martedì 27 ottobre 2009

Di fatto e di diritto

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Corte di Cassazione, II sez. PENALE, Sentenza del 22 ottobre 2009, n. 40727

Il reato di maltrattamenti si configura anche per le coppie di fatto. Lo ribadisce la Corte di cassazione, confermando la condanna a un anno e 8 mesi di reclusione inflitta dalla Corte d'appello di Cagliari - sezione distaccata di Sassari - ad un albanese ritenuto responsabile di maltrattamenti in famiglia, violenza privata e ricettazione. La II sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza n. 40727/2009, ha infatti dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato, ricordando che "ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente more uxorio", poiché il richiamo contenuto all'articolo 572 c.p. (inerente il reato in questione) alla famiglia "deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo".

da "Il Sole 24 Ore" del 27/10/2009

domenica 25 ottobre 2009

Forever sarà (Gasp!)



'Silvio forever sarà, Silvio è genialità' - Il culto della personalità diventa canzone di Filippo Ceccarelli (da "La Repubblica" del 30/9/2009)

"C'È UN presidente/ sempre presente,/ che ci accompagnerà! ". Il coro del magnificat berlusconiano si leva solenne e ispirato mentre sullo schermo compare Lui fra le rovine d'Abruzzo, lui che dà ordini ai pompieri, lui con Obama, lui che saluta la folla, lui che dà le case ai terremotati, in un tripudio di bandiere del Pdl: "Siamo qui per te,/ cuore e anima,/ un'unica voce:/ Silvio grande grande è!".

Musica del maestro Pino di Pietro, testo di Loriana Lana, paroliera preferita di Silvio. Il quale Silvio, oltre a essere "grande grande", come garantisce l'inno che fa da colonna sonora alla campagna (riequilibratrice) per il Nobel della pace a Berlusconi, risulta pure destinato in un altro canto a durare per sempre, anzi "forever". E quindi ecco che parte una specie di litania del santissimo nome, ma in forma di marcetta: "Silvio forever sarà,/ Silvio realtà,/ Silvio per sempre!/ Silvio fiducia ci dà,/ Silvio per noi/ passato e presente!".

Qui in effetti la canzone, come del resto il videoclip che lo accompagna in prolungata festa di bimbi, scolaresche e nonnetti felici di stare con il premier, ha mutato target e fa chiaramente il verso a Cristina D'Avena. Ma il testo continua in modo piuttosto impegnativo: "Nobile e giusto,/ Tu ci piaci per questo,/ Sei il pensiero che ci guiderà!/ Il sogno riparte da qua,/ diventa realtà,/ perché Silvio.../ Silvio forever sarà!".

Vero è che Napoleone ebbe dedicata la sinfonia Nr 3, Opus 55, detta l'Eroica, da Ludwig Van Beethoven. Però nel suo piccolo Loriana Lana, già coautrice di "A tempo di rumba" con il Cavaliere e Apicella, segnala pur sempre una svolta nelle modalità espressive del potere e dei suoi orizzonti: "Un popolo di libertà/ la musica va,/ un unico canto:/ il mare attraverserà,/ ovunque sarà/ portato dal vento:/ Silvio è il carìsma che ha,/ il leader che sa,/ la genialità... ".

Ecco, il prodotto è quello che è e se ne può anche ridere, vedi le diverse parodie che circolano sulla rete. Così come è obiettivamente buffo che persino nelle festicciole a Palazzo Grazioli le gentili e graziose ospiti salutassero i video sui trionfi berlusconiani o sulle meraviglie di Villa La Certosa facendo la ola al canto di "Meno male che Silvio c'è".

Tale composizione, vero inno ufficioso risuonato in forma di jingle al congresso fondativo del Pdl ogni volta che entrava in sala il Cavaliere, precede in realtà di diversi anni la produzione celebrativa di Loriana Lana e si deve al cantante Andrea Vantini, da Pescantina, in provincia di Verona, che lo compose con il titolo "A Silvio", nel 2002, dopo aver assistito indignatissimo a una trasmissione di Santoro. Nel 2008, su indicazione del sottosegretario Brancher, Vantini offrì per intero la sua creatura al Cavaliere, che tenne la musica e riscrisse o fece riscrivere il testo comunque accentuando l'ispirazione in senso d'intimità per così dire fideistica.

Per esempio, là dove Vantini cantava "Viva l'Italia,/ l'Italia che ha scelto/ di credere un po'/ a questo sogno", è saltato "un po'", sostituito da "credere ancora" al "Sogno", maiuscolo, che sistematicamente ricorre come dogma nel pop-messianismo berlusconiano, e sempre in rapporto alla sicura ed imminente trasformazione in realtà.

Si può dunque scherzare, di tutto questo, ma la faccenda è forse più seria di quel che sembra e di come suona. Si sa. Nell'edificazione del culto della personalità la musica gioca da sempre, in quanto macchina emotiva, un ruolo di grande rilievo. Vedi i cori della Germania nazista, le canzoni per Stalin o gli inni cantati dalle guardie rosse: "Ti pensiamo ogni minuto,/ stimato presidente Mao".

Ma al giorno d'oggi, tanto più quando si sposa con le immagini nei videoclip, questo tipo di musica disvela con una certa chiarezza il suo intento più riposto e camuffato, l'obiettivo primo e ultimo della tecnica del potere: la sacralizzazione del leader.

Al netto di opportunismi cortigiani, ritrovati commerciali e megalomanie trionfalistiche, nel caso di Berlusconi, anzi di Silvio, "grande" e ancora "grande", e "nobile", "giusto", "geniale", "onnipresente", "carismatico", "sapiente" e via salmodiando, appare chiaro che si tratta in ogni caso di una sacralizzazione light, un'apoteosi morbida e incompiuta, un'idolatria segnata dai moduli del consumo e della pubblicità.

Ma questo non impedisce affatto che egli disdegni questo consenso che si fa culto di se stesso; qualcosa che a volte giudica in pubblico "imbarazzante", ma si vede benissimo che per lui non lo è, è anzi spunto di piacere.

La divinizzazione, d'altra parte, gli conviene se non altro perché giustifica a priori qualunque cosa egli faccia. E comunque. Era da un po' che in Italia non risuonava il nome di un leader vivente in qualche inno o canzone. Neanche De Gasperi o Togliatti, per intendersi, né Fanfani o Berlinguer ebbero questo "privilegio". Ecco. L'attuale premier compare con il suo nome di battesimo in ben tre testi, e in contemporanea. Può essere un caso, ma anche un indizio - l'ennesimo, per la verità - di una stagione politica che non riconosce più tanto la democrazia, ma torna a inseguire una sorta di trascendenza dal basso fatta di miti, simboli, cantici, effervescenze.
Sembra passata un'epoca dal primo inno di Forza Italia: "Forza, alziamoci,/ il futuro è aperto, entriamoci./ E le tue mani unite alle mie,/ energie per sentirci più grandi/ grandi".
E la ricerca, per non dire la mania di grandezza c'era tutta già allora , ma dal "noi", in parole e musica si è inesorabilmente passati al "Lui", con tutti i rischi che ne derivano .

sabato 17 ottobre 2009

Senza parole

L'esempio di comicità involontaria più divertente della storia!!! Ma allo stesso tempo un pauroso caso di manipolazione orwelliana dell'informazione ... Si noti, fra una palata di spazzatura televisiva e l'altra, la frase "Alle sue stravaganze, in realtà siamo già abituati...".

martedì 13 ottobre 2009

La democrasì in Italì

Il sempre profetico Tocqueville letto da Marcorè.

Raggirato(re)

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dalle motivazioni della sentenza "Parmalat" del 18/12/2008
La posizione di Calisto Tanzi

Le conclusioni cui si è giunti nel paragrafo precedente -che indicano in Calisto Tanzi il
vero regista del sistema di falsificazioni su cui si è retto il Gruppo Parmalat per oltre dieci
anni- in nulla vengono scalfite dalle dichiarazioni rese dall’imputato, il quale
ha preteso di
difendersi descrivendosi quale imprenditore modello sotto il profilo gestionale, ma del tutto
sprovveduto quanto agli aspetti finanziari, in relazione ai quali sarebbe stato vittima degli
intenti truffaldini perseguiti da numerosi istituti di credito, italiani ed esteri
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Tanzi non si è sottoposto all’esame ed ha reso dichiarazioni spontanee al principio del
dibattimento ed in sede di discussione; all’esito dell’istruttoria, inoltre, su richiesta del
PM sono stati acquisiti gli interrogatori resi dall’imputato nel corso delle indagini
preliminari.

La versione dei fatti dell’ex patron della Parmalat è la seguente.
Egli era consapevole della falsità dei dati contenuti nei bilanci, nei comunicati stampa e nelle risposte alla Consob ed anche del fatto che -in virtù di tali falsità- i titoli emessi dalle società del Gruppo esprimessero un valore superiore a quello reale, ma egli agiva nella perfetta convinzione della sostenibilità dell’azienda e della possibilità di risanarla, senza percepire che le condotte di occultamento delle reale condizioni della Parmalat potessero condurre a così catastrofiche conseguenze quali quelle verificatesi nel dicembre 2003.
Nel corso degli anni, peraltro, le condotte di occultamento erano state agevolate dagli istituti di credito che, malgrado i bilanci esprimessero dati incongruenti sotto il profilo della trasparenza e del rapporto tra indebitamento e liquidità, avevano assicurato al Gruppo continue risorse finanziarie nell’ambito di un rapporto drogato, tale per cui erano le banche ad inseguire Parmalat e a proporle le forme più svariate di finanziamento, circostanza che egli aveva sempre interpretato come atto di estrema fiducia nei confronti delle sue capacità
imprenditoriali
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Attesa la sua scarsa conoscenza e propensione alle alchimie finanziarie -
connotazioni riferibili anche ai responsabili della finanza del Gruppo, che il più delle volte accettavano acriticamente le proposte formulate dagli operatori finanziari, in ragione della loro imperscrutabile complessità- egli non era mai stato in grado di comprendere le reali finalità sottese alle operazioni poste in essere dal Gruppo sotto la guida ed il consiglio di istituti di credito e banche d’affari di respiro internazionale. Nella specie, era stato solo in seguito al suo arresto che egli aveva realizzato che tali operazioni erano state preordinate
all’arricchimento delle banche in danno della stessa Parmalat e dei risparmiatori che investivano in titoli emessi da società del Gruppo.
A quest’ultimo proposito, Tanzi ha rappresentato che il collocamento presso il mercato retail di emissioni obbligazionarie destinate ad investitori istituzionali era avvenuto a sua insaputa, con la conseguenza che la responsabilità dei danni cagionati ai piccoli risparmiatori doveva ritenersi a lui estranea.
Più precisamente, pur ammettendo di aver contribuito al crack Parmalat e chiedendo “perdono” in ragione di ciò ai risparmiatori, Tanzi ha ribadito che la responsabilità principale di quanto accaduto deve essere attribuita ai banchieri e agli operatori finanziari, i quali avrebbero approfittato della sua ingenuità sin dalla quotazione in borsa della Parfin nel 1990, quando Parmalat -in grave tensione finanziaria per gli investimenti effettuati nel settore televisivo- si era salvata grazie ad un’operazione alquanto discutibile e non certo ideata da esponenti del Gruppo, operazione che aveva consentito di ripagare i debiti verso gli istituti di credito utilizzando quasi integralmente il danaro raccolto sul mercato.
A seguito della quotazione, erano state le banche a proporre e a finanziare le acquisizioni
delle varie società industriali sparse per il mondo di cui le stesse banche erano creditrici,
nonché a sollecitare continue emissioni obbligazionarie ed operazioni di finanza strutturata,
situazione che, per un verso, aveva consentito agli istituti di credito di lucrare compensi ed
interessi elevatissimi e, per altro verso, aveva obbligato il Gruppo a ricorrere
incessantemente al mercato per ripagare i numerosi finanziamenti e gli altri debiti in
scadenza. Spesso -in accordo con la banca- venivano comunicati al mercato tassi inferiori
rispetto a quelli reali e in ogni caso condizioni migliorative per Parmalat, al fine di non
ingenerare sospetti sulla solidità finanziaria del Gruppo, come accaduto in occasione delle
emissioni obbligazionarie effettuate nel corso del 2003.

Tanzi ha, poi, accennato ai rapporti intercorsi tra il Gruppo Parmalat ed alcuni istituti di
credito e, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese in sede di discussione, ha focalizzato
la sua attenzione su Bank of America, senza peraltro fornire elementi aggiuntivi rispetto a
quanto già emerso nel corso dell’istruttoria.
L’imputato, inoltre, ha spiegato che, a metà del 2002, la costruzione sino ad allora mantenuta in piedi per celare le reali condizioni del Gruppo stava crollando e che, nel corso di un colloquio estivo con il responsabile della JP Morgan Chase, questi gli aveva chiaramente rappresentato che la comunità finanziaria nutriva molte perplessità sui bilanci della Parfin, in ragione del massiccio ricorso a linee esterne di credito nonostante l’ingente liquidità asseritamene disponibile. E’ così che egli era giunto alla convinzione della necessità di ricorrere ad una ricapitalizzazione della
holding, a costo di perdere il controllo della società da parte della famiglia che non aveva liquidità da immettere nel capitale
. Peraltro, tale soluzione gli era stata suggerita anche dal responsabile della JP Morgan Chase con il quale aveva, altresì, concordato che la banca avrebbe elaborato un piano di ristrutturazione del debito occupandosi dei rapporti con i vari istituti di credito esteri, mentre Mediobanca avrebbe dovuto trattare i rapporti con quelli italiani. Erano seguiti vari contatti anche con Mediobanca la quale si era dichiarata
interessata, ma di fatto aveva chiesto continui rinvii e alla fine non si era pervenuti a nulla
di concreto. Si era, così, arrivati al febbraio 2003 che -con l’episodio del bond annunciato e
poi ritirato- aveva segnato l’inizio della definitiva crisi finanziaria del Gruppo di cui le
banche erano a questo punto a perfetta conoscenza.

In merito alle falsificazioni, Tanzi ha precisato che, pur avendo avuto consapevolezza dei profili di falsità caratterizzanti i bilanci delle società del Gruppo, del ruolo assolto dalla Bonlat e dell’inesistenza del conto Bank of America, egli ignorava i tecnicismi con cui venivano fatte risultare le attività fittizie, attribuendo a Tonna e a Zini spiccate abilità di falsari a lui assolutamente estranee. Addirittura, in alcune occasioni egli si era visto
costretto ad approvare le soluzioni che i medesimi di volta in volta ideavano, come nel caso
dell’esposto per aggiotaggio presentato dalla Parfin alla Consob il 20 marzo 2003, che egli
aveva sottoscritto in qualità di Presidente della società: “
sono stato un pochino costretto
a firmare sta lettera che era un po’ contro la mia volontà perché (Zini) mi diceva che
andava fatta in quanto praticamente era andato su e giù il titolo..perché senta, il primo
danneggiato di tutta questa cosa sono io, perché io ho avuto il 51% e non ho mai speculato
sul titolo nostro.. (la lettera) l’ha fatta lui e me l’ha fatta firmare, io non ero molto
convinto, ma lui diceva che andava fatta, per tutela nostra; sono robe che lasciano il tempo
che trovano.
.”.

Egli, inoltre, non trattava direttamente con i revisori e nel corso degli anni aveva solo immaginato una loro complicità o benevolenza in merito a Bonlat, fino a quando “gli fu detto” (dal tenore complessivo delle dichiarazioni sembrerebbe da Tonna) dell’opportunità di mantenere il rapporto con GT per riconoscenza e per continuare ad occultare le distrazioni sino ad allora commesse.
Tanzi ha, poi, negato di aver celato le reali condizioni del Gruppo a Ferraris quando questi
aveva assunto la carica di Direttore Finanziario e di avere impartito l’ordine di distruzione
delle carte Bonlat.

In merito al settore del turismo, infine, l’imputato ha raccontato che si era rivelato ben
presto un cattivo investimento foriero di numerose perdite ed ha giustificato le distrazioni
commesse in favore delle società del gruppo HIT, evidenziando come le stesse servissero a
coprire i debiti di un ramo d’azienda nella sostanza riconducibile alla Parmalat.
Si noti che Tanzi ha terminato il suo primo intervento in dibattimento preannunziando
che, attesa la rappresentazione di estrema sintesi effettuata in tale occasione, avrebbe
fornito altri contributi tesi a ricostruire i singoli episodi oggetto di imputazione, in quanto
desideroso di collaborare con l’autorità giudiziaria con tutte le sue forze. Avendo in seguito
preso la parola in sede di discussione, Tanzi ha giustificato tale silenzio, protrattosi per oltre
due anni e mezzo, adducendo motivi di salute (che comunque non gli hanno impedito di
presenziare al dibattimento per rendere dichiarazioni spontanee) ed in ogni caso
respingendo l’accusa di reticenza rivoltagli dai PM nel corso della requisitoria. A tale
ultimo riguardo, Tanzi ha spiegato di avere in realtà fornito agli inquirenti la più ampia
collaborazione possibile, avendo ammesso le sue responsabilità in relazione ai fatti per cui
si procede (altri particolari in merito a determinate operazioni finanziarie non avrebbe
potuto fornirli, giacché erano Tonna e Zini che se ne occupavano nei dettagli, limitandosi
egli ad approvare le loro proposte) ed avendo anche compiutamente illustrato gli appoggi
politici su cui poteva contare il Gruppo Parmalat, a fronte di elargizioni in denaro ad
esponenti di partito.

Altra precisazione effettuata in sede di discussione che merita di essere riportata è quella
relativa al viaggio a Quito che Tanzi ha effettuato in compagnia della moglie a ridosso del
suo arresto. La coppia partì il 18 dicembre 2003 -ovvero non appena era pervenuta la
risposta ufficiale di Bofa in merito all’inesistenza del conto Bonlat- con volo Aliparma
Parma/Lisbona e prosecuzione con voli di linea, facendo rientro in Italia il giorno di Santo
Stefano. Ebbene, mentre nel corso delle indagini Tanzi aveva dichiarato che si era trattato
di un normale viaggio di piacere con tanto di escursione in un lago di montagna, nelle
ultime battute del processo ha affermato che
l’Ecuador non è certamente un paradiso fiscale o una piazza finanziaria da cui si muovono capitali, come invece l’Uruguay o le Cayman Islands, ma tutt’al più un paese indicatogli come nazione dove l’estradizione verso l’Italia è particolarmente complessa e dalla quale egli era in ogni caso tornato volontariamente per affrontare le sue responsabilità. In tal modo, Calisto Tanzi ha voluto ribadire di non essersi recato in Ecuador per movimentare o occultare capitali e di aver messo a disposizione della
Procedura tutto quanto era nelle sue disponibilità
.

Orbene, venendo ad una valutazione complessiva delle dichiarazioni dell’imputato, emerge con solare evidenza come l’immagine che Tanzi ha cercato di accreditare di sé -ovvero dell’imprenditore che ha a cuore solo il bene dell’azienda, dell’uomo che mai avrebbe voluto danneggiare chicchessia, della persona sprovveduta raggirata dagli istituti bancari- è palesemente sconfessata dalle risultanze processuali già illustrate, che danno conto ictu oculi della complessità degli affari cui il medesimo era avvezzo, dell’elevato numero di
società che lo vedeva coinvolto, della spregiudicatezza con cui ha sempre utilizzato gli schermi offerti dalla disciplina della personalità giuridica delle società di capitali in spregio delle ragioni creditorie, nonché più in generale dell’assoluta insensibilità dimostrata verso i terzi (soci, creditori, dipendenti e risparmiatori) in violazione di ogni canone di correttezza prescritto dall’ordinamento.

Ed invero, nel quadro che si è delineato, il dato certo è che Calisto Tanzi, nella sua veste di socio di maggioranza e Presidente della Parfin, non solo ha sempre avuto il diretto controllo delle vicende societarie che riguardavano il patrimonio di tutte le società del Gruppo, ma ha anche deciso in piena autonomia della loro gestione e struttura finanziaria secondo un modello di tipo padronale, al di là della formale istituzione degli organi societari previsti dalla legge.

L’imputato ha riferito di avere avuto una conoscenza solo generica delle falsificazioni,
quasi si trattasse di qualcosa deliberato da altri (in particolare, da Tonna e Zini) che egli si è
trovato costretto a ratificare ex post, quando invece è emerso come sia a lui riferibile la
decisione di sostenere la sua azienda -sin dalla quotazione in borsa della holding- a mezzo
di bilanci truccati, nonché quella di ricorrere al mercato per ripianare le perdite derivanti da
cattivi investimenti, determinazioni che di certo non poteva prendere il solo Tonna,
nonostante il ruolo apicale dal medesimo rivestito, né tanto meno Zini, che era un
“consulente” esterno alla società. In proposito, deve essere chiarito che Tanzi è stato il
primo beneficiario del sistema di falsità su cui si è retto il Gruppo Parmalat e ciò non solo
in termini economici, atteso il tenore di vita dal medesimo mantenuto (aereo personale,
ville, imbarcazioni di lusso e quant’altro) e considerate le ingenti distrazioni a lui
addebitate, ma anche in termini di prestigio, avendo riguardo all’immagine di imprenditore
potente che l’imputato si é costruito nel tempo sia in ambito nazionale, che internazionale.

Di certo, anche Tonna e Zini hanno ricevuto cospicui vantaggi economici dai reati perpetrati sotto la direzione di Calisto Tanzi, ma si tratta pur sempre di beneficiari di secondo grado ed in ogni caso di strumenti fungibili da parte del dominus. E si badi che Tanzi non si è limitato a ordinare a Tonna e a Zini di falsificare i bilanci delle società del Gruppo e più in generale di porre in esse le manovre fraudolente a ciò necessarie, ma si è egli stesso adoperato nella ideazione dei singoli tecnicismi attraverso cui far apparire attività fittizie. Il riferimento è, in particolare, al business del latte in polvere della Bonlat, che Tonna ha ricordato di aver ideato congiuntamente a Calisto Tanzi, traendo
spunto da un commercio effettivo in precedenza intrattenuto da Parmalat in Sud America.

D’altro canto, Tonna ha riferito che era solito consultarsi con Tanzi su tutti gli aspetti
rilevanti delle falsificazioni, anche in merito all’utilizzo -prima della Bonlat- di Zilpa e
Curcastle quali società discarica, e che aveva immediatamente sottoposto al medesimo la
proposta avanzata da Penca e Bianchi sulla necessità di costituire la Bonlat, affinché GT
mantenesse la revisione sulle criticità sino ad allora occultate. Ed infatti, tale proposta
non poteva che essere approvata dall’imputato, in ragione della veste di dominus del
Gruppo ad egli riferibile.
Conseguentemente, l’imputato ha palesemente mentito quando ha
affermato di essere venuto a conoscenza solo in un secondo tempo della complicità dei
revisori GT. Tale conclusione risulta, altresì, avvalorata dalla deposizione di Bocchi, il
quale ha dichiarato che, nonostante fosse Tonna a gestire in prima persona i rapporti con i
revisori della GT e della DT, questi teneva costantemente ragguagliato Tanzi su ogni
problematica, come era accaduto in relazione all’episodio della certificazione dei proventi
fittizi derivanti dallo swap Sumitomo.
Che l’imputato fosse a perfetta conoscenza dei tecnicismi con cui si provvedeva a rattoppare l’instabile impalcatura su cui si sorreggeva il Gruppo emerge anche dalle dichiarazioni di Del Soldato il quale, come già illustrato, ha riferito che, a seguito dalla rimozione di Tonna dall’incarico di CFO, Tanzi lo aveva incaricato di perpetrare il sistema Bonlat “come si era sempre fatto sino ad allora”.
Del Soldato ha pure ricordato che Tanzi aveva redatto, congiuntamente a Zini, i comunicati
stampa relativi al Fondo Epicurum, così confermando come l’imputato non si sia limitato
ad approvare le falsità ideate da altri, ma le abbia congegnate in prima persona,
difendendole strenuamente.
A tale ultimo proposito, non può non rimarcarsi che Tanzi, al fine di protrarre il sistema di falsità che gli consentiva di apparire uno dei più importanti imprenditori italiani, ha recitato la propria parte anche allorquando, nel momento del pericolo, ha ricevuto nel suo ufficio Verde, Penca e Bianchi per illustrare loro il significato strategico che assumeva per il Gruppo il commercio del latte in polvere, addirittura facendo delle previsioni -dimostrando una capacità inventiva davvero fuori dall’ordinario- su quelle che erano i piani di vendita che avrebbe adottato da lì a poco la società Fonterra, il presunto
produttore del latte commercializzato da Bonlat.

In conclusione, Calisto Tanzi non ha solo deliberato in termini generali la falsificazione
delle scritture contabili e dei bilanci delle società del Gruppo, ma ha coadiuvato attivamente
con contribuiti ideativi specifici i propri complici (id est egli non solo conosceva i
tecnicismi, ma ne era protagonista). Ad ogni modo, anche ad ammettere che Tonna e Zini abbiano dimostrato abilità di falsari superiori a quelle di Tanzi, non per questo la capacità criminosa dell’imputato può ritenersi di minor spessore: anzi, al contrario, l’aver scelto Tonna e Zini quali suoi principali complici, denota una spiccata propensione ad assoldare dei professionisti del falso di caratura eccezionale.

Si aggiunga, inoltre, che anche attraverso la figura di Tonna, il cui carattere “difficile” è già stato messo in evidenza, Tanzi è riuscito a creare un clima di omertà e timore all’interno dell’azienda, inducendo quei dipendenti reclutati per il compimento delle falsità a non affrontare tale tematica apertamente se non con Tonna o Del Soldato ovvero
esclusivamente con coloro dai quali ricevevano le direttive illecite
.
L’istruttoria, peraltro, ha messo in evidenza come assai probabilmente le pedine di secondo piano come Bocchi e Pessina non abbiano ricevuto dei compensi straordinari per i loro servigi, con la conseguenza che i medesimi avrebbero assunto dei rischi così elevati solo per timore riverenziale e ammirazione verso Calisto Tanzi, il compaesano di Collecchio che dal nulla aveva creato un impero e che era diventato uno dei simboli dell’imprenditoria italiana
anche fuori confine.
L’imputato, infatti, esercitava un grande carisma sui propri
dipendenti e di tale carisma ha approfittato per portare a delinquere delle persone che
autonomamente mai avrebbero preso iniziative di tal genere. Talvolta, l’istigazione è
avvenuta con l’inganno. Questo è il caso di Ferraris, al quale Tanzi ha occultato lo stato di
insolvenza del Gruppo nel momento in cui gli ha proposto la carica di Direttore Finanziario
al fine di rinnovare l’immagine della Parfin. Come innanzi rilevato, Tanzi ha negato tale
circostanza, ma sul punto è stato smentito, oltre che dallo stesso Ferraris (che per soldi ha
comunque accettato di effettuare lusinghiere presentazioni del Gruppo negli Stati Uniti),
anche da Del Soldato il quale ha riferito che Tanzi lo aveva addirittura incaricato di falsare
il sistema HQR per impedire a Ferraris di scoprire il disastroso andamento di molte
partecipate estere e così avere contezza del debito complessivo del Gruppo. D’altro canto,
Tanzi risulta aver mentito anche in merito alla distruzione delle carte Bonlat, dichiarandosi
completamente estraneo alla vicenda, ma tale profilo è già stata ampiamente trattato nel
paragrafo precedente cui si rimanda.

A questo punto, deve essere evidenziato che a Tanzi deve essere riconosciuto un ruolo primario, oltre che per quanta riguarda le falsificazioni, anche per quanto concerne i rapporti con il settore bancario nel quale aveva moltissimi “agganci” (sino ad appoggiare con successo la candidatura di Silingardi in Cariparma) e con cui interloquiva anche in prima persona. A tale ultimo riguardo, basti ricordare le trattative relative al bond Deutsche Bank che nascono da un contatto personale dell’imputato con Armanini e che hanno portato
-per sua esclusiva determinazione- alla conclusione di un affare decisamente svantaggioso, ma che è servito a mantenere artificialmente in vita il Gruppo Parmalat ed a occultarne lo stato di decozione al mercato ancora per qualche tempo.

Anche alla stregua dell’emissione obbligazionaria testé richiamata, pare davvero che l’imputato fosse animato da un delirio di onnipotenza e che, anche quando -nel corso del 2003- la crisi di liquidità era divenuta insostenibile, il medesimo contasse di poter portare avanti in eterno l’impero che aveva creato.
In proposito, deve osservarsi che Tanzi ha dichiarato il falso laddove ha riferito che, a partire dall’estate del 2003, era sua intenzione ricapitalizzare la holding ricorrendo al mercato (operazione che in ogni caso avrebbe potuto realizzare solo tacendo, ancora una volta, le reali condizioni del Gruppo, atteso che l’unica
condotta imposta dall’ordinamento in una situazione di tale genere era più semplicemente quella di portare i libri in Tribunale). Invero, sulla base di quanto dichiarato da Del Soldato, è emerso che il progetto di Tanzi fosse in realtà quello di cedere il Gruppo del Turismo ad un certo Manieri e, così, provvedere all’aumento di capitale della Parfin con quanto incassato da tale operazione; nonostante tale progetto risultasse di difficile attuazione, Tanzi ha continuamente rinviato la necessaria ricapitalizzazione sollecitata a più riprese
dallo stesso Del Soldato, con la finalità precipua di mantenere il controllo della società.

Alla luce di quanto sin qui evidenziato, perdono rilievo le accuse che l’imputato ha rivolto alle banche. Ed infatti, se è vero che vi è stata una responsabilità di determinati istituti di credito, la cui posizione è oggetto di altro procedimento penale avanti il Tribunale di Milano, non è sulla base di tale assunto che il ruolo di Tanzi può essere ridimensionato, atteso che il “sostegno” che egli ha accettato dalle banche è servito a mantenere in vita un sistema di cui egli era -come già rilevato- ideatore e primo avvantaggiato. In altri termini, il
Collegio non esclude che alcuni istituti di credito possano aver lucrato illecitamente dal rapporto con il Gruppo Parmalat, quello che è certo, però, è che l’utilità primaria di tale rapporto è pur sempre riferibile al dominus del Gruppo, avendone Tanzi tratto vantaggio sotto diverse angolazioni, certamente quella economica, ma anche più in generale in punto di prestigio sociale. Per altro verso, si rileva che i falsi in bilancio -iniziati subito dopo la quotazione in borsa di Parfin- hanno preceduto l’intensificarsi del ruolo degli istituti bancari, che risale a metà degli anni novanta.

Tanzi ha, inoltre, cercato di attenuare la sua responsabilità, rappresentando di non essere stato a conoscenza che molte delle emissioni obbligazionarie destinate agli investitori istituzionali siano state in realtà collocate dagli istituti di credito presso il mercato retail. In proposito, deve osservarsi che poco rileva la pretesa inconsapevolezza di Tanzi sul punto. Invero, i danni che subiscono gli investitori istituzionali sono comunque forieri di gravi conseguenze per il mercato con inevitabili negativi effetti per l’intera economia e dunque, in ultima analisi, per la collettività. Si consideri, inoltre, che le obbligazioni Parfin quotate
presso la Borsa di Milano erano naturalmente preordinate al mercato retail, come pure le
azioni della holding, e di tale circostanza Tanzi era ovviamente a conoscenza. Ancora una
volta, quindi, la responsabilità dell’imputato appare di una gravità davvero marcata ed anzi
si amplifica proprio alla luce delle giustificazioni dal medesimo fornite, che fanno apparire
alquanto sterile la sua ammissione di colpevolezza.

In ultima analisi, non appare sostenibile la tesi difensiva di Tanzi a mente della quale egli fosse soggiogato e/o sfruttato dalle banche. Al contrario, era egli sempre alla ricerca di un contatto con le stesse, finalizzato ad ottenere un supporto, peraltro ormai fragile, per il mantenimento in vita di una architettura societaria in decadimento. Si spiega, così, quella sorta di “accanimento terapeutico” costituito dalla ricerca disperata di finanziamenti che
necessitavano, giustappunto, di una sponda bancaria
. D’altro canto, la pervicacia a
mantenere in vita il suo impero Tanzi l’ha dimostrata sino all’ultimo anche nei rapporti con
la Consob, avendone ostacolato in ogni modo gli accertamenti e non cogliendo
l’opportunità di svelare la realtà nemmeno in sede di audizione presso tale organo di
vigilanza, avvenuto a pochissimi giorni dal default. L’arroccamento di Tanzi si è perpetuato
davvero senza soluzione di continuità per tutto il 2003.
Ed infatti, a fronte dei ripetuti
richiami a fare un passo indietro provenienti da più persone, egli non si è mosso, perdendo l’occasione di arginare i danni già subiti dagli investitori ed anzi creandone di ulteriori, anche a mezzo della collocazione di nuovi titoli sul mercato
. Sotto tale profilo, si ricorda
che Del Soldato ha insistito a più riprese senza successo per una ricapitalizzazione della
Parfin, ma soprattutto assai emblematico è il
colloquio Tanzi/Ferraris. Quest’ultimo, una volta scoperto il vero ammontare del debito complessivo del Gruppo, aveva suggerito a Tanzi di incontrare le banche per illustrare loro la reale situazione finanziaria e predisporre un piano di rientro, suggerimento non accolto dall’imputato, il quale significativamente aveva risposto, dandogli in sostanza del matto.
Conclusivamente, Tanzi deve ritenersi l’ideatore e il promotore di tutte le condotte illecite
poste in essere dagli esponenti del Gruppo Parmalat; era lui, infatti, ad assumere ogni
decisione in merito alle falsificazioni, ad approvare le operazioni bancarie svantaggiose per
il Gruppo (ma che servivano a introitare liquidità nel tentativo di occultare l’emersione
dello stato di insolvenza), a firmare ogni documento rilevante, ad approvare i comunicati
stampa e le risposte alla Consob, con la conseguenza che -sulla base di quanto verrà
ulteriormente precisato nei paragrafi che seguono- egli deve essere dichiarato responsabile
dei reati contestati ai capi A), B), C) e D) della rubrica. I reati in parola devono ritenersi
unificati nel vincolo della continuazione, attesa l’evidente attuazione di un identico ed
originario disegno criminoso in ragione del perseguimento di un unico scopo e del
medesimo contesto in cui si è svolta la vicenda: ed invero,
già nel lontano 1990, Tanzi
aveva deciso di diventare il dominus di uno dei più importati gruppi imprenditoriali italiani a costo di frodare il mercato, deliberando di falsificare i bilanci e di porre in essere qualsiasi altra condotta necessaria all’occultamento di tale tragica verità (false informazioni al mercato, alla Consob e nelle relazioni delle società dei revisori), determinazione che in effetti ha attuato sino al dicembre del 2003
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ODV

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L’Organismo di Vigilanza, disciplinato dall’art. 6 del decreto 231/2001, è dotato di poteri autonomi e ha il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei Modelli Organizzativi e Gestionali, nonché di curare il loro aggiornamento.
Secondo il Tribunale di Milano (ordinanza del 2004), un OdV efficiente dovrebbe essere dotato di indipendenza, professionalità (con la presenza di almeno un esperto legale) ed autonomia (i componenti dovrebbero avere specifiche capacità professionali in tema di attività ispettive e di consulenza).

Le Linee Guida di Confindustria specificano che requisiti ulteriori di professionalità sono previsti per i preposti alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, i quali dovrebbero cooperare con l’OdV per consentirgli di esercitare efficacemente le sue funzioni.

Il decreto non fornisce alcuna indicazione in ordine alla composizione dell’Organo, perciò sono da considerare validi i primi orientamenti della dottrina, della giurisprudenza e delle associazioni di categoria, secondo cui l’OdV deve Essere interno all’azienda (anche se possono far parte soggetti esterni), può avere una composizione collegiale (per le società di capitale, vista la delicata funzione, non dovrebbe coincidere con un organo sociale) e, secondo le Linee Guida di Confindustria, può coincidere con la funzione di Internal Audit.

Il Tribunale di Roma (Ordinanza del 2003) ritiene che i membri dell’OdV non dovrebbero appartenere agli organi sociali poiché, se l’OdV dovesse partecipare alle scelte in ordine all’attività dell’ente, potrebbe esserne pregiudicata l’obiettività di giudizio al momento delle verifiche di azioni che avrebbe contribuito a rendere operative.
Nelle società di piccole dimensioni, la legge prevede che i compiti dell’Organismo di Vigilanza possano essere svolti direttamente dall’organo dirigente (art. 6, comma 4).

L’OdV deve essere libero di accedere a tutte le informazioni rilevanti per l’esercizio delle sue funzioni ed è l’organo in grado di recepire segnalazioni di malfunzionamenti del modello. È lo stesso MOG, del resto, che prevede lo scambio delle informazioni rilevanti per le rispettive funzione tra OdV, Internal Audit, preposti al controllo interno e revisore contabile.

L’OdV avrà l’obbligo di riferire periodicamente al Consiglio d’Amministrazione e al Collegio Sindacale sull’attività svolta e, di volta in volta, in caso di violazioni delle procedure contenute nel modello.

Le Linee Guida di Confindustria, in tal senso, suggeriscono di porre l’OdV in posizione gerarchica elevata, prevedendo il riporto solo ai vertici societari e non attribuendogli alcun compito operativo.

Citando testualmente le Linee Guida di Confindustria:
La posizione dell’Odv nell’ambito dell’ente deve garantire l’autonomia dell’iniziativa di controllo da ogni forma d’interferenza e/o di condizionamento da parte di qualunque componente dell’ente (e in particolare dell’organo dirigente). Tali requisiti sembrano assicurati dall’inserimento dell’Organismo in esame come unità di staff in una posizione gerarchica la più elevata possibile e prevedendo il ‘riporto’ al massimo Vertice operativo aziendale ovvero al Consiglio di Amministrazione nel suo complesso.”

Sempre secondo Confindustria, al momento della formale adozione del Modello, l’Organo Dirigente dovrà disciplinare gli aspetti principali relativi al funzionamento dell’Organismo (es. modalità di nomina e revoca, durata in carica) e ai requisiti soggettivi dei suoi componenti, nonché dare comunicazione alla struttura dei compiti dell’Organismo e dei suoi poteri, prevedendo, in via eventuale, sanzioni nel caso in cui esso manchi di collaborazione.

Anche i compiti e le competenze dell’OdV non sono dettagliati dal decreto, ma, tenuto pure conto delle Linee Guida di settore e della prassi, le sue attività possono essere così raggruppate:
−− verificare l’efficienza ed efficacia del MOG rispetto alla prevenzione e all’impedimento della commissione dei reati previsti dal D. Lgs. 231/2001;
−− controllare il rispetto delle procedure ed accertare gli eventuali scostamenti da esse;
−− effettuare periodici esami sul modello e proporre aggiornamenti;
−− segnalare agli organi dirigenti gli opportuni provvedimenti in caso di violazioni accertate dal modello;
−− informare periodicamente gli organi dirigenti e di controllo sul tema della 231.

da "GOVERNANCE E RESPONSABILITA' SOCIALE - ANALISI SULL'APPLICAZIONE DEI CODICI ETICI D'IMPRESA IN ITALIA - STUDIO REALIZZATO DALLA FONDAZIONE UNIPOLIS"

lunedì 12 ottobre 2009

Dizionario filosofico - Lettera B

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BELLO, BELLEZZA

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Domandate a un rospo che cos'è la bellezza, il vero bello, il to kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo, il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello è per lui una pelle nera e oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato.

Interrogate il diavolo; vi dirà che il bello è un paio di corna, quattro zampe a grinfia e una coda. Consultate infine i filosofi; vi risponderanno con incongruenze confuse; hanno bisogno di qualcosa conforme all'archetipo del bello in sé, al to kalòn.

BENE, SOMMO BENE

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Abbiamo la favola di Crantore: egli si immagina che si presentino alle Olimpiadi la Ricchezza, la Voluttà, la Salute, la Virtù; ognuna richiede il premio. La Ricchezza dice: - Io sono il sommo bene, perchè con me si comprano tutti i beni -. La Voluttà dice: - Il premio spetta a me, perchè gli uomini cercano la ricchezza solo per avermi -. La Salute asserisce che senza di lei non c'è piacere, e la ricchezza è inutile. Finalmente la Virtù dimostra che essa è superiore alle altre tre, perchè con l'oro, con i piaceri e con la salute, ci si può ridurre miserabili se ci si comporta male. La virtù ebbe il premio.

BENE, TUTTO E' BENE

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A me non piace ricorrere alle citazioni; di solito è una faccenda spinosa: si trascura ciò che precede e ciò che segue il passo che si cita e ci si espone a mille contestazioni. Tuttavia bisogna che io citi Lattanzio, padre della Chiesa, che nel capitolo XIII del suo Dell'ira divina, fa così parlare Epicuro: "O Dio vuole togliere il male da questo mondo, e non lo può, o lo può e non lo vuole; o non lo può nè lo vuole; o finalmente lo vuole e lo può. Se lo vuole e non lo può, è impotenza, il che è contrario alla natura di Dio; se lo può e non lo vuole, è malvagità, il che non è meno contrario alla sua natura; se non lo vuole nè lo può, è al tempo stesso malvagità e impotenza; se infine lo vuole e lo può (il solo di questi casi che si addica a Dio), donde viene allora il male sulla terra?"

L'argomento è stringente; così Lattanzio risponde molto male, dicendo che Dio vuole il male, ma ci ha dato la saggezza con cui possiamo conseguire il bene. Bisogna confessare che è una risposta assai debole in confronto con l'obiezione, perchè suppone che Dio non poteva darci la saggezza se non creando il male; e poi, abbiamo davvero una bella saggezza!
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da "Dizionario filosofico" di Voltaire

Amici/nemici

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La leggenda del presidente eletto dal popolo
di Ilvo Diamanti - La Repubblica del 12/10/2009

"Presidente eletto dal popolo". Così si definisce Silvio Berlusconi. Sempre più spesso, da qualche tempo. Per rivendicare rispetto dai molti nemici che lo assediano. Ma, al tempo stesso, per marcare le distanze dall' altro presidente. Giorgio Napolitano. Il Presidente della Repubblica. Il quale, al contrario, è "eletto dal Parlamento". Anzi da una parte di esso. Perché Napolitano non è "super partes", ma di sinistra. Come tutte le altre istituzioni dello Stato. Corte Costituzionale e magistratura in testa. Non garanti. Ma soggetti politici. Di parte. Per questo Berlusconi non ne accetta le decisioni, ma neppure il ruolo.

In pratica: considera le istituzioni dello Stato - e quindi la Costituzione - inadeguate. Peggio: illegittime. Meno legittime di lui, comunque. Presidente eletto dal popolo. Queste affermazioni, sostenute a caldo e a tiepido dal premier, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, si fondano su premesse discutibili, anzitutto sul piano dei fatti. Dati per scontati. Che scontati non sono.

Il primo fatto è che Berlusconi sia un presidente "eletto dal popolo". È quanto meno dubbio. Perché l' Italia non è (ancora) un sistema presidenziale.I cittadini, gli elettori, votano per un partito o per una coalizione. Non direttamente il premier o il presidente. Anche se, dopo il 1994, abbiamo assistitoa una progressiva torsione delle regole elettorali e istituzionali in senso "personale". Senza bisogno di riforme. Così, nella scheda elettorale, accanto ai partiti e alle coalizioni viene indicato anche il candidato premier. (Come ha lamentato, spesso, Giovanni Sartori).

Tuttavia, non si vota direttamente per il premier, ma per i partiti e gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per questo, non è un presidente eletto dal "popolo". Semmai dal "Popolo della Libertà". Da una maggioranza di elettori, comunque, molto relativa. Alle elezioni politiche del 2008 il partito di cui è leader Berlusconi, il Pdl, ha, infatti, ottenuto il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Intorno a un terzo del "popolo", insomma.

Peraltro, prima di unirsi con An, fino al 2006, il partito di Berlusconi era Forza Italia, che non ha mai superato il 30% dei voti (validi). Al risultato del Pdl si deve, ovviamente, aggiungere il 10% (o l' 8%, a seconda della base elettorale prescelta) ottenuto dalla Lega. I cui elettori, però, non hanno votato per Berlusconi. Visto che al Nord la Lega ha sottratto voti al Pdl, di cui è alleata e concorrente. E quando ha partecipato al governo (come in questa fase) si è sempre preoccupata di fare "opposizione".

Questa considerazione risulta ancor più evidente se si fa riferimento al risultato delle recenti europee. Dove si è votato con il proporzionale e con le preferenze personali. Il Pdl, il partito di Berlusconi, ha infatti ottenuto il 35,3% dei voti validi, ma il 33% dei votanti e il 21,9% degli aventi diritto.

Lui, il Presidente, ha personalmente ottenuto 2.700.000 preferenze. Il 25% dei voti del Pdl, ma meno del 9% dei votanti. Il risultato "personale" più limitato, dal 1994 ad oggi.

Tutto ciò, ovviamente, non intacca la legittimità del governo e del premier. Semmai la sua pretesa di interpretare la "volontà del popolo". D' altronde, si vota una volta ogni cinque anni, mentre i sondaggi si fanno quasi ogni giorno.

Per cui, più che sul voto, il consenso tende a poggiare sulle opinioni. Sulla "fiducia". Ma stimare la "fiducia" dei cittadini è un' operazione difficile e opinabile. Che non coincide con il consenso elettorale. Non si capirebbe, altrimenti, perché, se davvero - come sostiene Berlusconi - il 70% degli italiani ha fiducia in lui, alle recenti elezioni europee il Pdl si sia fermato al 35%, la coalizione di governo al 45% e le preferenze personali per il premier al 9% (dei voti validi).

La fiducia, inoltre, è difficile da misurare. Per ragioni sostanziali, ma anche metodologiche. Soprattutto attraverso i sondaggi. Dipende dalle domande poste agli intervistati. Dagli indici che si usano.

Alcuni fra i principali istituti demoscopici (come Ipsos di Nando Pagnoncelli e Ispo di Renato Mannheimer) utilizzano una scala da 1 a 10, per analogia al voto scolastico. Per cui l' area della "fiducia" comprende tutti coloro che danno a un leader (o a un' istituzione) la sufficienza (e quindi almeno 6). Oggi, in base a questo indice, circa il 50% degli italiani esprime fiducia nel premier Berlusconi (le stime di Ipsos e Ispo, al proposito, convergono). Mentre a fine aprile, dopo il terremoto in Abruzzo, superava il 60%.

Ciò significa che negli ultimi mesi la "fiducia" del popolo nel premier si è ridotta, anche se risulta ancora molto ampia.

Tuttavia, anche accettando questi indici, un 6 può davvero essere considerato un segno di "fiducia"? Ai miei tempi, nelle scuole dell' obbligo - ma anche al liceo - era una sufficienza stretta. Come un 18 all' università. Che si accetta per non ripetere l' esame. Ma resta un voto mediocre.

Basterebbe alzare la soglia, anche di pochissimo, un solo punto. Portarla a 7. Per vedere la fiducia nel premier (e in tutti gli altri leader) scendere sensibilmente. Al 37%. Più o meno come i voti del Pdl.

Con questi dati e con queste misure appare ardita la pretesa del premier di parlare in "nome del popolo". Tanto più che, con qualunque metro di misura, il consenso personale verso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risulta molto più elevato. Fino a una settimana fa, prima della recente polemica, esprimeva fiducia nei suoi confronti circa l' 80% degli italiani, utilizzando come voto il 6. Oltre il 50%, con una misura più esigente: il 7. Lo stesso livello di consenso raccolto dal predecessore, Carlo Azeglio Ciampi.

Anche da ciò originano le tensioni crescenti tra il premier e il Presidente della Repubblica. Nell' era della democrazia del pubblico. Maggioritaria e personalizzata. Dove i media sono divenuti lo spazio pubblico più importante. E il consenso è misurato dai sondaggi. Nessuno è "super partes". Sono tutti "parte". Tutti concorrenti. Avversari o alleati. Amici oppure nemici. Anche Napolitano, soprattutto Napolitano. Per la carica che occupa e la fiducia che ottiene. Agli occhi di Berlusconi, impegnato a costruire la leggenda del "presidente votato e voluto dal popolo". Non può apparire amico.

martedì 6 ottobre 2009

Un post interessante dal blog di Vittorio Zucconi

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Intervengo in ritardo e me ne scuso, ma ho avuto altro da fare. Ho letto la filippica di Suchert contro il giornalismo italiano in generale, e contro Repubblica in particolare, ed anche le repliche, di critica o di sostegno, di Carlo Basso, di paolagipi e di altri. Do atto a Daniel del merito di aver dato a questo tema un filo conduttore, sia pure a modo suo, di un “liberal” che vuol essere, ed è, liberale a tutto campo.

Essere liberali “senza se e senza ma”, sempre e a prescindere, tuttavia, comporta qualche rischio di idealismo, con conseguente perdita di misura e di criteri oggettivi di comparazione. Ogni giornale ha una sua linea editoriale, adeguata agli interessi dell’editore, al mantenimento e all’espansione della platea dei lettori, alla contingenza della vita pubblica, ed ispirata in ogni momento storico a criteri di opportunità economica, politica o più semplicemente, ma più raramente, di rispetto della verità e di alcuni valori civici fondamentali.

Il pluralismo dell’informazione, perciò, non è solo un bene, è una necessità. E la convinzione che sia, e debba rimanere, un pilastro della democrazia, mi pare essere comune a tutti noi che liberamente ci esprimiamo su questo blog, ed in primo luogo fede e passione di Zucconi che ce ne fornisce lo strumento.

Vorrei innanzi tutto sgomberare il campo dal riferimento alla cosiddetta obiettività, alla crudezza dei fatti che parlerebbero da soli, cioè ad un giornalismo cronachistico ed asettico, che si limita ad informare e, se vuole commentare, cioè orientare, lo fa solo in appositi spazi che il lettore è libero di frequentare oppure no. E’ un vanto della stampa anglosassone, lo sappiamo, ma in buona o cattiva fede, anch’esso un inganno. I fatti in realtà non parlano mai da soli quando vengono riferiti. Parlano da soli solo quando se ne è testimoni diretti, ed anche in questo caso relativamente al punto di osservazione.

Akira Kurosawa ne ha fatto argomento di un capolavoro del cinema in Rashomon, una parabola pirandelliana sulla relatività e le molteplici sfaccettature della verità. Suchert sa benissimo che anche la fotografia è una tecnica manipolabile (e non sto parlando di fotomontaggi), e che le possibilità di manipolazione di una notizia che offre la carta stampata sono pressoché illimitate.

Tutti vi ricorrono, nessuno escluso. Chi ipotizza un giornalismo esente da questo marchio genetico è un illuso o un idealista. Sostengo però che la maggiore o minore approssimazione al modello è certamente elemento qualificativo se non di totale onestà, almeno di buona intenzione.

Credo che un analogo e parallelo relativismo di giudizio debba essere esercitato anche dal lettore, soprattutto con riguardo al ruolo che un giornale decide di svolgere in un determinato momento storico politico.

Quando Scalfari e Repubblica occhieggiavano con Craxi e De Mita ed accettavano la “conventio ad escludendum” (il fattore K) del PCI di Amendola e Berlinguer, un’autentica vigliaccata ai danni della moralità pubblica, ed un’occasione perduta per restituire dignità alla vita politica (Moro ne rimase vittima perché l’aveva intuito), io ne fui critico severo e censore.

Ne avevo il diritto, non solo in nome della libertà di opinione, perché ero uomo di parte, ma per la consapevolezza che Repubblica si stava rendendo complice, ai miei occhi, di un tradimento dell’interesse dei lavoratori e dei deboli, la cui difesa fu e resta lo scopo principale della mia personale e modesta battaglia politica.

C’è quindi un tempo, un modo ed una ragione per la critica e per il consenso. Oggi sostengo Repubblica, Mauro e Zucconi, perché sono l’unica voce di portata nazionale che ancora abbia il coraggio di opporsi al regime mediatico ed alle nefandezze di chi ci governa. Che lo faccia anche con contraddizioni, manipolazioni, uso smodato del gossip, al limite con qualche omissione o menzogna, non mi importa, perché s’è instaurata una vicinanza di visione morale, istituzionale e politica, che mi fa apparire naturale, logico e realistico essere al suo fianco in questa battaglia. Insomma, caro Daniel, voglio dirti in tutta franchezza che il tuo moralismo non paga, che è inopportuno e decisamente fuori bersaglio, perché (non so se te ne sei accorto, ma spero di no), offre il destro per mettere sullo stesso piano Repubblica ed il TG di Minzolini. Il che mi sembra francamente inaccettabile.

Paolo Raponi (5 ottobre 2009, alle 05:23)

Sono contributi come questo, e lo direi anche se lei avesse sostenuto gli argomenti opposti purchè argomentati e meditati, (inviateli, per favore, invece delle idiozie da gabinetto delle scuole medie) che giustificano l’esistenza di un blog aperto a tutti, e non rinchiuso nel narcisismo solipsista di tanti che esistono soltanto per permettere al titolare di specchiarsi nella propria vanità e infallibilità. (Vittorio Zucconi)

Dizionario filosofico - Lettera A

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AMICIZIA

E' un tacito contratto fra due persone sensibili e virtuose. Dico sensibili, perchè un monaco, un solitario può non essere malvagio e vivere senza conoscere l'amicizia. Dico virtuose, perchè i malvagi hanno soltanto dei complici; i gaudenti, compagni di baldoria; le persone interessate, dei soci; i politici raccolgono attorno a sè dei partigiani; il volgo degli sfaccendati ha delle relazioni; i principi, dei cortigiani; solo gli uomini virtuosi hanno amici. Cetego era complice di Catilina, e Mecenate cortigiano di Ottavio; ma Cicerone era amico di Attico.

Che cosa comporta questo contratto fra due anime oneste e sensibili? Le obbligazioni sono più o meno forti o deboli, secondo il grado di sensibilità dei contraenti, il numero dei servizi resi, ecc.

APOCALISSE

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Ogni confessione cristiana si è attribuita le profezie contenute in questo libro: gli Inglesi vi hanno trovato le rivoluzioni della Gran Bretagna; i luterani, i disordini di Germania; i riformati di Francia, il regno di Carlo IX e la reggenza di Caterina de' Medici; e tutti hanno egualmente ragione. Bousset e Newton hanno entrambi commentato l'Apocalisse. Ma, tutto sommato, le eloquenti declamazioni dell'uno e le sublimi scoperte dell'altro hanno fatto loro più onore che non quei commentari.

ARIO

Ecco una questione incomprensibile, che ha tenuto in esercizio per più di sedici secoli la curiosità, la sottigliezza sofistica, l'acredine, lo spirito di intrigo, la bramosia del potere, il furore di persecuzione, il fanatismo cieco e sanguinario, la barbara credulità, e che ha provocato più orrori che non l'ambizione dei principi, la quale ne ha pur provocati moltissimi: Gesù è il Verbo? E se è il Verbo, è emanato da Dio nel tempo o prima del tempo? E se è emenato da Dio è coeterno e consustanziale con lui, o è di una sostanza simile? E' distinto da lui o non lo è? E' creato o generato? Può generare a sua volta? Ha la paternità o la virtù produttiva senza paternità? E lo Spirito Santo, è creato o generato o prodotto o procedente dal Padre o procedente dal Figlio o procedente da entrambi? Può generare, può produrre? E la sua ipostasi è consustanziale con l'ipostasi del Padre e del Figlio? E in qual modo, avendo precisamente la stessa natura e la medesima essenza del Padre e del Figlio, può non fare le stesse cose di quelle due persone, che sono lui stesso?

Io non ci capisco assolutamente niente; nessuno ci ha mai capito niente, ed è questa la ragione per cui ci si è scannati.

Si sofisticava, si disquisiva, ci si odiava, ci si scomunicava fra cristiani per alcuni di questi dogmi inaccessibili allo spirito umano, prima dei tempi di Ario e di Atanasio. I Greci d'Egitto erano gente assai abile, capace di spaccare un capello in quattro; ma questa volta lo spaccarono soltanto in tre. Alessandro, vescovo di Alessandria, ritenne di dover predicare che poichè Dio è necesariamente individuale, semplice, una monade in tutto il rigore della parola, questa monade è trina.

Il prete Arios, o Arious, che noi chiamiamo Ario, fu tutto scandalizzato dalla monade di Alessandro; egli spiega la cosa in modo diverso; disquisisce in parte come il prete Sabellio, che aveva disquisito come il frigio Praxea, grande disquisitore. Alessandro raccoglie in fretta un piccolo concilio di gente della sua opinione, e scomunica il prete Ario. Eusebio, vescovo di Nicodemia, prende il partito di Ario, ed ecco tutta la chiesa in fiamme.

L'imperatore Costantino era uno scellerato, lo ammetto, un parricida che aveva soffocato sua moglie in un bagno, scannato un figlio, assassinato il suocero, un cognato e un nipote, non lo nego; un uomo gonfio d'orgoglio e immerso nei piaceri, lo concedo; un detestabile tiranno, come i suoi figli, transeat; ma era un uomo di buon senso. Non si arriva all'impero, non si sottomettono tutti i propri rivali senza saper ragionare.

Quando vide la guerra civile accesa da quei cervelli scolastici, mandò il celebre vescovo Osio con lettere esortative alle due parti belligeranti: - Siete pazzi - dice loro espressamente nella sua lettera - a litigare per cose che non capite. E' indegno della gravità dei vostri ministeri fare tanto rumore per una questione tanto piccola.

Per questione tanto piccola, Costantino non intendeva quello che riguarda la Divinità, bensì il modo incomprensibile con cui ci si sforzava di spiegare la natura della Divinità. Il patriarca arabo che ha scritto la Storia della Chiesa d'Alessandria mette queste parole in bocca a Osio, quando presentò la lettera dell'imperatore:

- Fratelli, il cristianesimo comincia appena a poter vivere in pace, e voi volete precipitarlo in un'eterna discordia. L'imperatore ha fin troppa ragione di dire che voi litigate per una questione tanto piccola. Certamente, se l'argomento della disputa fosse essenziale, Gesù Cristo, che noi tutti riconosciamo per nostro legislatore, ne avrebbe parlato: Dio non avrebbe mandato il proprio figlio sulla terra per lasciarci all'oscuro sul nostro catechismo. Tutto ciò che non ha detto espressamente è opera degli uomini, i quali son sempre esposti all'errore. Gesù vi ha ordinato di amarvi, e voi cominciate col disobbedirgli odiandovi e suscitando la discordia nell'Impero. Soltanto l'orgoglio alimenta le dispute, e Gesù vostro padrone, vi ha ordinati di essere umili. Nessuno di voi può sapere se Gesù fu creato o generato. E che cosa vi importa della sua natura, purchè la vostra sia di essere giusti e ragionevoli? Che cosa ha di comune una vana scienza di parole, coi principi morali che debbono condurre le vostre azioni? Voi caricate la dottrina di misteri: voi che siete stati creati per confermare la religione con la virtù. Volete forse che la religione cristiana sia solo un cumulo di sofismi? E' forse per questo che Gesù è venuto sulla terra? Cessate di disputare: adorate, edificate, umiliatevi, nutrite i poveri, portate la pace nelle famiglie, invece di scandalizzare tutto l'Impero con le vostre discordie.

Osio parlava a gente ostinata. Si riunì il concilio di Nicea, e ci fu una guerra civile di trecento anni nell'Impero romano. Quella guerra ne provocò altre, e di secolo in secolo ci si è perseguitati a vicenda fino ai giorni nostri.

ATEISMO

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Sembra dunque che Bayle avrebbe dovuto piuttosto esaminare che cosa sia più pericoloso: il fanatismo o l'ateismo. Il fanatismo è certamente mille volte più funesto; perchè l'ateismo non ispira passioni sanguinarie, ma il fanatismo ne ispira; l'ateismo non serve da freno ai delitti, ma il fanatismo spinge a commetterli. Supponiamo, con l'autore del Commentarium rerum Gallicarum, che il cancelliere de L'Hospital fosse ateo: egli ha fatto soltanto sagge leggi, ha consigliato solo moderazione e concordia; i fanatici commisero invece i massacri della notte di San Bartolometo. Hobbes passò per ateo, e condusse una vita tranquilla e costumata; i fanatici del suo tempo inondarono di sangue l'Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Spinoza non solamente era ateo, ma insengò l'ateismo: non fu certo lui a prendere parte all'assassinio giuridico di Barneveldt, e non fu certo lui a mettere a pezzi i due fratelli De Witt, e a mangiarli alla griglia.

da "Dizionario filosofico" di Voltaire

Ipotesi

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ANIMA
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Uno dice che l'anima dell'uomo è parte della sostanza di Dio stesso; un altro, che essa è parte del gran tutto; un terzo, che essa è creata ab aeterno; un quarto, che è fatta ma increata; altri assicurano che Dio forma le anime man mano che ce n'è bisogno, e che esse arrivano nel momento della copulazione: - Prendono dimora negli animalucoli seminali, - grida l'uno. - No, - dice un altro, - esse vanno ad abitare nelle trombe di Falloppio. - Avete tutti torto! - interviene un terzo - l'anima attende sei settimane che il feto sia formato, e allora prende possesso della ghiandola pineale; ma se trova un falso feto, se ne torna indietro, aspettando una migliore occasione -. L'ultima opinione è che la dimora dell'anima sia nel corpo calloso: tale è il posto che le assegna La Peyronie; bisognava essere primo chirurgo del re di Francia per disporre così dell'alloggiamento dell'animo. Però quel corpo calloso non ha avuto la stessa fortuna di quel chirurgo.
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da "Dizionario filosofico" di Voltaire