
Lo strano successo dei fondi che puntano sul dollaro forte
di Walter Riolfi
La sensazione è che il ruolo del dollaro statunitense sia destinato progressivamente a ridimensionarsi. Più che sensazione parrebbe certezza, osservando come s'è svalutato negli ultimi mesi: del 18% sull'euro e dell'11% sullo yen.
In ogni caso vi sono autorevoli pareri di economisti a suffragare la tesi di un lento ed inesorabile declino del biglietto verde. L'ha ripetuto in settimana Nouriel Roubini, secondo il quale si prospettano giorni peggiori per il dollaro a causa della bolla che sta montando sul carry trade.
E l'ha ribadito Mohamed El-Erian (la mente macroeconomica di Pimco) facendo notare come al dollaro sia venuta meno la componente più importante: il ruolo degli Stati Uniti come «motore della crescita globale»; oltre agli altri problemi ben noti come l'enorme debito pubblico e il deficit commerciale.
Se dunque un investitore dovesse scommettere sulla valuta, andrebbe corto (al ribasso) di dollari, come suggerirebbe il buon senso e come difatto sta avvenendo da mesi. Perché quella pratica del carry trade, definita da Roubini la «madre di tutte le bolle», consiste per l'appunto nel finanziarsi a tassi bassissimi, vendendo dollari per comprare titoli denominati in altre valute, materie prime e persino le stesse azioni di Wall Street.
Tra il 2005 e il 2007 il meccanismo aveva funzionato bene con lo yen giapponese, visti i tassi d'interesse quasi a zero nel Sol Levante. Oggi gira ancora meglio negli Usa e questa pratica rappresenta una delle più importanti fonti di finanziamento della speculazione internazionale: oltre alla generosità delle banche centrali, s'intende, le quali, per far ripartire l'economia, prestano soldi quasi gratis alle banche vigilate che l'impiegano ovviamente nella pura finanza.
Invece qualcosa sta cambiando, almeno da un mese a questa parte sul fronte del carry trade.
Intanto s'è visto come la recente correzione delle borse dopo la metà di ottobre sia stata accompagnata dalla chiusura delle posizioni di carry trade: e difatti il dollaro s'è leggermente apprezzato.
Ma quel che più stupisce è come altre categorie di investitori professionisti sia siano buttati a comprare dollari e non a venderli. Lo stanno facendo da qualche mese, intensificando gli acquisti nelle ultime settimane, attraverso un Etf: uno di quei perfidi e ormai dominanti strumenti d'investimento che riproducono automaticamente un paniere di titoli o di beni.
Infatti a Wall Street l'Etf «PowerShares Us $ Bullish», ossia rialzista, è diventato così di moda ed è stato così comprato, che la Sec ha deciso giovedì scorso di sospenderne momentaneamente le negoziazioni in attesa di triplicarne le dimensioni. Ad agosto aveva attività per un valore di 184 milioni di $; a fine ottobre, dopo sottoscrizioni per 232 milioni in un solo mese, contava già 726 milioni di attivo. Nell'ultima settimana sono arrivati soldi freschi per 218 milioni e vale adesso 986 milioni.
Il fratello di segno opposto (il fondo bearish, ossia ribassista) ne vale appena 376, pur con il dollaro in caduta e con 185 milioni di denaro entrato. Ed è interessante notare come gli scambi sul fratello bullish si siano moltiplicati da agosto e siano volati in ottobre e soprattutto la scorsa settimana fino ad oltre 10 milioni di titoli scambiati al giorno: contro un massimo di 900mila del bearish. Senza contare che si può andar lunghi sul dollaro anche comprando un altro Etf: il «ProShares Ultra Short Euro»: tra i più micidiali nella famiglia dei fondi fatti al computer, perchè è ribassista con una leva di due volte. Ma questo fondo, pur avendo visto crescere gli scambi recentemente, vale appena 46 milioni di dollari. E di certo non riesce a smuovere le valute.
Si può osservare come questi importi sembrino briciole a confronto dei soldi finiti nei paesi emergenti: 26 miliardi di $ quest'anno da investitori Usa, di cui 15 solo negli Etf.
Ma in ogni caso, lo strano successo del fondo a favore del dollaro può voler dire che il cammino di questo carry trade non è poi così lineare. E, forse, non è nemmeno detto che debba finire in bolla.
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