lunedì 30 novembre 2009

Piacere paradisiaco

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I LIBRI DEGLI ALTRI
da "La Repubblica" del 29/11/2009 - Di Dario Olivero

La storia è vecchia quanto quella dell' editoria: presunti scrittori convinti del proprio talento che sommergono di manoscritti i "colleghi" già affermati pregandoli di un parere, un consiglio, una raccomandazione. È successo anche a Edmondo De Amicis. L' autore di Cuore scrisse questo articolo - qui riportato in parte - il 26 agosto del 1906 su L' Illustrazione Italiana, periodico fondato a Milano dalla casa editrice Treves nel 1873 e che ospitò firme come Pascoli, Carducci, Fogazzaro, D' Annunzio, Gozzano, Serao e Deledda.

Uomo imbevuto di ideali risorgimentali e sempre attento alle piccole storie dei piccoli italiani, capaci però di passioni ed eroismo, De Amicis in queste pagine perde la pazienza. Lascia i toni seri e si abbandona alla satira descrivendo la galleria di personaggi che irrompe a casa sua per sottoporgli il frutto delle proprie fatiche letterarie privandolo di tempo prezioso e privacy. Inoltre, in quanto difensore della lingua italiana e del "bello scrivere" non solo come presupposto culturale ma anche come caposaldo civile, i suoi giudizi sui componimenti che si trova a vagliare non possono che essere impietosi. Il problema, come accade ancora oggi, è trovare le parole per dirlo all' interessato che, come chiosa De Amicis citando Leopardi, è preda del «piacere quasi sovrumano e di paradiso che prova visibilmente ognuno a leggere le cose proprie».

Perché mai riescono quasi sempre una molestia ineffabile tali letture? Non parlo delle letture degli amici, benché il Leopardi includa anche queste nella condanna; ma di quelle degli sconosciuti che vanno a chiedere a uno scrittore, qualunque sia, un giudizio sul proprio lavoro.

La prima ragione è che al giudice prescelto essi fanno una violenza, perché lo costringono o a dar loro un giudizio sgradito, che è anche per lui cosa sgradevole, o una lode non sincera, che gli spiace ugualmente di dare; e perché, anche quando può lodare sinceramente, egli ha sempre coscienza di pronunziare un giudizio sommario, che è soltanto l' espressione di una prima impressione, in molti casi erronea; e quest' obbligo di lodar lì per lì, senza il tempo di ponderare neppure le parole, lo infastidisce.

Un' altra ragione è che o il lettore è timido e impacciato,e quindi, leggendo alla diavola, fa parer brutta anche una cosa bella; o è ardito e franco, o il modo come legge prende facilmente un colore di petulanza, che lo rende uggioso.

E poi se l' uditore ascolta con attenzione, per dare un giudizio coscienzioso, deve fare uno sforzo, che lo stanca, e se non ascolta, deve almeno fingere, e quella finzione obbligatoria lo secca e lo irrita.

Ed è anche irritante per lui il contrasto ch' egli sente fra la fatica passiva e molesta a cui è costretto e il piacere quasi sovrumano e di paradiso che, come dice il Leopardi, prova visibilmente ognuno a leggere le cose proprie; il quale è un misto dei piaceri diversi che danno l' oratoria, la recitazione e l' esercizio della prepotenza sulla volontà del prossimo.

E, infine, la principale causa di molestia è nell' incertezza ansiosa, in cui si trova l' uditore, di quanto durerà il trattenimento, perché questi lettori hanno cento industrie maliziose per dissimulare la lunghezza del loro portato intellettuale: o stendendolo in caratteri minutissimi su fogli piccoli e sottili, o dividendolo in vari fascicoletti che cavano di tasca l' uno dopo l' altro, o presentandolo in un rotolo, di cui le prime pagine soltanto, che mettono sul tavolino, sono scritte da una parte sola, e tutte le altre da due, e con righe sempre più fitte.

Ma i colpi più dolorosi si ricevono quando, vedendo nelle mani del lettore, alla fine del manoscritto, il chiaro della carta, sentite dentro di voi le stesse parole che proferì con un sospiro di consolazione ai suoi compagni di sventura, Diogene Cinico: Vedo terra! Ma no, è stata un' illusione: il lettore v' imbarca per una nuova crociera.

E quanti altri fini accorgimenti hanno anche quelli che paiono più semplici!

Vanno a leggere un lavoro teatrale a uno che per il teatro non ha mai fatto neanche un abbozzo di scena, liriche di stil novo a chi non ha mai scritto un verso, progetti di riforma sociale a un poeta idillico, un romanzo a un latinista.

Alcuni si presentano con corti pretesti che non lasciano sospettare neppure alla lontana lo scopo vero della visita, e tirano poi fuori il manoscritto di colpo, come una pistola, nel momento in cui offrite il petto indifeso. È incredibile come lo sanno nascondere sottoi panni, in modo che non lasci nessun tipo di protuberanza traditrice; è meraviglioso veder sbucare da sotto a giacche che non fanno un gonfio né una grinza, certi scartafacci mostruosi, che paiono il manoscritto di un' enciclopedia.

Molte astuzie, ma anche molte ingenuità. Uno stupore in tutti, se tarda il consenso al sacrificio, che non siate subito disposti con gran piacere a piantare lì le vostre faccende, per dedicare un paio d' ore al non sperato divertimento che v' offrono. Nessun dubbio in loro, durante la lettura, che il vostro diletto non sia continuo ed acuto.

Non l' ombra d' un sospetto, quasi mai, che la nostra attenzione sia finta, che al vostro sguardo, fuggente dalla finestra per il cielo o sui tetti, vada dietro anche il pensiero.

E poi quella insistenza solita perché si sentenzi, udito il lavoro, e chi lo fece abbia o no le facoltà se debba mettere o seguitare per quella via.

E chi può giudicare in altri, sopra un breve saggio, quelle facoltà medesime che, dopo trent' anni di esperienza, non si conoscono ancora che imperfettamente in noi stessi?

E chi s' arrischia a dire: Questa non è la vostra strada, se non c' è vecchio scrittore che non dubiti ancora dodici volte l' anno d' aver sbagliato mestiere?

E nessuna diffidenza mai della sincerità della lode, accolta sempre col viso raggiante, come il vaticinio infallibile d' un avvenire glorioso... Ma di questa credulità, poveri noi! chi ha diritto di ridere?

E anche per ciò che riguarda il vizio, chi potrebbe mai scagliare contro i lettori di manoscritti la prima pietra? Ci possiamo vantare tutt' al più di non appartenere alla categoria dei più indiscreti, o d' avere perso il vizio con il pelo, o un po' avanti; ma anche a vantarsi di questo, se si vuole essere sinceri, è prudenza andare adagio.

Uno dei più imbarazzanti è il lettore minaccioso. Immaginate l' impressione che vi farebbe apparizione d' un giovane tarchiato e barbuto, che al primo impatto dimostrasse un temperamento impetuoso attraverso due grandi occhi sporgenti e roteanti, ed esordisse dicendovi: Lei mi ' deve' sentire!

Anche voi gli avreste risposto: Con grandissimo piacere! e vi sareste affrettati a farlo sedere perché non usasse la seggiola per altri scopi. Era un meridionale, impiegato di non so che amministrazione.

Aveva scritto un dramma, e lo leggeva con voce di basso, fremendo, e dopo ogni scena mi fissava gli occhi negli occhi e mi domandava: Il suo giudizio, Signore? con un tono che m' impensieriva; tanto più perché, leggendo o rispondendo alle mie modeste osservazioni, abbrancava ora l' uno ora l' altro degli oggetti che erano sulla scrivania: calcafogli, tagliacarte, scatole, volumi e gesticolava con quelli in mano, come per tirarmeli addosso.

Parendogli fredda la lode, mi gridò due o tre volte: Ma si persuada che qui (o si batteva il pugno sulla fronte con gran forza) c' è qualche cosa! Interrompeva, poi, a un tratto la lettura per vociare: Badi al pensiero, non alla forma! Al pensiero Al pensiero! Al pen-siero!

Via via che proseguiva, s' eccitava sempre più e, naturalmente, io rincaravo la dose degli elogi, tenendo sempre d' occhio gli oggetti che maneggiava.

Non vedevo l' ora della liberazione. Appena ebbe finito, mi richiese con fierezza: Insomma (e si diede un pugno sulla fronte) ce n' è o non ce n' è?

Figuratevi se non risposi subito: Ma ce n' è! e soggiunsi che ce n' era anche più di quanto egli potesse credere. Respirai quando fu fuori dell' uscio. Me lo ricorderò sempre con un vago senso di terrore. Fu l' unico dei tanti, per altro, che m' abbia estorta la lode a mano armata.

© 2009 Robin Edizioni - EDMONDO DE AMICIS

sabato 28 novembre 2009

Restituisco il biglietto

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"Ascoltami: ho preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l' ambito della mia discussione.

Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero diventati infelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro.

La mia povera mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza c'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente, semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo!

Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma qui sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi.

Ho creduto e voglio vedere con i miei occhi, e se per quel giorno sarò già morto, che mi resuscitino, giacché se tutto accadesse senza di me, sarebbe troppo ingiusto.

Certo non ho sofferto unicamente per concimare con me stesso, con le mie malefatte e le mie sofferenze, l'armonia futura di qualcun altro. Io voglio vedere con i miei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si alza ad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'un tratto si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religioni di questo mondo si basano su questa aspirazione, e io sono un credente. Ma ci sono i bambini: che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non so dare risposta.

Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini?

Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le sofferenze.

Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l'armonia futura di qualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco.

Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato, ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di otto anni.

Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimento universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderà in un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto, griderà: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!"

Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!": allora si sarà raggiunto il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui: è proprio questo che non posso accettare. E fintanto che mi trovo sulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti.

Vedi, Alëša, potrebbe accadere davvero che se vivessi fino a quel giorno o se risorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzino di suo figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli altri: "Tu sei giusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare allora.

Finché c'è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stambugio, piangendo lacrime irriscattate al suo "buon Dio"!

Non vale, perché quelle lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere riscattate, altrimenti non ci può essere armonia.

Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può riparare l'inferno in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci se c'è l'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all'acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. Non voglio insomma che la madre abbracci l'aguzzino che ha fatto dilaniare il figlio dai cani! Non deve osare perdonarlo!

Che perdoni a nome suo, se vuole, che perdoni l'aguzzino per l'incommensurabile sofferenza inflitta al suo cuore di madre; ma le sofferenze del suo piccino dilaniato ella non ha il diritto di perdonarle, ella non deve osare di perdonare quell'aguzzino per quelle sofferenze, neanche se il bambino stesso gliele avesse perdonate!

E se le cose stanno così, se essi non oseranno perdonare, dove va a finire l'armonia? C'è forse un essere in tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il diritto di perdonare? Non voglio l'armonia, è per amore dell'umanità che non la voglio. Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate. Preferisco rimanere con le mie sofferenze non vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta, anche se non dovessi avere ragione. Hanno fissato un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto".

"Questa è ribellione", disse Alëša sommessamente e a capo chino.

"Ribellione? Non avrei voluto sentire una parola simile da te", replicò Ivan con ardore. "È impossibile vivere nella ribellione, mentre io voglio vivere. Dimmelo tu, ti sfido, rispondimi: immagina che tocchi a te innalzare l'edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si batteva il petto con il pugno, immagina che l'edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di quella bambina - accetteresti di essere l'architetto a queste condizioni? Su, dimmelo e non mentire! "

"No, non accetterei", disse Alëša sommessamente.

"E potresti accettare l'idea che gli uomini, per i quali stai innalzando l'edificio, acconsentano essi stessi a ricevere una tale felicità sulla base del sangue irriscattato di una piccola vittima e, una volta accettato questo, vivano felici per sempre?"

"No, non posso accettare questa idea. Fratello", prese a dire Alëša all'improvviso con gli occhi che brillavano, "hai appena detto: c'è in tutto il mondo un essere che possa e abbia il diritto di perdonare tutto? Ma quell'essere esiste, e può perdonare tutto, tutto, qualunque peccato si sia commesso, perché egli stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto. Ti sei dimenticato di lui, su di lui si fonda l'edificio ed è a lui che grideranno: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!""

"Ah, parli dell' "Unico senza peccato" e del sangue suo! No, non l'ho dimenticato, anzi mi meravigliavo che in tutto questo tempo non lo avessi ancora tirato in ballo, visto che, di solito, in tutte le discussioni, quelli dalla vostra parte mettono sempre lui davanti a tutto. (...)"
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da "I fratelli Karamazov" di Fëdor Michajlovic Dostoevskij

venerdì 27 novembre 2009

Ohi!!!

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Il ministro che vuole abolire la pausa pranzo
di Filippo Ceccarelli - da La Repubblica del 24/11/2009
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E' quando entra a piedi giunti nella vita quotidiana che il potere mostra il massimo straniamento e la rumorosa inutilità di certe sue mezze proposte.

Così il ministro Rotondi ha posto la questione della pausa pranzo. O meglio: la mattina se n' è uscito contro questo dannoso rito che «blocca l' Italia»; quindi il pomeriggio ha ingegnosamente precisato il messaggio ridimensionandone l' effetto; per poi concludere in serata, ormai pago di aver animato il discorso pubblico, auspicando «una lunga riflessione nel mondo del lavoro».

Quanto lunga non ha specificato. Però essendo la memoria selettiva, è assai probabile che lunedì prossimo la preziosa riflessione auspicata dal ministro per l' Attuazione del programma non avrà incendiato Palazzo Chigi, né Montecitorio e tanto meno Palazzo Madama, dove la pausa pranzo è specialmente osservata anche per via del fastoso ristorante, e anzi sacralizzata da un carosello di banchetti che onorando le scadenza di un ghiotto calendario offrono ai senatori le delizie gastronomiche delle varie regioni d' Italia.

Era un po' che Rotondi non faceva titolo, e anche per questo a scriverne oggi ci si sente un po' in colpa.

Ma siccome nell' articolare la sua «provocazione» - parola dentro cui si annidano le più feroci disponibilità dell' odierno ceto politico - il ministro attuatore ha ritenuto di limitarne la portata riducendola a un «semplice consiglio dietetico», varrà la pena di ricordare qualche bislacco precedente in proposito.

E allora la palma del potere che s' intromette nella vita di tutti i giorni, per lo più a vuoto e con effetti certamente buffi, va senz' altro alla campagna dell' indimenticato ministro della Salute, Sirchia, che a suo tempo propugnò con ardore la mezza porzione. A casa e ancor più al ristorante, per combattere l' obesità. E pareva di tornare a certe atmosfere del neo-realismo, ai mesti codici dell' austerità del secondo dopoguerra, al pallido professorino Dossetti sconfitto a Bologna dalla rubiconda energia del sindaco comunista Dozza.

Così come, sempre in argomento consono alla pausa pranzo e alla mezza porzione, ma alla rovescia, sarebbe ingeneroso dimenticare gli autorevoli consigli anti-dietetici («Non ha senso smaltire i tre o cinque chili su pancia e fianchi, meglio mutare abitudini alimentari») puntualmente dispensati alla pubblica opinione dalla sottosegretaria Martini sotto le feste del 2009. Passate le quali, non sai bene con quanti rotoli di ciccia, la bionda sottosegretaria della Lega ha allargato senz' altro gli orizzonti della sua tutela, tanto che l' altro giorno compariva come una diva nell' immagine istituzionale e promozionale della Fieracavalli di Verona, quasi abbracciata a un bel baio.

Anche l' allora ministro della Salute Livia Turco, d' altra parte, voleva istituire una «task-force» - altro termine che di solito cela crudelissime esaltazioni - contro junk-food, contro l' alcol e perfino contro l' innocente, ma vilipesa «sedentarietà». E anche qui si avvertiva un vago sentore di ginnastiche coatte, esercizi fisici, salti nel cerchio e prodezze varie.

Vero è che, seguendo le indicazioni di Foucault, la microfisica del potere non conosce limiti, specie sui corpi. Per cui due anni orsono un' intera classe politica si è sembrata appassionarsi alla questione delle taglie degli abiti da donna, se 38, o 40, o 42, o 44, senza che molto poi concretamente sia mutato.

Il tratto curioso, anzi strambo, qui in Italia, è semmai l' intensa disinvoltura, l' allegra approssimazione, il sereno arbitrio con cui i potenti lanciano le loro belle idee, e per 24 ore le difendono pure dai dardi del disfattismo, sapendo benissimo che mai troveranno sfogo nella realtà; e presto, prestissimo evaporeranno anche dalla testa dei cittadini.

Chi si ricorda della «destagionalizzazione» con la quale il vicepremier Rutelli provò a convincere gli italiani della bontà di non andare in ferie d' estate? E chi mai sentirà il bisogno di dare inizio alle lezioni con la musica di Fratelli d' Italia, come avrebbe voluto il ministro Mastella? Sembra di rammentare che in un empito di sgangherato patriottismo ci fu chi propose anche l' alzabandiera.

Ma come per la pausa pranzo del ministro Rotondi, che non la fa più da anni, il rischio è che tutto si fa uguale nella sua diversità; e magari d' estate, passeggiando sulla battigia, capita pure di rimpiangere la proposta del ministro Publio Fiori che invano cercò di vietare il gioco dei racchettoni.

mercoledì 25 novembre 2009

Stupidi teleologismi

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Dialogo di un folletto e di uno gnomo

Folletto Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?

Gnomo Mio padre m'ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta, come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.

Folletto Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.

Gnomo Che vuoi tu inferire?

Folletto Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta.

Gnomo Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s'è veduto che ne ragionino.

Folletto Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?

Gnomo Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?

Folletto Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l'uno all'altro come uovo a uovo.

Gnomo Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.

Folletto Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.

Gnomo E i giorni della settimana non avranno più nome.

Folletto Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?

Gnomo E non si potrà tenere il conto degli anni.

Folletto Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l'età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.

Gnomo Ma come sono andati a mancare quei monelli?

Folletto Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l'un l'altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.

Gnomo A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.

Folletto Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.

Gnomo Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.

Folletto E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.

Gnomo Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.

Folletto Perché? io parlo bene sul sodo.

Gnomo Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo e fatto per gli gnomi?

Folletto Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa e la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l'aria, il mare, le campagne?

Gnomo Che fanno ai folletti le cave d'oro e d'argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?

Folletto Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.

Gnomo Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l'altre cose che facevano a questo e a quello, s'inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel'aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.

Folletto Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini della terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d'uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.

Gnomo Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?

Folletto Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.

Gnomo In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.

Folletto Ma i porci, secondo Crisippo, erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.

Gnomo Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell'anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.

Folletto E anche quest'altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimente di tratto in tratto, per via de' loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d'anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s'immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell'alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.

Gnomo Sicché in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l'aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.

Folletto Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.

Gnomo E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.

Folletto E il sole non s'ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch'ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.

da "Operette morali", di Giacomo Leopardi

lunedì 23 novembre 2009

Deriso declassato frustrato dimagrito

Mio fratello è figlio unico - perche' non ha mai trovato il coraggio di operarsi al fegato - e non ha mai pagato per fare l'amore - e non ha mai vinto un premio aziendale - e non ha mai viaggiato in seconda classe sul rapido Taranto/Ancona - e non ha mai criticato un film senza prima prima vederlo - Mio fratello e' figlio unico - perche' e' convinto che Chinaglia non puo' passare al Frosinone - perche' è convinto che nell'amaro benedettino non sta il segreto della felicita' - perche' e' convinto che anche chi non legge Freud puo' vivere cent'anni - perche' e' convinto che esistono ancora gli sfruttati malpagati e frustrati - Mio fratello e' figlio unico - sfruttato deriso calpestato odiato - e ti amo Mariù - Mio fratello e' figlio unico - sfruttato disgregato picchiato sottomesso - e ti amo Mariù - Mio fratello e' figlio unico - sfruttato dimagrito declassato derubato - e ti amo Mariù - Mio fratello e' figlio unico - derubato sottomesso declassato dimagrito - e ti amo Mariù

DDL Anti-Persecuzione

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Il Cavaliere e la favola dei 106 processi
di GIUSEPPE D'AVANZO - da "La Repubblica", del 20/11/2009

Si dice: il processo sia "breve" e se questa rapidità cancella i processi di Silvio Berlusconi sia benvenuta perché contro quel poveruomo, dopo che ha scelto la politica (1994), si è scatenato un "accanimento giudiziario" con centinaia di processi.

Al fondo della diciottesima legge ad personam, favorevole al capo del governo c'è soltanto uno schema comunicativo, fantasioso, perché privo di ogni connessione con la realtà.

È indiscutibile che un giudizio debba avere una ragionevole durata per non diventare giustizia negata (per l'imputato innocente, per la vittima del reato). "Processo breve", però, è soltanto un'efficace formula di marketing politico-commerciale. Nulla di più. Per credere che dia davvero dinamismo ai dibattimenti, bisogna dimenticare che le nuove regole (durata di sei anni o morte del processo) sono un imbroglio, se non si migliorano prima codice, procedura, organizzazione giudiziaria. Sono una rovina per la credibilità del "sistema Italia", se definiscono "non gravi" i reati economici come la corruzione.

Con il tempo, la ragione privatissima del disegno di legge è diventata limpida anche per i creduloni, e i corifei del sovrano ora ammettono in pubblico che la catastrofica riforma è stata pensata unicamente per liberare Berlusconi dai suoi personali grattacapi giudiziari.

L'effrazione di ogni condizione generale e astratta della legge deve essere sostenuta - per conformare la mente del "pubblico" - da un secondo soundbite, quella formuletta breve e convincente che, come una filastrocca, deve essere recitata in tv, secondo gli esperti, al ritmo di 6,5 sillabe al secondo, in non più di 12/15 secondi. Diffusa, ripetuta e disseminata dai guardiani vespi e minzolini dei flussi di comunicazione, suona così: Silvio Berlusconi ha il diritto di proteggersi - sì, anche con una legge ad personam - perché ha dovuto subire centinaia di processi dopo la sua "discesa in campo", spia di un protagonismo abusivo e tutto politico della magistratura che indebolisce la democrazia italiana.
Bene, ma è vero che Berlusconi è stato "aggredito" dalle toghe soltanto dopo aver scelto la politica? E quanto è stato "aggredito"? Davvero lo è stato con "centinaia di processi" tutti conclusi con un nulla di fatto?
Domande che meritano parole factual, se si vuole avere un'opinione corretta anche di questo argomento sbandierato da tempo e accettato senza riserve anche dalle menti più ammobiliate.

Il numero dei processi di Berlusconi è un mistero misericordioso se si ascolta il presidente del consiglio. Dice il Cavaliere: "In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni" (10 ottobre 2009).

Nello stesso giorno, Marina Berlusconi ridimensiona l'iperbole paterna: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c'è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?" (Corriere, 10 ottobre).

Qualche giorno dopo, Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, pompa il computo ancora più verso l'alto: "I processi contro Berlusconi sono 109" (Porta a porta, 15 ottobre). Lo rintuzza addirittura Bruno Vespa che avalla i numeri di Marina: "Non esageriamo, i processi sono 26". Ventisei, centosei o centonove, e quante assoluzioni?

In realtà, i processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono sedici. Quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; istigazione alla corruzione di un paio di senatori (la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione); fondi neri per i diritti tv Mediaset (in dibattimento a Milano); appropriazione indebita nell'affare Mediatrade (il pm si prepara a chiudere le indagini). Nei dodici processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione.

In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma).

Due volte con la formula dubitativa del comma 2 dell'art. 530 del Codice di procedura penale che assorbe la vecchia insufficienza di prove: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria".

Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato".

Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio).

Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato.

Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati).

È vero, l'inventario annoia ma qualcosa ci racconta. Ci spiega che senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) affatturate dal suo governo, Berlusconi sarebbe considerato un "delinquente abituale". Anche perché, se non avesse corrotto un testimone (David Mills, già condannato in appello, lo protegge dalla condanna in due processi), non avrebbe potuto godere delle "attenuanti generiche" che lo hanno reso "meritevole" della prescrizione che egli stesso, da presidente del consiglio, s'è riscritto e accorciato.

L'imbarazzante bilancio giudiziario non liquida un lamento che nella "narrativa" di Berlusconi è vitale: fino a quando nel 1994 non mi sono candidato al governo del Paese, la magistratura non mi ha indagato.

Se non si lasciano deperire i fatti, anche questo ossessivo soundbite non è altro che l'alchimia di un mago, pubblicità. Berlusconi viene indagato per traffico di stupefacenti, undici anni prima della nascita di Forza Italia. Nel 1983 (l'accusa è archiviata).

È condannato in appello (e amnistiato) per falsa testimonianza nel 1989, venti anni fa. Nel 1993 - un anno prima della sua prima candidatura al governo - la procura di Torino già indaga sul Milan e i pubblici ministeri di Milano sui bilanci di Publitalia.

Al di là di queste date, è documentato dagli atti giudiziari che Silvio Berlusconi e il gruppo Fininvest finiscono nei guai non per un assillo "politico" dei pubblici ministeri, ma per le confessioni di un ufficiale corrotto del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano.

Ammette che le "fiamme gialle" hanno intascato 230 milioni di lire per chiudere gli occhi nelle verifiche fiscali di Videotime (nel 1985), Mondadori (nel 1991), Mediolanum Vita (nel 1992), tutti controlli che precedono l'avventura politica dell'Egoarca.

Accidentale è anche la scoperta dei fondi esteri della Fininvest. Vale la pena di ricordarlo. Uno dei prestanomi di Bettino Craxi, Giorgio Tradati, consegna a Di Pietro i tabulati del conto "Northern Holding". Li gestisce per conto di Craxi. Sul conto affluisce, senza alcun precauzione, il denaro che il gotha dell'imprenditoria nazionale versa al leader socialista. C'è una sola eccezione. Un triplice versamento non ha nome e firma. Sono tre tranche da cinque miliardi di lire che un mittente, generoso e sconosciuto, invia nell'ottobre 1991 a Craxi.

"Fu Bettino a annunciarmi l'arrivo di quel versamento", ricorda Tradati. Le rogatorie permettono di accertare che i miliardi, "appoggiati" su "Northern Holding", vengono dal conto "All Iberian" della Sbs di Lugano. Di chi è "All Iberian"? Per mesi, i pubblici ministeri pestano acqua nel mortaio fino a quando un giovane praticante dello studio Carnelutti, un prestigioso studio legale milanese, confessa al pool di avere fatto per anni da prestanome per conto della Fininvest in società create dall'avvocato londinese David Mackenzie Mills.

Così hanno inizio le rogne che ancora oggi Berlusconi deve grattarsi. Il caso, la fortuna, la sfortuna, fate voi. Tirando quell'esile filo, saltano fuori 64 società off-shore del "gruppo B di Fininvest very secret", create venti anni fa e alimentate prevalentemente con fondi provenienti dalla "Silvio Berlusconi Finanziaria". È in quell'arcipelago che si muovono le transazioni strategiche della Fininvest che, come documenterà la Kpmg, consentono a Berlusconi e al suo gruppo di "alterare le rappresentazioni di bilancio"; "esercitare un controllo con fiduciari in emittenti tv che le normative italiane estere non avrebbero permesso"; "detenere quote di partecipazione in società quotate senza informare la Consob e in società non quotate per interposta persona"; "erogare finanziamenti"; "effettuare pagamenti"; "intermediare tra società del gruppo l'acquisizione dei diritti televisivi"; "ricevere fondi da terzi per finanziare operazioni di Fininvest effettuate per conto di terzi".

È il disvelamento non di un episodio illegale, ma di un metodo illegale di lavoro, dello schema imprenditoriale illecito che è a fondamento delle fortune di Silvio Berlusconi. Per dirla tutta, e con il senno di poi, sedici processi per venire a capo di quel grumo di illegalità oggi appaiono addirittura un numero modesto.

Nel "group B very discreet della Fininvest" infatti si costituiscono fondi neri (quasi mille miliardi di lire). Transitano i 21 miliardi che rimunerano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. E c'è altro che ancora non sappiamo e non sapremo? Tutti i processi che Berlusconi ha affrontato e deve ancora affrontare nascono per caso non per un deliberato proposito. Un finanziere che confessa, un giovane avvocato che si libera del peso che incupisce i suoi giorni consentono di mettere insieme indagine dopo indagine, ineluttabili per l'obbligatorietà dell'azione penale, una verità che il capo del governo non potrà mai ammettere: il suo successo è stato costruito con l'evasione fiscale, i bilanci truccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa. Per Berlusconi, la banalizzazione della sua storia giudiziaria, che egli traduce e confonde in guerra alla (o della) magistratura, non è il conflitto della politica contro l'esercizio abusivo del potere giudiziario, ma il disperato e personale tentativo di cancellare per sempre le tracce del passato e di un metodo inconfessabile. Con quali tecniche Berlusconi ha combattuto, e ancora affronterà, questa contesa è un'altra storia.

sabato 21 novembre 2009

Lo scippatore & Il corruttore

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La corruzione costa 25mila euro a testa ma in Italia non è un reato grave
di Giuseppe D'Avanzo - Da La Repubblica del 21/11/2009


Paese meraviglioso l'Italia. Quando non si acceca da solo, chiude gli occhi. Il frastuono politico assorda e il rumore mediatico lascia nascosta qualche verità e - in un canto - fatti che, al contrario, meritano molta luce e l'attenzione dell'opinione pubblica.

La disciplina del "processo breve" ce l'abbiamo sotto gli occhi e vale la pena di farci i conti, senza lasciarci distrarre da ingenui e imbonitori.

Qualche punto fermo. Il disegno di legge pro divo Berluscone non rende i processi rapidi (è una cristallina scemenza). Quel provvedimento fabbrica una prescrizione svelta e improvvisa come un fulmine che uccide.

Solitamente, a fronte dei reati più gravi, uno Stato responsabile - e leale con i suoi cittadini - si concede un tempo adeguato per accertare il reato e punire i responsabili (la prescrizione non è altro). Più grave è il reato, più problematico e laborioso il suo accertamento, maggiore è il tempo che lo Stato si riconosce prima di considerare estinto il delitto. Le regole della prescrizione svelta e assassina (dei processi) capovolgono questo criterio di efficienza e buon senso. Più grave è il reato, minore è il tempo per giudicarlo.

I magistrati avranno tutto il tempo per processare uno scippatore e tempi contingentati per venire a capo, per dire, di abuso d'ufficio, frodi comunitarie, frodi fiscali, bancarotta preferenziale, truffa semplice o aggravata: quel mascalzone di Bernard Madoff, che ha trafugato 50 miliardi di dollari ai suoi investitori, ne gioirebbe maledicendo di non essere nato italiano.

Ora il disegno di legge potrà essere corretto e limato ma - statene certi - non potrà mai lasciare per strada la corruzione propria e impropria perché Silvio Berlusconi, imputato di corruzione in atti giudiziari e con il corrotto già condannato in appello (David Mills), ha bisogno di quel "salvacondotto" per levarsi dai guai. Un primo risultato si può allora scolpire nella pietra: l'Italia è il solo Paese dell'Occidente che considera la corruzione un reato non grave e dunque, se le parole e le intenzioni hanno un senso, una pratica penalmente lieve, socialmente risibile, economicamente tranquilla.

Nessuno pare chiedersi se ce lo possiamo permettere; quali ne saranno i frutti; quali i costi economici e immateriali; quale il futuro di un Paese dove "corrotto" e "corruttore" sono considerati attori sociali infinitamente meno pericolosi di "scippatore", "immigrato clandestino", "automobilista distratto", e la corruzione così inoffensiva da meritare una definitiva depenalizzazione o una permanente amnistia.
Il silenzio su questo aspetto decisivo della "prescrizione svelta", inaugurata dalla "legge Berlusconi", è sorprendente. È sbalorditivo che il dibattito pubblico sul minaccioso pasticcio, cucinato dagli avvocati del premier nel suo interesse, non veda protagonisti anche la Confindustria, chi ha cara la piccola e media impresa, i sindacati, gli economisti, le autorità di controllo del mercato e della concorrenza, le associazioni dei risparmiatori e dei consumatori, i ministri del governo che ancora oggi si dannano l'anima per dare competitività al "sistema Italia".


Come se il circuito mediatico e "pubblicitario" del presidente del consiglio fosse riuscito a gabellare per autentica la storia di un ennesimo conflitto tra politica e giustizia, e dunque soltanto affare per giuristi, toghe e giornalisti.

Come se questo progetto criminofilo non parlasse di sviluppo e arretratezza; di passato e di futuro; di convivenza civile, organizzazione sociale, legittimità delle istituzioni, trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese.

È stupefacente questo silenzio perché ognuno di noi paga ancora oggi e pagherà domani, con l'ipoteca sul futuro di figli e nipoti, il prezzo della corruzione del passato, quasi sette punti di prodotto interno lordo ogni anno, 25mila euro di debito per ciascun cittadino della Repubblica, neonati inclusi.

Settanta miliardi di euro di interessi passivi, sottratti ogni anno alle infrastrutture, al welfare, alla formazione, alla ricerca. È una condizione che corifei e turiferari, vespi e minzolini, occultano all'opinione pubblica. È necessario qualche ricordo allora per chi crede al "colpo di Stato giudiziario", alla finalità tutta politica dell'azione delle procure, favola ancora in voga in queste ore nel talk-show influenzati dal Cavaliere.

Quando Mani Pulite muove i suoi primi passi, il giro di affari della corruzione italiana è di diecimila miliardi di lire l'anno, con un indebitamento pubblico tra i 150 e il 250 mila miliardi più 15/25 miliardi di interessi passivi. L'abitudine alla corruzione cancella ogni sensibilità del ceto politico per i conti pubblici. Inesistente negli anni sessanta, il debito cresce fino al 60 per cento del prodotto interno lordo negli anni ottanta. Sale al 70 per cento nel 1983. Tocca il 92 per cento nei quattro anni (1983/1987) di governo Craxi, per chiudere alla vigilia di Mani Pulite, nel 1992, al 118 per cento.

Non c'è dubbio che, in quegli anni, una maggiore attenzione della magistratura alla corruzione, e la consapevolezza sociale del danno che produce, favorisce il parziale rientro dal debito, utile per adeguarsi ai parametri di Maastricht.

Di quegli anni - 1993/1994 - è infatti il picco di denunce dei delitti di corruzione. Con il tempo, la tensione si allenta. Lentamente la curva dei delitti denunciati decresce e nel 2000 torna ai livelli del 1991, quelli antecedenti all'emersione di Tangentopoli.

Negli anni successivi la legislazione ad personam (taglio dei tempi di prescrizione per i reati economici, dalla corruzione al falso in bilancio), i condoni fiscali, le difficoltà della legge sul "risparmio" (in realtà sulla governance) chiudono il cerchio e una stagione.

Da qui, allora, occorre muovere per comprendere e giudicare un progetto che può spingere l'Italia, nell'interesse di uno, in prossimità di una condizione da "paese emergente". Perché la difficoltà della nostra storia recente nasce nel fondo oscuro della corruzione. Tirarsene fuori è una necessità in quanto c'è - non è un segreto, anche se è trascurato dal discorso pubblico e dai cantori dell'Egoarca - una simmetria perfetta tra la corruzione e le criticità per la società e il Paese. Mercati dominati da distorsioni e "tasse immorali" (60 miliardi di euro ogni anno per la Corte dei Conti) garantiscono benefici soltanto agli insiders della combriccola corruttiva. Oltre a perdere competitività, i mercati corrotti non attraggono investimenti di capitale straniero e sono segnati da una bassa crescita (troppe barriere all'entrata, troppi rischi di investimento). Non c'è studio o analisi che non confermi la relazione tra il grado di corruzione e la crescita economica, soprattutto per quanto riguarda le medie e piccole imprese che sono il nocciolo duro della nostra economia reale.

Infatti, le piccole e medie imprese - si legge nella relazione parlamentare che ha accompagnato la ratifica della convenzione dell'Onu contro la corruzione diventata legge il 14 agosto del 2009 - , "oltre a non avere i mezzi strutturali e finanziari delle grandi imprese (che consentono loro interventi diretti e distorsivi) risultano avere meno peso politico e minori disponibilità economiche per far fronte alla richiesta di tangenti".

La corruzione diventa un costo fisso per le imprese e un onere che incide pesantemente nelle decisioni di investimento. Sono costi, per le piccole e medie imprese, che possono essere determinanti per l'entrata nel mercato, così come possono causarne l'uscita dal mercato. E in ogni caso sono costi che hanno rilevanti ricadute su altri fronti: ricerca, innovazioni tecnologiche, manutenzione, sicurezza personale, tutela ambientale.

Per queste ragioni, la corruzione dovrebbe trovare una sua assoluta priorità nell'agenda politica e gli italiani se ne rendono conto anche se magari non sanno, come ha scritto il ministro Renato Brunetta, che il balzello occulto della corruzione "equivale a una tassa di mille euro l'anno per ogni italiano, neonati inclusi".

Secondo Trasparency International, un organismo "no profit" che studia il fenomeno della corruzione a livello globale, il 44 per cento degli italiani crede che la corruzione "incide in modo significativo" sulla sua vita personale e familiare; per il 92 per cento nel sistema economico; per il 95 nella vita politica; per il 85 sulla cultura e i valori della società. Più del 70 per cento della società ritiene che nei prossimi anni la corruzione sia destinata a non diminuire. Il disastroso quadro nazionale è noto agli organismi internazionali.

È di questi giorni il rapporto del Consiglio d'Europa sulla corruzione in Italia. Il Consiglio rileva che in Italia i casi di malversazione sono in aumento; che le condanne sono diminuite; i processi non si concludono per le tattiche dilatorie che ritardano i dibattimenti e favoriscono la prescrizione; la normativa è disorganica; la pubblica amministrazione ha una discrezionalità che confina con l'arbitrarietà.

Il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d'Europa (Greco) ha inviato all'Italia 22 raccomandazioni di stampo amministrativo (introduzione di standard etici, per dire), procedurali (per evitare l'interruzione dei processi) normative (nuove figure di reato). La risposta alle preoccupazioni della comunità internazionale - che appena al G8 dell'Aquila ha sottoscritto il dodecalogo dell'Ocse per un global legal standard (peraltro fortemente voluto da Tremonti) - è ora nel disegno di legge della "prescrizione svelta".

La corruzione è trascurabile. Non è il piombo sulle ali dell'economia italiana. Non è la tossina che avvelena il metabolismo della società italiana. Non è il muro che ci impedisce di scorgere il futuro. È un grattacapo del capo del governo. Bisogna eliminarlo anche al prezzo di non avere più un futuro per l'Italia intera.

Dove sono in questo piano inclinato "gli uomini del fare" che credono nella loro impresa, nel merito, nel mercato, nella concorrenza? E perché tacciono?

La professione del critico

martedì 17 novembre 2009

A est di Arcore

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Il neo-anticomunismo: personaggi e interpreti
di Ilvo Diamanti - da "La repubblica" del 15/11/2009

E' proprio vero che le ideologie sono finite? Dissolte insieme al muro di Berlino, vent' anni fa? In parte sì. Ma solo in parte. Perché resistono ancora. Anche se ridotte a parole e immagini, sedimentate nel senso comune. E interpretate dai leader politici. Personalizzate, come tutta la politica, in quest' epoca senza partiti - dove i partiti sono, comunque, entità flou. In questo "paese personale". È il tempo dell' anticomunismo senza il comunismo. In cui il "comunismo" ritorna come un mantra, nei discorsi del premier, dei suoi ministri, degli uomini del suo governo.

Proprio - e tanto più - perché non c' è più. Ma serve. Come ha confessato Confalonieri a Sabelli Fioretti sulla Stampa: «È un ottimo argomento di vendita». Utile a catalogare gli Altri, quelli che stanno a centrosinistra. Ma anche al centro, perfino a destra. Comunque: a est del muro di Arcore che ha sostituito quello di Berlino. Dove si stende la terra del neo-comunismo. Costellata di riferimenti reali ad alto contenuto simbolico e di simboli ad alto contenuto realista.

Recitati ad alta voce da testimonial e leader d' opinione. Gli ideologi del neo-anticomunismo (senza il comunismo). Che colgono fratture antiche e latenti e le proiettano nel presente. Con un linguaggio e argomenti popolari. Parole gridate, sempre più forte, secondo le regole della "politica pop".

Pensiamo, in primo luogo e soprattutto, al ministro Brunetta. Onnipresente sui media. Sempre alla ricerca della provocazione. Buca lo schermo. Suscita, per questo, grande consenso, ma anche ostilità. Nel suo stesso governo. (Com' è avvenuto di recente con Tremonti). Il suo marchio è la missione contro l' inefficienza della pubblica amministrazione. Contro i "fannulloni" che vi si annidano. Nell' intento - meritevole - di premiare i meritevoli. Con l' esito - non involontario - di coniare un' etichetta onnicomprensiva e indelebile, per chiunque insegni oppure operi negli uffici pubblici. Condannato, ora e sempre, a una carriera da "fannullone".

Altra figura importante - e popolare - è la ministra Gelmini. Si occupa della scuola e dell' università. Persegue, in modo determinato, l' obiettivo di ridurre gli sprechi e aumentarne l' efficienza. Anche la riforma dell' università, appena presentata, segue un disegno virtuoso. Introdurre criteri di qualità ed efficienza: nell' offerta formativa, nell' insegnamento, nel reclutamento, nell' organizzazione. Ma appare mossa da una preoccupazione dominante - anche legittima, per carità. Destrutturare il sistema di potere fondato sul ruolo dei professori ordinari. Disarmare i famigerati "baroni". Senza chiarire cosa dovrà diventare, questa università. Scossa da un processo di riforma continua. Da oltre 10 anni. Con una sola costante: la riduzione continua di risorse destinate all' università e alla ricerca. Prevista, puntualmente, anche da questa finanziaria. Con il rischio che, insieme ai baroni, affondi anche l' università. La meno finanziata di tutti i paesi dell' Ocse.

La scuola, l' università, la burocrazia, insieme, definiscono il regno della sinistra. Che ancora oggi attinge i suoi consensi maggiori proprio in quest' area sociale. Nell' impiego pubblico, fra gli insegnanti e nelle professioni intellettuali. Gli intellettuali. Invece, il neo-anticomunismo rappresenta il mondo di "quelli che lavorano sul serio". Interpretato efficacemente dal ministro Sacconi. Spietato con gli ex-comunisti o presunti tali. Con la Cgil. Il sindacato comunista. (E chi lo è stato in passato è destinato a rimanerlo per sempre). Accusato di agire ispirato da pregiudizio politico più che dagli interessi dei lavoratori. I suoi iscritti operai, d' altra parte, resistono solo nelle grandi fabbriche. Quasi estinte. Oppure sono pensionati. Ex lavoratori che non lavorano più. Assistiti dallo Stato. Anche per questo votano prevalentemente a sinistra.

Contro la sinistra pubblica e intellettuale agisce la Lega popolana e plebea. Immersa nel territorio delle piccole imprese. Ma anche nelle campagne. Come rammenta Zaia. Ministro dell' Agricoltura. Un drago della comunicazione. Contadino fra i contadini, allevatore fra gli allevatori. Anche se non è mai stato né l' uno né l' altro.

È su questa linea di demarcazione che è stato costruito il muro del neo-anticomunismo senza il comunismo. Il nuovo muro. Da una parte, a ovest, il mondo dei lavori e dei lavoratori "che usano le mani". Gli imprenditori e gli artigiani che producono, faticano. Fanno. Dall' altra parte, quelli che parlano, dicono, predicano. A spese dello Stato. Da un lato il privato e dall' altro il pubblico. Da un lato le cose concrete dall' altro quelle virtuali. Da un lato i "fannulloni" e dall' altro i "fantuttoni", per citare Francesco Merlo. Quelli che fanno a quelli che dicono. I piccoli imprenditori e i lavoratori "veri" contro gli statali, i maestri, i professori, i baroni. Contro i giornalisti. Ma anche contro «attori e attrici, artisti e commedianti, registi e teatranti, cantanti e cantautori (...) Schiavi e proni. In attesa di una nuova rivoluzione». Come li ha apostrofati il ministro Bondi, in una lettera al Foglio, a commento della visita degli artisti al Quirinale.

Bondi: fino a ieri persona mite e rispettosa. Si è adeguato al linguaggio e allo stile del tempo. All' ideologia che fa ritenere l' "industria culturale" quasi un ossimoro.

Berlusconi non si limita a ispirare questa rappresentazione del mondo. Ne scrive il copione, ne sceglie i personaggi. Delinea la scena con obiettivi simbolicamente reali e realmente simbolici. Offerti dall' emergenza presente. Luoghi come Napoli - da liberare dall' immondizia; l' Aquila - da ricostruire sulle macerie del terremoto. Oppure il ponte sullo Stretto. Più che un' infrastruttura: una sovrastruttura marxiana. Ideologia allo stato puro.

Berlusconi è l' uomo-che-fa, alla guida del governo-italiano - che - ha-fatto-di-più-negliultimi-150-anni. Cioè: da quando esiste l' Italia unita. Un vitalismo che schiaccia l' opposizione. Rappresentata e guidata da funzionari, uomini di Stato. Politici di professione. Giornalisti. Artisti. E intellettuali. Quindi ex oppure neo-comunisti. L' opposizione. Dovrebbe certamente avvicinarsi di più al mondo dei lavori. E magari rifiutare, senza rassegnarsi, questa ideologia. Che considera la cultura inutile. E l' intellettuale una figura improduttiva. Più che una categoria: un insulto.

Pensieri erraBondi

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Da tenero poeta a castigamatti - La parabola di Sandro , l' ex buono
di Filippo Ceccarelli - da La Repubblica del 14/11/2009

Di solito si tende a sottovalutare l'effetto del potere sulle persone. Con tale innocua premessa, tanto più in un'epoca nella quale spesso e volentieri gli aspetti umani prevaricano la politica, la notizia è che il ministro Bondi sembra di colpo diventato cattivo. Molto cattivo: e l'articolo sul Foglio di ieri, con quella impalcatura tardo-ideologica montata ad arte per collocarvi poi offese generali e personalizzatissimi risentimenti, ne rappresenta la più disagevole conferma.

A volersi dimostrare altrettanto cattivi, cosa abbastanza facile, e anche senza infierire su quell'altro sintomo rivelatore che negli uomini mutati dal comando è l'ipertrofia dell'ego - "E invece io", "e intanto io" - l'immagine che si fa largo leggendo e rileggendo l'intemerata bondiana contro Vittoria Mezzogiorno e Massimo Ranieri è quella di un celebre film: "Fracchia la belva umana".

Ma l'auspicio e anzi la speranza è che, proprio perché ministro, il mite e tenero Bondi smetta di ruggire e riacquisti al più presto quel suo sorriso malinconico che accompagna "la mia persona", dice lui, anche quando versa lacrime alla scuola quadri di Gubbio, o davanti alla tomba terremotata di Celestino V.

Ma di recente si è anche commosso, il titolare dei Beni Culturali, quando la concorrente Daniela ha dovuto abbandonare la casa del Grande Fratello 7 o 8. Forse davvero un caso di antagonismo mimetico.

Vai a sapere quale diavolo l'ha cambiato fino al punto di mancare di rispetto con Napolitano: cercava la Bellezza, Bondi, tendeva la mano al professor Asor Rosa, si addolorava per un giornalismo "che si alimenta dell'odio", invocava buone notizie dai tg. E siccome bene o male apparteneva alla sfera dei potenti si raccontava e ri-raccontava piccolo emigrante, e ballava il liscio davanti ai fotografi, felice come un bimbo, e aveva così tanta paura di volare che l'Alitalia gli fece perfino un training; e anche dal dentista non voleva andare, e s'innamorava di una commessa della Camera, e sudava - oh, quanto sudava, notò un giorno il Cavaliere - quando c'era la Brambilla.

Un altro giorno, era il 2006, entrò pure in sciopero della fame: contro la legge Gentiloni, che peraltro non aveva alcuna probabilità di essere approvata, ma Bondi smise lo stesso di mangiare e fu ricoverato all'ospedale di Lucera (Fg), patria di Bonghi, Salandra e Gaetano Gifuni.

Ecco. Dov'è più il delicato poeta che scriveva "per colmare la lontananza di mia moglie e di mio figlio"? Che crudeltà sfogliare i rotocalchi con il senno di poi. C'è un servizio di Oggi , un servizio niente affatto ironico, in cui egli compare pensieroso, con il taccuino e la penna d'oca in mano, sotto un busto di Dante Alighieri, all'aperto. Scriveva affettuosi e morbidi versi, per la commessa e per la dentista, per Veltroni e Bibi Ballandi, ma la vena più impetuosa, ardente, idolatrica, misticheggiante, scorreva innanzitutto per Lui, e quindi per i Suoi, come dimostrano i componimenti per mamma Rosa, Veronica, la mitica segretaria Marinella, e poi per Letta e Dell'Utri, rimpinzati di maiuscole nella lectura Bondis.

In un quadro di riemersioni arcaiche nell'ambito del potere, nessuno più dell'ex mite ministro ha contribuito al pieno ripristino dell'agiografia, dell'apologetica e della poesia encomiastica, appunto, e cortigiana. Mentre il saggio "Il sole in tasca" (Mondadori) vira piuttosto verso la teologia del potere, con le dovute implicazioni di messianismo, trascendenza e predestinazione. Sul tutto, foto del Cavaliere in cornice d'argento girate opportunamente verso il visitatore e le telecamere; comunicati che cominciano "Grazie, presidente Berlusconi"; e così vistosa e insistita gratitudine al momento del giuramento da indurre il neo presidente del Consiglio a congedare Bondi con un segno della mano, ecco, sì, va bene, basta così, vai, vai.

Anche per questo ieri si restava sgomenti nel leggere quegli insulti di servilismo distribuiti con tanta disinvoltura ai "commedianti ". Ma come? C'è un libro, niente affatto antiberlusconiano, in cui lui stesso racconta come un giorno, su convocazione giunta alle due del pomeriggio, si è presentato a palazzo per fare da quattordicesimo commensale - e aveva già pranzato. Perché qui le idealità si saranno pure smarrite, e a nessuno piace fare lo psicologo: però proiettare ciò che si ha dentro sul prossimo si può anche capire. Ma buttarglielo addosso dall'alto pare veramente un po' troppo.

Paz in terra

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da il foglio.org, di Maurizio Campisi

Il rischio, quando si parla del Costarica, è di cadere nei soliti luoghi comuni. Il suo stato di paese senza esercito e di una tradizione pacifica in un’area che per lungo tempo è stata minata da guerre intestine, può portare a generalizzazioni pericolose.

La più diffusa è quella di indicarlo come la «Svizzera del Centroamerica», che lo paragona ad una nazione che ha fatto del commercio di armi e dei traffici bellici la propria fortuna.

Il Costarica, che ha abolito costituzionalmente l’esercito nel 1949, è un paese pacifico che ha costruito sull’assenza dell’istituzione militare la base della sua crescita sociale. È in questa maniera che ha creato un modello guida per l’America Latina, che è stato all’avanguardia per decenni e che solo ultimamente sta dimostrando un certo esaurimento.

La globalizzazione, utile al Nord del mondo, anche qui sta producendo disastri: chiusura delle bananiere, coltivatori e lavoratori del caffè sul lastrico, turismo in perdita. Il modello, comunque, ce la fa ancora a tenere e per darsene conto basta dare un’occhiata oltre frontiera. In Nicaragua i bimbi dei cafeteros muoiono di fame, mentre qui i sussidi dello Stato riescono per il momento a far fronte all’emergenza.

Lo sforzo più grande, ancora oggi, è quello di mantenere viva la «politica della pace» – o la cultura di pace, come preferiscono chiamarla qui – che negli anni Ottanta riuscì a porre fine ai conflitti che martoriavano il Centroamerica.

Allora, gli accordi di Esquipulas II del 1987 valsero il premio Nobel per la Pace al presidente del Costarica, Oscar Árias, ma servirono soprattutto a mutare il corso di una situazione che sembrava irreversibile.

Per alcuni anni sembrò che questo precedente potesse inaugurare una stagione nuova, di una smilitarizzazione progressiva che avrebbe potuto interessare tutti i paesi dell’area. Nei fatti, Panama venne smilitarizzata in seguito alla vicenda di Noriega, ma in quel caso si trattò della necessità di preservare il capitale statunitense da eventuali futuri colpi di testa di ex delfini con manie di grandezza.

Oggi, è invece giunto il momento della disillusione. Le democrazie nate dalle macerie delle guerre civili hanno dato asilo ai persecutori, in nome di una riconciliazione nazionale che ha lasciato senza colpevoli tragedie e genocidi. Inoltre, le riforme neo-liberali hanno finito per affossare gli sforzi per organizzare una politica sociale di ampia portata.

In Guatemala, Honduras e Nicaragua i governi spendono buona parte dei fondi per mantenere eserciti che al momento sono solo rappresentativi, togliendo risorse ai settori bisognosi della popolazione. La lezione non è ancora servita, nonostante ci siano i numeri a parlare chiaro. Mentre in Nicaragua l’analfabetismo interessa il 33% degli abitanti, ed in Guatemala e Honduras rasenta il 30%, in Costarica è solo del 4,2%. Lo stesso discorso vale per la speranza di vita: quasi settantasette anni in Costarica, il dato più alto in tutta l’America Latina, mentre nel resto della regione centroamericana sono dodici anni meno in media.

Quello dei dati è una maniera sbrigativa, ma efficace di interpretare il modello inaugurato più di cinquanta anni fa da Pepe Figueres, coriaceo figlio di catalani emigrati in America in cerca di miglior fortuna. Nella pratica, per capirlo bene, è necessario addentrarsi nella realtà costaricense.
La relazione con la pace comincia dall’educazione. Non è retorica quando i ticos – come si chiamano tra loro i costaricensi – ricordano che le scuole sono le loro caserme. L’aver portato l’istruzione anche negli angoli più remoti del paese, invece delle armi da fuoco o di plotoni di reclutamento, ha aperto una reale gamma di opportunità a generazioni altrimenti destinate allo sfruttamento e all’ignoranza.

Nei villaggi, invece di incontrare l’unico simbolo della Coca Cola come avviene in altri paesi, il viaggiatore si imbatte nella scuola e nel posto di pronto soccorso. I giovani laureati in medicina e pedagogia hanno l’obbligo di servire per un anno in queste comunità lontane, in una sorta di servizio sociale obbligatorio che abitua l’individuo a percepire la sua importanza come elemento con un compito preciso nella società.

Lo scopo è quello di evitare la violenza strutturale. Oggi, il tasso di omicidi è di 7 per 100.000 abitanti, sette volte in meno del Guatemala, il paese più violento della regione. Merito delle politiche sociali, ma anche di una presenza della polizia che a San José, la capitale, si è organizzata come quelle europee. A piedi, in bicicletta, in moto, a cavallo o in automobile i poliziotti fanno sentire la loro presenza in un’opera che non è solo di repressione, ma di prevenzione. Esistono ugualmente i quartieri a rischio, come Los Cuadros de Goicoechea o Lomas del Río, ma si tratta ormai di una realtà comune a tutta l’America Latina. È come arginare un fiume in piena, ed il timore è che anche il Costarica, nonostante tutto il lavoro, si possa trasformare un giorno in Caracas, Lima o Ciudad de México.

Il merito maggiore però, in questo periodo di difficile tolleranza delle migrazioni, è quello di stare accogliendo la forte immigrazione dal Nicaragua. Il peso sociale è di rilievo. Si stima che almeno 400.000 nicaraguensi vivono oggi in Costarica – paese di 4 milioni di abitanti –, in una diaspora che sembra non aver fine, complice la crisi endemica che attanaglia il governo di Managua. Arrivano per le raccolte del caffè o della canna da zucchero, e spesso si fermano, andando ad ingrossare le periferie già disagiate di San José ed Alajuela, le due città più grandi.
Anche per loro, scuole ed ospedali sono aperti, pur se nella maggior parte delle volte sono persone che non hanno i mezzi per poter pagare la previdenza. Si tratta di un notevole sforzo, soprattutto ora che le indicazioni del Fondo monetario vertono verso una privatizzazione dei servizi offerti dallo Stato, suggerimento che è stato accolto giocoforza da tutti gli altri paesi della regione con risultati tutt’altro che positivi. La violenza del più forte, dei centri internazionali del potere, si fa sentire anche così, debilitando le politiche sociali e facendo del mondo in via di sviluppo un far west senza regole.

D’altronde, l’accoglienza è parte della tradizione civile e pacifista di questo paese. In diverse epoche il Costarica ha ospitato gli esuli di mezzo continente. Negli anni Settanta furono i cileni che scappavano da Pinochet, poi vennero gli argentini, i guatemaltechi, quindi i peruviani che fuggivano dalla follia di Sendero Luminoso. Oggi sono i nicaraguensi, senza opportunità a casa loro, e i colombiani a ingrossare le fila delle comunità straniere. Si è calcolato che almeno il 25% della popolazione residente in Costarica è straniera, un fatto che si può comprovare in qualsiasi riunione sociale e che ha arricchito la cultura locale. Lo stesso passato parla di una nazione che, lungo tutta la sua storia, ha combattuto una sola guerra, quella del 1856, e contro, guarda caso, un gruppo di avventurieri al soldo di uomini d’affari statunitensi, con l’armatore Vanderbilt in testa. Anche in quel caso, a guidare le armi fu l’ambizione della classe imprenditoriale degli Stati Uniti, alla ricerca di una rotta che permettesse un trasporto sicuro ai coloni che volevano raggiungere la costa ovest, attirati dal miraggio della corsa all’oro.
Così, oggi le piazze e le vie della città, i monumenti del Costarica non ricordano generali o battaglie, ma i concetti su cui si regolano i principi della convivenza e del progresso: parco della Pace, piazza della Democrazia, piazza della Cultura, centro Franklyn Chang (dal nome dell’astronauta costaricense), la rotonda delle Garanzie Sociali ne sono alcuni esempi.

A Ciudad Colón, ad una quindicina di chilometri dalla capitale sorge, nel verde della campagna, l’Università per la Pace, patrocinata dalle Nazioni Unite.

È un altro tassello del mosaico pacifista, del tentativo di dare un senso a un’attitudine che non vuole e non può rimanere racchiusa a mera teoria. I docenti vengono da ogni parte del mondo ad insegnare come applicare la cultura della pace a studenti che poi torneranno nei loro paesi con il compito di prevenire guerre e violenze.

L’attuale rettore è Martin Lees, che guida un corpo docenti formato da centroamericani, inglesi, svizzeri, venezuelani, cileni, islandesi, uruguayani, cambogiani, olandesi, peruviani, canadesi e statunitensi. Un blocco eterogeneo, chiamato ad insegnare materie dove spiccano l’educazione alla pace e la conoscenza ed il rispetto delle religioni.

Così, non è poi eccezionale che in Costarica non esista un dibattito sulla pace, perché la pace è un dato di fatto, è la maniera in cui si educano i figli e in cui si guarda il futuro. In fondo, dà forza e speranza sapere di vivere nell’unico paese al mondo che il giorno dell’Indipendenza manda in piazza i suoi studenti invece che i soldati.

Maurizio Campisi, 40 anni, di Rivoli, vive da dieci anni in Costarica. Scrive su «Diario», «D di Repubblica» e «Narcomafie». È corrispondente dal Centro-america del quotidiano «La Juventud» di Montevideo. Ha pubblicato per Frilli Editori Centroamerica – Reportages (2002).