli: arrangiati un po' tu. Se non risolvi quel problema, il sapere rimane inaccessibile, e i motori di ricerca, inutili.

Quando Brin e Page iniziarono a cercare una soluzione, avevano chiaro in mente che gli altri, quelli che già ci stavano provando, erano lontani dall' averla trovata. In genere, lavoravano sulla base di un principio molto logico, anzi troppo logico, e, a pensarci adesso, tipicamente pre-barbaro, quindi antico.

In pratica si fidavano delle ripetizioni. Più volte compariva in una pagina la parola richiesta, più quella pagina saliva nelle prime posizioni. Concettualmente, è una soluzione che rinvia a un modo di pensare classico: il sapere è dove lo studio è più approfondito e articolato. Se uno ha scritto un saggio sulla lasagna, è probabile che il termine lasagna ricorra molte volte, e quindi è lì che il ricercatore viene spedito. Naturalmente, oltre ad essere obsoleto, il sistema faceva acqua da tutte le parti.

Un saggio scemo sulla lasagna, in quel modo, figurava molto prima di una semplice, ma utile, ricetta. Inoltre, come potevi difenderti dal sito personale del signor Mario Lasagna? Era un inferno. Ad Alta Vista (il motore di ricerca migliore, ai tempi) reagirono con una mossa che la dice lunga sul carattere conservatore di quelle prime soluzioni: pensarono di attivare degli editor che si studiassero i tre milioni di pagine sulle lasagne, e poi le mettessero in ordine di rilevanza. Anche un bambino avrebbe capito che non poteva funzionare. Però ci provarono, e per noi questo segna un' importante pietra miliare: è l' ultimo disperato tentativo di affidare all' intelligenza e alla cultura un giudizio sulla rilevanza dei luoghi del sapere. Da lì in poi, sarebbe stato tutto diverso. Da lì in poi, c' erano le terre dei barbari.

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Per essere precisi, era il 1996. Più giravano tra i motori di ricerca esistenti, più Page e Brin si convincevano che si poteva fare molto meglio. Una volta ne scoprirono uno che non trovava se stesso. Si chiamava Inktomi. Se digitavi Inktomi non aveva risposte!

Era urgente fare qualcosa. Come abbiamo detto il problema principale era la classificazione dei risultati: come dare un ordine gerarchico alle tonnellate di pagine che venivano fuori se facevi una ricerca. Quando andava bene, i motori di ricerca esistenti mettevano per prime le pagine in cui la parola cercata ricorreva più volte. Era sempre meglio che niente.

Per questo Page passava il suo tempo a vedere come se la cavava il migliore di quei motori di ricerca, AltaVista. E fu lì che incominciò a notare qualcosa che attirò la sua attenzione.

Erano parole o frasi sottolineate: se ci cliccavi sopra finivi direttamente in una pagina web. Si chiamavano links. Adesso noi li usiamo correntemente, ma ai tempi (dieci anni fa, pensa te), si stava giusto imparando a usarli. Tanto che AltaVista non sapeva nemmeno bene che farsene: li elencava, e si metteva il cuore in pace.

Per Page e Brin, invece, fu l' inizio di tutto. Furono tra i primi a intuire che i links non erano un utile optional della rete: erano il senso stesso della rete, il suo compimento definitivo. Senza links, Internet sarebbe rimasto un catalogo, nuovo nella forma, ma tradizionale nella sostanza. Coi links diventava qualcosa che avrebbe cambiato il modo di pensare. Uno le intuizioni le può anche avere, ma poi il problema è crederci. Page e Brin ci credettero.

Cercavano un sistema per valutare l' utilità delle pagine web di fronte a una determinata ricerca: lo trovarono in un principio apparentemente elementare: sono più rilevanti le pagine verso cui punta un maggior numero di links. Le pagine che sono più citate da altre pagine. Fate attenzione.

C' è un modo molto sbrigativo e inutile di capire questa intuizione: ed è allinearlo al principio commerciale per cui vale di più quello che vende di più. Di per sé è un principio ottuso, che conduce a un circolo vizioso: quel che vende di più avrà più visibilità e quindi venderà ancora di più. Ma in realtà Page e Brin non pensavano a quello. Avevano in mente tutt' altra cosa.

Erano cresciuti in famiglie di scienziati e studiosi, e avevano in mente il modello delle riviste scientifiche. Lì, potevi valutare il valore di una ricerca dal numero di citazioni che ne facevano altre ricerche. Non era una faccenda commerciale, era una faccenda logica: se alcuni risultati erano convincenti, erano usati da altri ricercatori, che dunque li citavano. Page e Brin erano convinti che si potessero considerare i links come delle citazioni di un saggio scientifico.

Per cui un sito era attendibile e utile nella misura in cui altri siti lo segnalavano. Detta così, ammetterete, suona già più sottile. Azzardata, ma sottile.

La loro intuizione divenne qualcosa di davvero dirompente quando si decisero a fare il passo dopo. Capirono che, a voler essere ancora più efficaci, si sarebbe dovuto tener conto del valore del sito da cui partiva il link. In pratica, e tornando al caso delle riviste scientifiche, se a citarti è Einstein è un conto, se a farlo è tuo cugino, è un altro. Come stabilire, nel mare magnum del web, chi era Einstein e chi tuo cugino? La risposta che diedero non faceva una piega: Einstein è il sito verso cui punta il maggior numero di links.

Dunque un link che parte da Yahoo! è più significativo di un link partito dal sito personale di Mario Rossi. Non perché Rossi sia un fesso o abbia un nome meno bello: ma perché ci sono migliaia di links che, da ogni parte, puntano a Yahoo!: verso Rossi, se va bene, ce ne sono un paio (la figlia, il circolo delle bocce).

Google nasce da lì. Dall' idea che le traiettorie suggerite da milioni di links avrebbero scavato i sentieri guida del sapere. Restava da trovare un algoritmo di mostruosa difficoltà per tenere a bada quel calcolo vertiginoso di links che si intrecciavano: ma a quello ci pensò Page, che aveva un cervello matematico.

Oggi, quando cercate "lasagne" su Google, quello che trovate è una lista infinita di cui leggerete solo le prime tre pagine: in quelle tre pagine ci sono i siti che vi servono, e Google li ha individuati incrociando molti tipi di valutazione: la ricetta è segreta, ma tutti sanno che l' ingrediente principale, e geniale, è dato da quella teoria dei links.

Questo non è un libro sui motori di ricerca, e quindi non mi importa capire se quei due avevano ragione o no. Quello che mi interessa è isolare il principio attorno a cui è stato costruito Google, perché credo che lì ci sia una specie di trailer della mutazione in atto. Ne do più brutalmente possibile una prima enunciazione imperfetta: il valore di un' informazione, nel web, è dato dal numero di siti che vi indirizzano verso di lei: e quindi dalla velocità con cui, chi la cerca, la troverà.

Prendetelo alla lettera: non significa che il testo più importante sulle lasagne è quello che è letto da più gente; non significa nemmeno che è quello fatto meglio. Significa che è quello a cui arrivate prima se state cercando qualcosa di esaustivo sulle lasagne.

Per spiegarsi bene, Page amava fare ai suoi investitori un esempio (per incastrarli, è ovvio). Provate a entrare nel web da una pagina qualunque, e da lì cercate la data di nascita di Dante, usando solo i links. Il primo sito in cui la troverete è, per il vostro tipo di ricerca, il migliore.

Capite bene: non è il fatto di farvi risparmiare tempo che lo rende migliore: è il fatto che tutti vi abbiano indirizzato lì. Perché in realtà quello che avete fatto non è altro che passeggiare là dentro e chiedere a chiunque incontravate dove potevate trovare la data di nascita di Dante. E loro vi hanno risposto: dandovi un loro giudizio di qualità.

Non vi indicavano una scorciatoia: vi indicavano il posto secondo loro migliore dove quella data ci sarebbe stata, e giusta. La velocità è generata dalla qualità, non il contrario. I proverbi, diceva Benjamin con una bella espressione, sono geroglifici di un racconto: la pagina web che trovate in testa ai risultati di Google è il geroglifico di tutto un viaggio, fatto di link in link, attraverso l' intera rete.

E adesso, molta attenzione. Quello che mi colpisce, di un simile modello, è che riformula radicalmente il concetto stesso di qualità. L' idea di cosa è importante e cosa no. Non che distrugga completamente il nostro vecchio modo di vedere le cose, ma certo lo travalica, per così dire.

Faccio due esempi. Primo: è un principio che proviene dal mondo delle scienze, per cui ha una certa considerazione per la cara vecchia idea che un' informazione sia corretta e importante nella misura in cui corrisponde alla verità: ma se l' unico sito in grado di dire la verità sulla frase di Materazzi fosse in sanscrito, Google con ogni probabilità non lo metterebbe tra i primi trenta: è probabile che vi segnalerebbe come sito migliore quello che dice la cosa più vicina alla verità in una lingua comprensibile alla maggior parte degli umani.

Che razza di criterio di qualità è questo che è disposto a barattare un pezzo di verità in cambio di una quota di comunicazione?

Secondo esempio. In genere noi ci fidiamo degli esperti: se nel loro complesso i critici letterari del mondo decidono che Proust è un grande, noi pensiamo che Proust è un grande. Ma se voi entrate in Google e digitate "capolavoro letterario", chi è, di preciso, che vi spingerà abbastanza velocemente a incocciare la Recherche? Dei critici letterari? Solo in parte, in minima parte: a spingervi fin lì saranno siti di cucina, meteo, informazione, turismo, fumetti, cinema, volontariato, automobili e, perché no, pornografia. Lo faranno direttamente o indirettamente, come sponde di un biliardo: voi siete la biglia, Proust è la buca.

E allora io mi chiedo: da che genere di sapienza deriva il giudizio che la rete ci dà, e che ci conduce a Proust? Ha un nome, una roba del genere? Ecco: quel che c' è da imparare, da Google, è quel nome. Io non saprei trovarlo, ma credo di intuire la mossa che nomina.

Un certa rivoluzione copernicana del sapere, per cui il valore di un' idea, di un' informazione, di un dato, è legata non principalmente alle sue caratteristiche intrinseche ma alla sua storia. E' come se dei cervelli avessero iniziato a pensare in altro modo: per essi un' idea non è un oggetto circoscritto, ma una traiettoria, una sequenza di passaggi, una composizione di materiali diversi. E' come se il Senso, che per secoli è stato legato un' ideale di permanenza, solida e compiuta, si fosse andato a cercare un habitat diverso, sciogliendosi in una forma che è piuttosto movimento, struttura lunga, viaggio.

Chiedersi cos' è una cosa, significa chiedersi che strada ha fatto fuori da se stessa. Lo so che l' ermeneutica novecentesca ha già prefigurato, in maniera molto sofisticata, un paesaggio del genere. Ma adesso che lo vedo diventato operativo in Google, nel gesto quotidiano di miliardi di persone, capisco forse per la prima volta quanto esso, preso sul serio, comporti una reale mutazione collettiva, non un semplice aggiustamento del sentire comune.

Quel che insegna Google è che c' è oggi una parte enorme di umani per la quale, ogni giorno, il sapere che conta è quello in grado di entrare in sequenza con tutti gli altri saperi. Non c' è quasi altro criterio di qualità, e perfino di verità, perché tutti se li ingoia quell' unico principio: la densità del Senso è dove il sapere passa, dove il sapere è in movimento: tutto il sapere, nulla escluso.

L' idea che capire e sapere significhino entrare in profondità in ciò che studiamo, fino raggiungerne l' essenza, è una bella idea che sta morendo: la sostituisce l' istintiva convinzione che l' essenza delle cose non sia un punto ma una traiettoria, non sia nascosta in profondità ma dispersa in superficie, non dimori dentro le cose, ma si snodi fuori da esse, dove realmente incominciano, cioè ovunque. In un paesaggio del genere, il gesto di conoscere dev' essere qualcosa di affine al solcare velocemente lo scibile umano, ricomponendo le traiettorie sparse che chiamiamo idee, o fatti, o persone.

Nel mondo della rete, a quel gesto hanno dato un nome preciso: surfing (coniato nel 1993, non prima, preso in prestito da quelli che cavalcano le onde su una tavola; di solito scopano molto).

La vedete la leggerezza del cervello che sta in bilico sulla schiuma delle onde? Navigare in rete, diciamo noi italiani. Mai nomi furono più precisi. Superficie al posto di profondità, viaggi al posto di immersioni, gioco al posto di sofferenza. Sapete da dove viene il nostro caro vecchio termine cercare? Porta nella pancia il termine greco kìrkos, cerchio: avevamo in mente quello che continua a girare in cerchio perché ha perso qualcosa, e lo vuole trovare.

Capo chino, sguardo su un fazzoletto di terra, tanta pazienza e un cerchio sotto i piedi che sprofonda a poco a poco. Che mutazione, ragazzi.


Da "I barbari" (pubblicato a puntate su La Repubblica), di Alessandro Baricco

venerdì 4 dicembre 2009

Dostoevskij e il paesaggio (paesaggio?)

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A Dostoevskij manca il paesaggio, manca il riposo. Il suo cosmo non è il mondo, ma solo l'uomo. Egli è sordo per la musica, cieco per la pittura, insensibile al paesaggio: egli paga la sua infinita, la sua incomparabile conoscenza degli uomini con una straordinaria indifferenza per la natura e per l'arte...

Il suo Dio vive unicamente nell'anima, non nelle cose; gli manca quel prezioso granello di panteismo che rende tanto benefiche, tanto liberatrici le opere tedesche e quelle elleniche. Le opere di D. si svolgono tutte in stanze mal arieggiate, in strade grige di fumo, in bettole torbide, v'è sempre una greve aria umana, troppo umana che non viene agitata e purificata dal vento dei cieli e dall'imperversare delle stagioni.

Si cerchi un po' di ricordare in quale stagione, in quale paesaggio si svolgono le sue grandi opere, Raskòl'nikov, l' Idiota, i Karamazov, l'Adolescente. E' d' estate, di primavera o d' autunno? Forse è stato detto, ma noi non lo sentiamo. Non lo sentiamo nè col respiro, nè col gusto, nè col tatto, noi non lo viviamo. Si svolgono tutte in qualche punto buio del cuore, illuminato a tratti dai lampi della comprensione...

da "Tre maestri: Balzac, Dickens, Dostoevskij" di Stefan Zweig

La forza della forza

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Per Silvio Berlusconi18 salvacondotti in 15 anni
di Giuseppe D'Avanzo (da "La Repubblica" del 23/11/2009)

Anche William Shakespeare può essere utile per comprendere come Berlusconi si difende da quell'umana, precaria "verità" che la magistratura ha il dovere di ordinare.
In Misura per misura - "commedia oscura" che racconta di giustizia, potere, autorità, morale, dignità umana - il Lord vicario Angelo incontra Isabella che lo implora di salvare suo fratello dalla pena di morte (scena IV, II atto).

Il Lord: "Egli non morrà, Isabella, se voi mi darete amore".

Isabella: "Io ti denunzierò Angelo, bada! Firma subito il perdono di mio fratello, o ch'io proclamerò a voce spiegata, davanti a tutti, che specie di uomo sei".

Il Lord: "E chi vuoi che ti creda, Isabella? Il mio nome (...) e il posto che occupo nello Stato avranno un peso maggiore di quello della tua accusa. Tutto quello che dirai avrà il sapore di calunnia (...) Dì pure in giro tutto quello che credi. La mia menzogna avrà più peso della tua verità".

Il modo con cui Silvio Berlusconi si difende dalla magistratura è in quelle poche parole: "La mia menzogna avrà più peso".

Per dirla con una formula di Massimo Nobili (L'immoralità necessaria, il Mulino), è "la forza del potere contro la verità".

Questo è il paradigma che da sempre il capo del governo oppone alla giustizia. Se si vuole averne un'idea concreta, è interessante riportare alla luce il frammento di una storia del 1994.

In quell'estate, le cose vanno così: Berlusconi ha vinto le sue prime elezioni, è sistemato a Palazzo Chigi. In un altro angolo d'Italia, a Sciacca (Agrigento), i carabinieri friggono nel caldo d'agosto dietro le tracce lasciate da Salvatore Di Ganci, mafioso di alto grado. Il mafioso se l'è svignata sotto il loro naso. In meno di un'ora, ha abbandonato la sua scrivania di direttore della Cassa Centrale di Risparmio per farsi latitante ed evitare l'arresto. Adesso i carabinieri lo cercano e confidano che i suoi amici al telefono, prima o poi, possano dare una mano con una parola imprudente. Hanno linee telefoniche sotto controllo. Tra gli altri, anche il numero di Massimo Maria Berruti. Bel tipo, questo Berruti, ormai da tre legislature parlamentare della Repubblica (Forza Italia, PdL).
Nel 1978, da capitano della Guardia di Finanza, controlla la Edilnord (azienda del Gruppo Fininvest, all'epoca Edilnord S. a. s. di Umberto Previti & C.). Interroga Silvio Berlusconi. Che, con faccia di cuoio, gli dice di ignorare chi fossero i soci della società: "Io sono un semplice consulente". Berruti beve la frottola. Chiude il controllo. Poco dopo, lascia il Corpo e, come avvocato, prende a curare gli interessi di alcune società della Fininvest. In quell'estate del 1994, Berruti è attivissimo come il suo telefono. L'uomo ha un problema: sa che i pubblici ministeri di Milano ronzano intorno ai militari del Nucleo tributario della Guardia di Finanza che, nel 1991, si sono messi in tasca 130 milioni di lire per chiudere gli occhi in una verifica fiscale alla Mondadori.

L'8 giugno Berruti incontra, a Palazzo Chigi, Berlusconi e, nelle settimane successive, cerca un "contatto" con l'ufficiale corrotto per dirgli di tenere la bocca chiusa sulla Mondadori, se dovesse essere interrogato dai pubblici ministeri.

La manovra non sfugge alla procura. Arresta il mediatore (un sottufficiale della Guardia di Finanza). Che racconta delle pressioni. Berruti sente che per lui le ore sono contate.

Sarà interrogato, forse arrestato. Ora è il 10 agosto 1994, sono le 10,29, e i carabinieri di Sciacca intercettano la conversazione di Berruti con Berlusconi. Il documento fonico, raccolto nell'indagine del mafioso Di Ganci, non potrà per legge essere utilizzato in un altro procedimento.

Tuttavia, ancora oggi, quel colloquio tra Berruti e il suo Capo rivela e custodisce l'intero catalogo degli argomenti che, in quindici anni, Berlusconi utilizzerà per difendersi dal suo passato, convinto che la menzogna del potere abbia, debba avere più peso della "verità". Per lui, convincere non è altro che ingannare, null'altro.

Dunque, esordisce Berruti (chiama da casa, sa o presume di essere ascoltato): "Sono Massimo, presidente... [I pubblici ministeri] Mi vogliono parlare. Sembra che qualcuno abbia detto che io sono andato a chiedere a qualcuno di non parlare delle cose Fininvest".

Tocca a Berlusconi spiegare che cosa l'uomo deve fare e dire ai pubblici ministeri: "Vabbé, lei dice, ma voi siete pazzi... Dice, io non ho niente da nascondere. Voi fate una cosa di questo genere su un cittadino della Repubblica, voi pigliate... e lei si mette a urlare: voi siete dei pazzi, delle belve feroci, lei non può mettermi in galera, questo è sequestro di persona, eccetera... [Dell'uomo che l'accusa, dirà]: pezzo di rincoglionito che capisce lucciole per lanterne... Poi faccia dichiarazioni ai giornalisti: non se ne può più di questi matti. Faccia dichiarazioni prima di entrare dentro. [Dica] Con tutto questo non si fa altro che andare contro l'interesse del Paese, perché il Paese ha bisogno di lavorare in fiducia, in tranquillità, bisogna ricostruirlo!.. Questi [magistrati] ... sono dei nemici pubblici".

Se si sbrogliano queste frasi - le più sinceramente bugiarde che Berlusconi abbia mai detto - si ritrova, denudato, il nucleo più autentico delle ragioni che l'Egoarca oppone a una magistratura che si ritrova tra le mani le concrete evidenze di un sistema economico costruito grazie alla corruzione e la frode.

Berlusconi non accetta di discutere le abitudini della sua bottega né di dimostrare che il dubbio dei pubblici ministeri sia infondato, un indizio senza certezza, un documento - in apparenza, opaco - a doppia lettura. Rifiuta alla radice la legittimità di chiedergli conto del suo comportamento. Non riconosce alcuna fondatezza e costituzionalità al lavoro della magistratura (accertare che cosa è accaduto, per responsabilità di chi). E' l'unica via di fuga che può liberarlo da contestazioni che non può affrontare.

Quegli uomini in toga sono dei "pazzi". Prima di sapere che cosa sanno o hanno raccolto o vogliono chiedere, bisogna subito urlargli contro; gridare allo scandalo, alla violenza; denunciarli come eversori che distruggono la "fiducia del Paese".

Sono "nemici pubblici" che bisogna allontanare e annichilire.

Pur di non rispondere di ciò che è stato, il capo del governo è disposto anche a sopportare il peggiore dei sospetti. Ancora oggi, nella ricerca di impunità, Berlusconi si muove lungo la via che, quindici anni fa, indica a Massimo Maria Berruti. Si tiene lontano dalle aule. Arringa al "pubblico" la sua innocenza e le cattive intenzioni di quei "matti" in toga nera. Invoca il maglio dell'informazione (che controlla) per intimidirli, umiliarli, screditarli e la manipolazione dei media (che influenza) per distruggere il passato, oscurare con la menzogna i fatti, lasciar deperire - nell'opinione pubblica - la memoria. E' "la forza del potere contro la verità", come dirlo meglio?

Berlusconi rivendica il suo potere per eliminare ogni accusa, ogni prova, ogni testimonianza e, insieme, degradare a funzione sottordinata ogni altro potere dello Stato che possa obbligarlo a fare i conti con la "verità".

La manovra è addirittura trasparente. "Se [Silvio] non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi [di Mediaset] oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l'accusa di mafia", confessa Fedele Confalonieri (Repubblica, 25 giugno 2000).

Berlusconi, quell'arma impropria del potere politico, l'ha agitata senza risparmio. Delle diciotto leggi ad personam che si è scritto, otto proteggono e rafforzano i suoi affari, dieci lo tutelano dalla legge.

Si è riscritto le regole del processo (i tempi della prescrizione), dei codici, della procedura (il divieto di appello del pubblico ministero per le sentenze di proscioglimento).

Ha legiferato per abolire reati (il falso in bilancio), rimuovere i giudici (legittimo sospetto), annullare fonti di prova (le rogatorie).

Infine, per rendersi immune (le leggi "Schifani" e "Alfano").

All'inizio, ha travestito il suo conflitto di interessi con pose umili: "Il presidente del Consiglio, che è un primus inter pares e coordina l'attività degli altri ministri, ha l'obbligo morale di astenersi quando sono sul tappeto decisioni che potrebbero riguardare anche i suoi interessi" (Corriere, 20 settembre 2000).

Oggi, dopo la bocciatura della "legge Alfano", anche questa maschera è caduta e il capo del governo rivendica di essere "primus super pares". Se ne deve dedurre che "la legge è uguale per tutti, ma non sempre lo è la sua applicazione", in particolar modo per il capo del governo, "investito del suo ruolo dalla sovranità popolare" (Nicolò Ghedini alla Corte Costituzionale, 6 ottobre 2009).

E' la pretesa di un'indivisibilità della sovranità che eclissa ogni divisione dei poteri istituzionali. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole perché è "un'esperienza eterna" che chi ha il potere, se non trova un limite, ne abuserà.

Come il Lord vicario di Shakespeare, 1604. Stupefacente è che questo avvenga nel 2009, nell'Occidente liberale, in Italia.

Dove con la leggenda di un "accanimento giudiziario" (16 processi non 106, come dice il capo del governo), anche soi disantes liberali possono sostenere che il rispetto delle regole sia più nefasto della loro violazione o, in alternativa, che per salvare la Repubblica bisogna immunizzare un solo cittadino del Paese.

Con l'esito - è questo che ci attende, se Berlusconi la spunterà - di depenalizzare addirittura il reato di corruzione in una scena pubblica dove è abolita ogni distinzione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario con la creazione di uno "stato d'eccezione" che annulla e contraddice ogni aspetto normativo del diritto, anche quello fondamentale di essere eguali davanti alla legge.

E' un paradigma di governo che invoca, in nome della sovranità, "pieni poteri" (plein pouvoirs). Come se potessimo trascurare, anche soltanto per un attimo, che l'esercizio sistematico dell'eccezione conduce necessariamente alla liquidazione della democrazia.