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.I LIBRI DEGLI ALTRIda "La Repubblica" del 29/11/2009 - Di Dario Olivero
La storia è vecchia quanto quella dell' editoria: presunti scrittori convinti del proprio talento che sommergono di manoscritti i "colleghi" già affermati pregandoli di un parere, un consiglio, una raccomandazione. È successo anche a Edmondo De Amicis. L' autore di Cuore scrisse questo articolo - qui riportato in parte - il 26 agosto del 1906 su L' Illustrazione Italiana, periodico fondato a Milano dalla casa editrice Treves nel 1873 e che ospitò firme come Pascoli, Carducci, Fogazzaro, D' Annunzio, Gozzano, Serao e Deledda.
Uomo imbevuto di ideali risorgimentali e sempre attento alle piccole storie dei piccoli italiani, capaci però di passioni ed eroismo, De Amicis in queste pagine perde la pazienza. Lascia i toni seri e si abbandona alla satira descrivendo la galleria di personaggi che irrompe a casa sua per sottoporgli il frutto delle proprie fatiche letterarie privandolo di tempo prezioso e privacy. Inoltre, in quanto difensore della lingua italiana e del "bello scrivere" non solo come presupposto culturale ma anche come caposaldo civile, i suoi giudizi sui componimenti che si trova a vagliare non possono che essere impietosi. Il problema, come accade ancora oggi, è trovare le parole per dirlo all' interessato che, come chiosa De Amicis citando Leopardi, è preda del «piacere quasi sovrumano e di paradiso che prova visibilmente ognuno a leggere le cose proprie».
Perché mai riescono quasi sempre una molestia ineffabile tali letture? Non parlo delle letture degli amici, benché il Leopardi includa anche queste nella condanna; ma di quelle degli sconosciuti che vanno a chiedere a uno scrittore, qualunque sia, un giudizio sul proprio lavoro.
La prima ragione è che al giudice prescelto essi fanno una violenza, perché lo costringono o a dar loro un giudizio sgradito, che è anche per lui cosa sgradevole, o una lode non sincera, che gli spiace ugualmente di dare; e perché, anche quando può lodare sinceramente, egli ha sempre coscienza di pronunziare un giudizio sommario, che è soltanto l' espressione di una prima impressione, in molti casi erronea; e quest' obbligo di lodar lì per lì, senza il tempo di ponderare neppure le parole, lo infastidisce.
Un' altra ragione è che o il lettore è timido e impacciato,e quindi, leggendo alla diavola, fa parer brutta anche una cosa bella; o è ardito e franco, o il modo come legge prende facilmente un colore di petulanza, che lo rende uggioso.
E poi se l' uditore ascolta con attenzione, per dare un giudizio coscienzioso, deve fare uno sforzo, che lo stanca, e se non ascolta, deve almeno fingere, e quella finzione obbligatoria lo secca e lo irrita.
Ed è anche irritante per lui il contrasto ch' egli sente fra la fatica passiva e molesta a cui è costretto e il piacere quasi sovrumano e di paradiso che, come dice il Leopardi, prova visibilmente ognuno a leggere le cose proprie; il quale è un misto dei piaceri diversi che danno l' oratoria, la recitazione e l' esercizio della prepotenza sulla volontà del prossimo.
E, infine, la principale causa di molestia è nell' incertezza ansiosa, in cui si trova l' uditore, di quanto durerà il trattenimento, perché questi lettori hanno cento industrie maliziose per dissimulare la lunghezza del loro portato intellettuale: o stendendolo in caratteri minutissimi su fogli piccoli e sottili, o dividendolo in vari fascicoletti che cavano di tasca l' uno dopo l' altro, o presentandolo in un rotolo, di cui le prime pagine soltanto, che mettono sul tavolino, sono scritte da una parte sola, e tutte le altre da due, e con righe sempre più fitte.
Ma i colpi più dolorosi si ricevono quando, vedendo nelle mani del lettore, alla fine del manoscritto, il chiaro della carta, sentite dentro di voi le stesse parole che proferì con un sospiro di consolazione ai suoi compagni di sventura, Diogene Cinico: Vedo terra! Ma no, è stata un' illusione: il lettore v' imbarca per una nuova crociera.
E quanti altri fini accorgimenti hanno anche quelli che paiono più semplici!
Vanno a leggere un lavoro teatrale a uno che per il teatro non ha mai fatto neanche un abbozzo di scena, liriche di stil novo a chi non ha mai scritto un verso, progetti di riforma sociale a un poeta idillico, un romanzo a un latinista.
Alcuni si presentano con corti pretesti che non lasciano sospettare neppure alla lontana lo scopo vero della visita, e tirano poi fuori il manoscritto di colpo, come una pistola, nel momento in cui offrite il petto indifeso. È incredibile come lo sanno nascondere sottoi panni, in modo che non lasci nessun tipo di protuberanza traditrice; è meraviglioso veder sbucare da sotto a giacche che non fanno un gonfio né una grinza, certi scartafacci mostruosi, che paiono il manoscritto di un' enciclopedia.
Molte astuzie, ma anche molte ingenuità. Uno stupore in tutti, se tarda il consenso al sacrificio, che non siate subito disposti con gran piacere a piantare lì le vostre faccende, per dedicare un paio d' ore al non sperato divertimento che v' offrono. Nessun dubbio in loro, durante la lettura, che il vostro diletto non sia continuo ed acuto.
Non l' ombra d' un sospetto, quasi mai, che la nostra attenzione sia finta, che al vostro sguardo, fuggente dalla finestra per il cielo o sui tetti, vada dietro anche il pensiero.
E poi quella insistenza solita perché si sentenzi, udito il lavoro, e chi lo fece abbia o no le facoltà se debba mettere o seguitare per quella via.
E chi può giudicare in altri, sopra un breve saggio, quelle facoltà medesime che, dopo trent' anni di esperienza, non si conoscono ancora che imperfettamente in noi stessi?
E chi s' arrischia a dire: Questa non è la vostra strada, se non c' è vecchio scrittore che non dubiti ancora dodici volte l' anno d' aver sbagliato mestiere?
E nessuna diffidenza mai della sincerità della lode, accolta sempre col viso raggiante, come il vaticinio infallibile d' un avvenire glorioso... Ma di questa credulità, poveri noi! chi ha diritto di ridere?
E anche per ciò che riguarda il vizio, chi potrebbe mai scagliare contro i lettori di manoscritti la prima pietra? Ci possiamo vantare tutt' al più di non appartenere alla categoria dei più indiscreti, o d' avere perso il vizio con il pelo, o un po' avanti; ma anche a vantarsi di questo, se si vuole essere sinceri, è prudenza andare adagio.
Uno dei più imbarazzanti è il lettore minaccioso. Immaginate l' impressione che vi farebbe apparizione d' un giovane tarchiato e barbuto, che al primo impatto dimostrasse un temperamento impetuoso attraverso due grandi occhi sporgenti e roteanti, ed esordisse dicendovi: Lei mi ' deve' sentire!
Anche voi gli avreste risposto: Con grandissimo piacere! e vi sareste affrettati a farlo sedere perché non usasse la seggiola per altri scopi. Era un meridionale, impiegato di non so che amministrazione.
Aveva scritto un dramma, e lo leggeva con voce di basso, fremendo, e dopo ogni scena mi fissava gli occhi negli occhi e mi domandava: Il suo giudizio, Signore? con un tono che m' impensieriva; tanto più perché, leggendo o rispondendo alle mie modeste osservazioni, abbrancava ora l' uno ora l' altro degli oggetti che erano sulla scrivania: calcafogli, tagliacarte, scatole, volumi e gesticolava con quelli in mano, come per tirarmeli addosso.
Parendogli fredda la lode, mi gridò due o tre volte: Ma si persuada che qui (o si batteva il pugno sulla fronte con gran forza) c' è qualche cosa! Interrompeva, poi, a un tratto la lettura per vociare: Badi al pensiero, non alla forma! Al pensiero Al pensiero! Al pen-siero!
Via via che proseguiva, s' eccitava sempre più e, naturalmente, io rincaravo la dose degli elogi, tenendo sempre d' occhio gli oggetti che maneggiava.
Non vedevo l' ora della liberazione. Appena ebbe finito, mi richiese con fierezza: Insomma (e si diede un pugno sulla fronte) ce n' è o non ce n' è?
Figuratevi se non risposi subito: Ma ce n' è! e soggiunsi che ce n' era anche più di quanto egli potesse credere. Respirai quando fu fuori dell' uscio. Me lo ricorderò sempre con un vago senso di terrore. Fu l' unico dei tanti, per altro, che m' abbia estorta la lode a mano armata.
© 2009 Robin Edizioni - EDMONDO DE AMICIS