venerdì 26 febbraio 2010

I malati immaginari

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Boom di falsi invalidi - Le truffe che ci costano oltre un miliardo l'anno
di Paolo Griseri ed Emanuele Lauria - da "La Repubblica" del 23/02/2010

Le ultime scene della commedia le hanno girate i carabinieri di Napoli immortalando in un video un cieco che parcheggia l' auto e un altro in fila alle poste mentre legge il giornale. Le hanno scritte i magistrati di Siracusa, raccontando nei verbali la storia dell' assessore comunale che prometteva pensioni in cambio di voti e dettava ai medici compiacenti le percentuali di handicap da assegnare: 74, 74, 100. «Erano solo pronostici», si è difeso il "profeta" di fronte alle intercettazioni che lo incastravano.

Il film dei furbi, i pm di Palermo l' hanno invece ambientato fra i palazzoni dello Zen 2 progettati da Gregotti. In ogni condominio almeno un falso invalido: in via Rocky Marciano ne hanno scovati quindici. Lì vicino, in via Agesia di Siracusa, nove.

Il Paese degli assegni di assistenza facili è raccontato da storie rocambolesche che fanno da sfondo alle inchieste giudiziarie e da numeri impressionanti che emergono dalle indagini dell' Inps. Appena si è mosso, l' anno scorso, l' istituto ha constatato subito la dimensione del fenomeno. Ecco l' esito delle prime verifiche: sul campione di 200 mila pratiche controllate poco più del 10 per cento, 22.000, sono state cancellate. Erano intestate a gente in buona salute. Altre 20 mila sono in attesa di esame e definite a rischio. Per il 2010 sono stati disposti centomila nuovi controlli straordinari, restringendo il campo solo ai casi più sospetti: assistiti in giovane età o affetti da patologie dalle quali solitamente si guarisce. Ma c' è una montagna da scalare. Quanti sono davvero oggi i falsi invalidi in Italia? E quanto pesano sui bilanci dello Stato?

UN MILIARDO IN FUMO L' Inps si muove in quella che il presidente, Antonio Mastrapasqua, definisce «una terra sconosciuta». Dove, racconta, «stanno insieme il malato di Sla e chi ha un dolore al gomito».

L' unica certezza è la costante crescita della spesa annua per l' assistenza agli invalidi civili: dai 13,5 miliardi di euro del 2006 ai 16,6 previsti nel 2010. E il numero, anch' esso in aumento, degli assistiti: oggi sono 2 milioni 741 mila. Se si applicasse la percentuale di pratiche irregolari emerse sinora al numero complessivo delle prestazioni, saremmo di fronte a quasi 12 mila nuovi falsi invalidi nell' anno appena iniziato. Riempirebbero 256 autobus e infoltirebbero una colonna che trasporta già altri 300 mila colleghi.

Ma l' Inps invoca cautela, sottolineando le peculiarità del campione, che escludeva alcune fasce di invalidità ritenute certe. L' istituto vuole voltare pagina, con una riforma che accorcia l' iter burocratico per ottenere i contributi e assegna all' istituto un maggiore controllo sulle procedure.

«La cosa più importante adesso non è la ricerca dei falsi invalidi, ma evitare di laurearne di nuovi», dice Mastrapasqua.

Per non far crescere la cifra innominabile delle risorse pubbliche sperperate: «Sicuramente alcune centinaia di milioni di euro», afferma, prudente, il presidente dell' Inps. In realtà un miliardo, se non di più. Eccola, la voragine nei conti dello Stato. Come si è prodotta? A chi conviene far muovere questo ingranaggio?

LE FABBRICHE DEGLI INVALIDI Nel Paese degli scaltri, quella dei malati virtuali è una macchina che produce favori per molti: non solo per i beneficiati diretti ma anche per politici, criminali e qualche associazione ufficialmente dedita alla carità pubblica. La catena di montaggio delle false pratiche è alimentata da soldi o voti. C' è solitamente un collettore delle domande (lo "spicciafaccende") e un utilizzatore finale, il falso invalido.

«Una pratica può costare fino a 6 mila euro», racconta il pentito Alessandro Galante al pm palermitano Sergio Demontis.

Il meccanismo è semplice: i procacciatori di assegni illegittimi si dividono i soldi degli arretrati, il credito accumulato dall' assistito dal momento della domanda a quello del riconoscimento dell' invalidità. Il falso invalido incasserà nel futuro, il boss si porta a casa la somma maturata nel passato. Ma nella catena ci devono essere complici a ogni passaggio. Ad aiutare i furbi una vera e propria giungla di organismi che, fino al 31 dicembre scorso, concorrevano alla decisione finale. Dodici passaggi, quasi una via crucis. Fino a poche settimane fa la trafila era infinita: domanda all' Asl, visita medica, trasmissione del verbale all' Inps, verifica della commissione periferica del ministero del tesoro (in alcune regioni), esame del verbale da parte dell' Inps. A questo punto, a seconda del giudizio dell' istituto di previdenza, ulteriori accertamenti oppure trasmissione del verbale all' Asl e quindi il via libera dell' ente concessore. Che in Campania, ovvero nella regione meridionale con il maggior numero di assistiti, era fino a un mese fa il Comune o la Provincia: «Non esattamente una garanzia di resistenza alle pressioni», fa notare il presidente dell' Inps Mastrapasqua.

Un iter estenuante: 345 giorni la media italiana, quasi due anni in Sicilia. Dove, stando alle statistiche, su dieci malati di tumore, sette muoiono prima di ricevere l' assegno: i falsi invalidi tagliano la strada a chi ha davvero bisogno.

A ogni stazione della via crucis è in agguato la truffa. La mancanza di controlli incrociati fra i vari organismi e l' assenza di un numero di protocollo unico per ogni singola pratica ha favorito l' illegalità.

Numerosi i casi in cui le commissioni mediche sono state allegramente saltate con un verbale falso e un timbro fai da te.

Ma il punto più pericoloso del viaggio è proprio il passaggio dalle commissioni mediche: a Siracusa l' ex assessore Francesco Zappalà, presidente della locale sezione dell' Anmic (Associazione nazionale invalidi e mutilati civili), si appoggiava, stando alle accuse, a un medico compiacente provvidenzialmente inserito nel gruppo di coloro che esaminavano le domande. Quel medico, a sua volta, era la punta di un iceberg di favori e connivenze. Ma come funzionano questi organismi che decidono chi è meritevole di un sostegno economico e chi no?

LO ZAMPINO DELLA POLITICA Le commissioni di verifica delle invalidità vengono pagate a cottimo: 7 euro a pratica per ognuno dei 4 medici, tre dei quali nominati dal direttore generale dell' Asl, a sua volta scelto dai politici. In certi casi, nelle regioni del Sud, le commissioni arrivano a smaltire 40 pratiche a seduta. Un' attività redditizia, che a un camice bianco può assicurare 280 euro in un pomeriggio. Un' attività alla quale guarda con attenzione chi cerca rendite elettorali.

Luciano, nome di comodo, ha fatto parte per vent' anni delle commissioni mediche palermitane. E racconta: «Questo settore è una miniera di voti: produce almeno un deputato l' anno».

Le associazioni che rappresentano gli invalidi hanno un membro di diritto nelle commissioni di invalidità. E ora sono nel mirino. A Siracusa il caso Zappalà. A Palermo il rappresentante dell' Anmic è stato fino a poco tempo fa Antonino Rizzotto, un ex deputato regionale dell' Mpa (poi transitato nel Pdl) che alle elezioni del 2006 fece il "botto": 8.150 voti che gli valsero pure la guida della commissione Sanità dell' Assemblea regionale siciliana. Ora Rizzotto ha lasciato posto, nell' associazione, alla sorella: una vocazione di famiglia.

Il presidente dell' Unione ciechi, a Palermo, è un consigliere comunale della potente Udc di Cuffaro: si chiama Luigi Di Franco e alle Comunali del 2007 prese 1.477 voti.

Quella degli invalidi, insomma, al Sud è una storia che si intreccia strettamente con la politica. A Napoli il demiurgo dei finti ciechi sarebbe Salvatore Alaio, titolare di un patronato e consigliere della municipalità di Chiaia, 1.912 preferenze nella lista di Forza Italia, arrestato con moglie e genitori. La truffa è stata denunciata da Fabio Chiosi, presidente della municipalità e suo collega di partito.

In Sicilia, a ogni elezione, sono tanti i medici delle commissioni di invalidità che finiscono in lista: al punto che, tranne le emergenze, l' attività delle commissioni viene sospesa in periodo elettorale. Succede anche questo, nella terra delle invalidità facili. Ma quanto vale il riconoscimento di un handicap?

I "BENEFIT" L' assegno di assistenza di 255 euro scatta solo con una percentuale di invalidità dal 74 per cento in su. Il proliferare di finti pazzi - a Napoli, ma anche a Palermo - è legato proprio al raggiungimento di questo tetto. «A una persona affetta da gastroduodenite basta riconoscere una depressione per aumentare la percentuale e far varcare la soglia per la pensione», spiega chi indaga nel capoluogo campano: mens insana in corpore insano.

Con il cento per cento scatta anche l' assegno di accompagnamento di 472 euro, che non è vincolato all' età e al reddito dell' assistito. E poi c' è la legge 104, che dà diritto a tre giorni di assenza dal lavoro ogni mese.

C' è la possibilità di non pagare il biglietto su bus, tram e metropolitane, l' esenzione dal pagamento del bollo auto, lo scontro sull' acquisto delle vetture e sulle polizze assicurative. Fino al mitico pass H, che garantisce di parcheggiare liberamente e viaggiare nelle corsie preferenziali nei centri storici di tutta Italia.

Benefici sacrosanti, per gli invalidi veri. Ma non pochi ne hanno abusato: a Cortina d' Ampezzo i vigili hanno trovato falsi permessi all' interno di auto lasciate a ridosso delle piste da sci ed è scattata un' inchiesta della Procura. A Palermo si indaga su un giro di pass rilasciati con troppa facilità o addirittura oggetto di un mercato clandestino. Ma dove sorgono, in Italia, i regni dei falsi invalidi?

UN PAESE A DUE VELOCITÀ Non è una mappa uniforme, quella dell' invalidità civile. In Trentino, nel 2009, è stata concessa una nuova pensione. Una sola. Ma chi pensa che da Roma in su il fenomeno non esista deve ricredersi: la regione con il maggior numero di assegni per abitante (5,48) è l' Umbria. E, in valori assoluti, la Lombardia batte tutti: quasi 269 mila invalidi, con una spesa di un milione di euro l' anno per garantire i compensi dei medici delle commissioni di invalidità. Ma due terzi dei sussidi erogati continuano a raggiungere assistiti del Centro-sud, dove gli assegni rilasciati dall' Inps diventano un sostegno sociale. E dove l' abuso ha disegnato una realtà a macchia di leopardo. Città, paesi, quartieri popolati da malati dalle cartelle mediche sospette.

A Napoli, lungo l' interminabile vicolo del Pallonetto di Santa Lucia, dal Chiatamone a Monte di pietà, rumoreggiano i parenti dei sessanta finti ciechi finiti in carcere con l' accusa di falso. E ora si indaga su trecento falsi matti dello stesso rione.

Ogni giorno, racconta Antonio Barra, presidente della commissione medica di zona, è una continua lotta con pazienti «che fanno scena muta, si gettano per terra o minacciano di darsi fuoco per farsi assegnare l' invalidità per problemi mentali».

A Palermo è ancora in corso il maxi-processo a mille falsi invalidi: una miriade di procedimenti davanti al giudice monocratico, condanne per sei mesi e restituzione degli arretrati. Il volume di affari fatto con le tangenti, per i registi del raggiro, è stato di sei milioni di euro.

Ci sono gli invalidi dello Zen e quelli del Comune di Misilmeri, un centinaio. Interi nuclei familiari alle prese con affezioni tutte uguali: demenza senile per i più anziani, forme di epilessia per i giovani. Uno dei protagonisti della truffa, Antonino Cusimano, invalido anche lui, ha confessato di aver fatto avere la pensione - fra gli altri - alla sorella, alla figlia e a tre cognate. A Carlentini, nel Siracusano, gli abitanti alla ricerca di un assegno si rivolgevano al dottor Massimo Gramillano, medico con la passione per la politica e guaritore al contrario: aiutava i compaesani a diventare invalidi. E domandava in cambio voti, per sé e per conto di Zappalà. Alla signora Giovanna ne ha chiesti quattro, uno per ogni componente della famiglia. Lei ci è rimasta male, anche perché pure il marito era candidato. Così, complice un' intercettazione telefonica, la donna ha raccontato tutto ai magistrati. Ed ha preso corpo l' inchiesta: ma il reato di voto di scambio si prescrive in due anni e tutto rischia di finire a tarallucci e vino.

A Taranto, dove c' è un invalido ogni due famiglie, la commissione di verifica dell' Inps ha rilevato cartelle mediche di sedicenti malati di mente che da soli conducono aziende. E a Enna i medici incaricati di rivedere le invalidità concesse hanno scoperto malattie accertate nel 1980 e mai più verificate. Chi, per fortuna, è guarito, continua ad essere malato. Almeno per lo Stato.

sabato 20 febbraio 2010

Dalla memoria al flusso

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Italia in posa, è il vintage di famiglia
di Michele Smargiassi - da "La Repubblica" del 14/02/2010

Ma dove sono le nevi d' un tempo? Tutte nel cassetto del comò. Anche il sole d' un tempo è lì. Che a sfogliarli, quegli album dei genitori e dei nonni, vien da dire ma allora è vero, una volta nevicava di più, una volta il sole brillava di più, invece no, è solo una deformazione proustiana della memoria, è una meteorologia fotograficamente alterata, perché «ragazzi nevica, andiamo fuori a farci una foto!», e anche «guarda che bel sole, andiamo a fare un giro, prendi la macchina fotografica», mentre con le piogge uggiose e le nebbie, salvo che uno voglia fare l' artista, l' Instamatic di papà restava a dormire nell' armadio e noi in casa a farei compiti, mica ci si fa la foto quando si fanno i compiti.

E questo ti fa pensare che quell' album che hai nel comò non gioca solo col sole e con la neve, gioca con i tuoi ricordi, con l' idea che hai del tuo passato, te li cambia senza che tu te ne accorga.

E quando tiriamo fuori le scatole da scarpe piene di rettangoli di carta lucida, ecco, ci accorgiamo che lì è rimasta solo una vita luminosa e candida, che è poi la nostra come vorremmo che fosse stata, come ci lasciamo illudere che sia stata.

Il fascino delle vecchie foto, dei vecchi filmini è tutto qui. Non so se i colleghi di Repubblica.it se l' aspettavano, che un semplice invito a spedirci le scansioni di quei piccoli grandi tesori emotivi avrebbe scatenato una pioggia di migliaia d' immagini. In fondo sono cose privatissime, perché farle vedere a tutti?

Non è tanto una questione di pudore, voglio dire, non c' è mai nulla di sconveniente negli album di famiglia, la nudità è bandita (tranne i neonati e qualche morigerato bikini), le funzioni corporali non ne parliamo nemmeno, perfino le lacrime non vi hanno cittadinanza, niente lutti niente litigi, c' è il gesso alla gamba ma non l' ambulanza che corre all' ospedale, c' è la guarigione ma non la malattia; tutto dev' essere conforme alla banalità del bene, prevedibile e scontato, se c' è qualche foto "bella" è un' estetica casuale e involontaria; no, diciamolo pure, è che le foto di famiglia sono una noia mortale per chi non è della famiglia, ma a chi volete che interessi mamma Mariuccia di Cernusco, con tutto il rispetto, che rimesta il soffritto in cucina, o Bruno di Marina di Massa vestito da Zorro per un carnevale anni Sessanta?

A nessuno, ma non è questo il punto. Queste foto non devono mostrare, e neppure comunicare: devono semplicemente essere. Foto-talismani, alter-ego mistici: l' astronauta Charlie Duke della missione Apollo 16 lasciò sulla Luna una Polaroid di se stesso con moglie e figli, offerta allo sguardo di nessuno e insieme di tutto l' universo.

La curiosità per il "come eravamo." non spiega la malìa di queste immagini. Perché, d' un tratto, le foto private possono fuggire dall' edicola domestica dei lari e dei penati e finire sull' impudica bacheca di Internet? Perché d' improvviso s' è creata, tra noie loro, una distanza, per non dire un' estraneità.

Le immagini di casa, fino a ieri una presenza scontata come i bicchieri nella credenza, hanno improvvisamente preso un aspetto straordinario, fascinoso ma alieno, come reperti archeologici di una civiltà remota i cui riti di autorappresentazione hanno un senso che ormai sfugge. Ed è questo che sono. Perché li vediamo, appunto, dall' osservatorio di un' altra civiltà dell' immagine autogenica, che con l' era della foto di famiglia ormai non c' entra più nulla. La rivoluzione è andata così veloce e liscia che neppure ci ricordiamo più com' era prima.

L' ubiquità delle fototrappole built-in nei nostri cellulari, che viaggiano sempre con noi pronte ad acchiappare qualunque cosa, ha cacciato il ricordo della fotocamera nella custodia di cuoio con la tracolla, autentico moschetto della battaglia del benessere, usato con selettiva parsimonia; del rito della posa sulle vette dei consumi conquistati, la spiaggia, il monumento; del dito paterno teso sul bottone di scatto, poi quel rumore come di un piccolo bacio che suggella la felicità familiare da tesaurizzare.

Con le foto si edificava la precaria identità di quel nuovo oggetto sociale che era la famiglia mononucleare. In foto si faceva l' inventario degli obiettivi raggiunti, delle pietre miliari superate (battesimi compleanni nozze), dei beni acquisiti, mescolando tutto (la foto del figlio neonato sul cofano della Seicento) nell' impasto organico di una vita che voleva vedersi appagata. Erano immagini pianificate e pienificate, gonfie di senso; non erano riflesso ma costruzione attiva dell' unità familiare.

Un preciso "lavoro di autostima" incluso prepotentemente tra i doveri di cura reciproca del nucleo familiare, assegnato secondo una rigorosa divisione dei compiti: papà scatta, mamma archivia, i figli ammirano e imparano. L' accesso a quelli che già nell' Ottocento l' antropologo Paolo Mantegazza definiva «archivi santi della famiglia» costituiva un rito d' inclusione: al fidanzato "presentato in casa" si apriva l' album, «guarda Cristina da piccola». Il consumo delle immagini era una glassa di parole (nessuna foto familiare si consuma in silenzio) che amalgamava i fotogrammi in una narrazione, senza la quale qualsiasi immagine di famiglia è penosamente muta e orfana. Per qualcuno non erano abbastanza narrative, le immagini fisse.

La suggestione del cinema sollecitava altre costruzioni dell' immagine familiare. Erano quasi tutti fotoamatori evoluti i papà che affiancarono la fotocamera con la cinepresa otto millimetri. A Bologna c' è un' istituzione provvidenziale e intelligente, Home Movies, che salverà quei nastri di celluloide da morte certa: perché gli album si possono ancora sfogliare, ma le micropizze bucherellate richiedono un interfaccia tecnologico (il proiettore) obsoleto, se è rotto nessuno lo ripara e così d' improvviso i filmini vivi e palpitanti diventano inerti pezzi di plastica che vien la tentazione di gettare. Grazie a Paolo Simoni e ai suoi collaboratori cinquemila ore sono già salve, «le famiglie ce li donano volentieri, le ripaghiamo con un dvd e la certezza che gli originali sono al sicuro».

Sul monitor del Mac quelle sequenze sobbalzanti fanno un curioso effetto: ecco il Natale in casa Calanchi coi panettoni bipartisan (Motta e Alemagna) sotto l' albero, ecco l' interminabile sequenza di bimbi sullo scivolo in spiaggia a Riccione, ecco la gita inaugurale della Millecento.

Drogati dai prodigi spettacolari di Avatar abbiamo dimenticato che i Lumière pensavano che fosse soprattutto domestica la vocazione del cinema, infatti nei loro incunaboli, oltre al celebre arrivo del treno, proposero anche la pappa del neonato. Questa economia delle immagini è bruscamente finita con l' irruzione digitale.

E non perché sia cambiata l' essenza tecnica della fotografia: non è certo il passaggio dai sali d' argento ai pixel a fare la differenza, in un universo semantico dove non conta l' aspetto materiale dell' immagine ma unicamente la sua capacità evocativa. È cambiato in modo drastico lo scopo a cui le nuove immagini sono tenute a rispondere. Gli orridi librettini di polietilene a tasche, penoso decadimento degli album d' antan, sollecitavano comunque ancora il ripescaggio periodico dal cassetto.

La libertà del digitale che oggi consente di scattare quante foto vuoi senza spendere un centesimo in più riempie gli hard-disk di archivi smisurati, impossibili da maneggiare, che vengono guardati una sola volta e poi più. La quantità di memoria disponibile vanifica il concetto stesso di archivio della memoria. Del resto, la memoria è una funzione sociale sempre meno richiesta. Le immagini digitali prendono quindi un' altra strada, quella della Rete, dove il loro destino è un altro. I social network sono pieni di foto private raccolte in cartelle che si chiamano ancora "album", ma cosa sono davvero? Non costruzione di identità permanenti, ma presentazioni dinamiche del proprio sé momentaneo; non conservazione ma ostentazione.

La famiglia vi appare ancora, ma ridotta ad accessorio di un eroe eponimo, solo in scena. In Rete, la fotografia familiare diventa celibe.

Gli album di Facebook sono monologhi di egotismo che non hanno memoria e non la amano. In quegli "album" le foto cambiano di continuo, secondo i nostri bisogni di auto-presentazione. Da deposito a flusso, da accumulazione a consumo, l' orizzonte della fotografia privata è capovolto.

Per questo, d' un tratto, quei polverosi depositi di significato nascosti nei cassetti hanno mutato statuto: non sono più roba vecchia, ma antica. Non ci coinvolgono più come protagonisti ma come spettatori.

Acquistano quell' aura che Walter Benjamin negava alle immagini tecnicamente riproducibili (ma dove, riproducibili? La stragrande maggioranza delle fotografie familiari esiste in copia unica). Attestano l' esistenza di un luogo che ci attira e ci turba: il passato, là dove i nostri genitori sono nostri coetanei o coetanei dei nostri figli. Questo ritorno del trapassato (la famiglia circense Togni, grande produttrice di film familiari, rivedeva i propri archivi ogni anno il 2 novembre, giorno dei defunti) ora ci attira e ci spaventa, perchéè contro natura, è il perturbante per eccellenza. Non ci siamo più abituati. I fotofonini non ci regalano altro che un presente duplicato e ripiegato su se stesso, e queste fotografie di felicità trascorse ci ghermiscono, ci tirano indietro, fascinose e inquietanti.

Allora non c' è che un modo per esorcizzarle: offrirle in dono, pegno e sacrificio sull' altare della presentificazione istantanea: la Rete. Le migliaia di foto della nostra galleria vintage, a nostra insaputa, sono un rito di purificazione collettiva, molto meno spensierato di quel che appare.

La legalità delle tottò

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Dai mariuoli ai birbantelli
di Filippo Ceccarelli - da "La Repubblica" del 20/02/2010

Nella scala Mercalli del lessico berlusconiano il termine "birbantelli", che il premier ha usato per qualificare i protagonisti del malaffare uscito fuori in questi giorni, si colloca appena un gradino sopra "birichino".

Birbantelli sarebbero, per intendersi, questi individui che a tal punto smaniano per i quattrini da fregarsi le mani durante le scosse di terremoto, e si agitano, brigano, impicciano, volteggiano sulle disgrazie altrui, instancabili come sono, e corrompono funzionari dello Stato e ingaggiano prostitute, e ridacchiano delle loro prestazioni e insomma: "gli sciacalli", per taluni, o "la cricca", per altri, o tutte due le parole insieme, che non saranno carine, però, insomma, considerati i morti, il dolore, la crisi, la miseria, gli sprechi...

E invece ecco che Berlusconi se ne esce addirittura con un vezzeggiativo, birbantelli, e sembra quasi di vederlo sorridere mentre fa il gesto delle tottò con la mano, ah, birbantelli, ahi-ahi! Trattasi di epiteto scherzoso e benevolo, il Devoto-Oli (Le Monnier) conferma la regressione all'infanzia, "ragazzacci" suonerebbe già più serio, siamo vicini a "monelli", l'indulgenza è un lampo che rischiara il messaggio, il premier è il più avveduto e operoso specialista di semantica applicata alla vita pubblica, e quando dice birbantelli sposta i reati del codice penale e l'immoralità più nera e cannibalesca in un mondo di favole, fumetti, cartoni animati, nomignoli per chattare ("Ho gli ormoni birichini e birbantelli") o scherzi da nonnetto allegro, cu-cù, cu-cù, bu-bu-set-tete!

Ma poi è anche vero che gli italiani, certo meno di un tempo, ma hanno sempre abbastanza paura di sentirsi fessi, per cui capiscono benissimo che il senso politico di quella parola è sdrammatizzare, ridimensionare, minimizzare e anche porsi al di sopra chiamandosi fuori da quelle schifezze lì.
E' il potere che durante le sue crisi possiede connaturato questo codice di riduzionismo e di estraneità funzionale. Andreotti era così bravo a sminuzzare i problemi da alleggerirne non solo la portata, ma anche l'intensità - almeno fino alla primavera del 1993, quando fu accusato di essere un mafioso e di aver fatto uccidere Pecorelli.
Molto meno bravo fu Bettino Craxi, il cui potere infatti durò circa un quarto del tempo andreottiano, ma qui la faccenda si fa delicata per il Cavaliere. Perché se c'è un precedente che può richiamarsi a proposito dei birbantelli, viene subito in mente il modo sbrigativo in cui il 3 marzo del 1992, per cavarsi fuori dai guai, il leader del garofano volle designare il presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, che tanto aveva fatto per il Psi a Milano, e anche per la sua corrente, e addirittura per il figlio che muoveva i primi passi in quella giungla di tessere e magheggi. Disse dunque il grande Craxi, rispondendo a una domanda dei telespettatori del Tg3, che Chiesa era "un mariuolo".

Non fu un'uscita felice, e forse basterebbe da sola a ridimensionare il clima di santificazione acritica che ha segnato il decennale della morte nel gennaio scorso. E non solo perché lo stesso Chiesa nel luglio del 1995 ebbe modo di dire con qualche motivo che all'accusa di essere un mariuolo "avrei potuto ribattere che allora lui era Alì Babà, il capo dei... settanta ladroni" (disse proprio 70, Chiesa, incespicando sulla contabilità de Le mille e una notte).

Ora, in uno sconsolato torneo d'indulgenza lessicale dinanzi alle ricorrenti ladrerie, birbantelli è parecchio più bonario di mariuolo, così come il modo in cui l'ha messa ieri il presidente Berlusconi appare molto più trullallà rispetto alla solenne intemerata sul "mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano, in cinquant'anni, non in cinque, ma in cinquant'anni - ribadì uno sdegnatissimo Craxi - non ha mai avuto un amministratore condannato per gravi reati contro la pubblica amministrazione".

Il punto è che da allora l'Italia non è che sia molto migliorata, anzi, e la regressione non è solo infantile, ma in qualche modo si avverte anche sul piano morale, civile e addirittura su quello del linguaggio e del costume, con le sue frivolezze terribilmente serie, con le sue novità capricciose che arrivano a far rimpiangere la cupa piattezza del brutto tempo che fu.

domenica 14 febbraio 2010

Scusate la contraddizione

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Quei telefoni tristi, se li intercetti li eviti
di Gabriele Romagnoli - da La Repubblica del 13/02/2010

Ma come parlano questi? Incrociano un "soggetto attuatore" e una "stellina del cazzo". Coniugano (malamente) il verbo "monitorare" («Tu monitorizza! Monitorizza il resto del mondo!») e (correttamente) quello "pigliarlo in culo".

Ci si consentano e scusino le espressioni (non nostre), ma questo non è francese, è "burocazzese", il linguaggio dei "ragazzacci della gelatina", gli untori di una corruzione spalmata come olio sul corpo, del reato. Poi si fa presto a dire che sono gli occhi e non la lingua lo specchio dell' anima, ma come ti esprimi in fondo sei.

Le parole vengono da una storia, segnalano scelte e scarti, percorsi e definitive affinità.

Aldo Moro estrasse le "convergenze parallele" da un sofferto universo che cercava di trasformare l' inconcludenza politica in logica matematica, elevandola all' insolubilità parafilosofica del quinto postulato di Euclide.

Diego Anemone che "bacia sul culo" ma "recepisce il discorso" è invece il prodotto lessicale di un ambiente costretto nel tecnicismo dei bandi d' appalto che si libera grevemente più che gioiosamente in una parolaccia infantile quanto lo è "una cosa megagalattica".

Il suo e degli altri "gelatinosi" è un vocabolario scarno e ferale, che ogni tanto si arrampica sugli specchi e cerca la parola giusta ("quando mi inquadrate ?" "debbo collocare mio figlio") con l' effetto stridente che avrebbero avuto le evocate "stelline" qualora si fossero presentate nell' hotel tutto "marmi, dipinti e cazzi", evidentemente fuori posto quanto loro stessi e il loro frasario da Accademia della Cricca.

Di nuovo non si dica che nelle intercettazioni, nelle trascrizioni delle parole in libertà, uno suona peggio di quant' è. Moggi scrive più o meno come telefonava. Ricucci in diretta è com' era al cellulare. Ma almeno aveva il gusto della battuta e qualcuna gli riusciva pure.

Poi è arrivata la decadenza del linguaggio intercettato, in tre passaggi che l' hanno rivelato greve, tortuoso, eufemistico, allusivo.

La discesa nel greve fu sancita dal memorabile Sottile, soltanto di nome, che dialogando col suo compagno di merende parlava di una donna "compatta, tipo Smart" e appurato che era di origini abruzzesi tirava in ballo "cinghiali, sì per via anale". E giù risate.

Peggio ancora, per chi ascolta o legge, è il ricorso a terminologie da mattinale in questura, accrocchi da azzeccagarbugli di cui è esponente preclaro il "soggetto attuatore" nominato dal gelatinoso Della Giovampaola, probabilmente cognato del "soggetto attenzionato" scaturito dalla velina al veleno sull' ex direttore di "Avvenire", Dino Boffo.

I ragazzacci si perdono in giri di parole per non far trasparire quel che (come disse con soave perentorietà a proposito del caso Noemi l' onorevole D' Alema) "grosso modo s' è capito".

Nella fattispecie: vi siete intascati i soldi e adesso andate a godervela. Ma è il terzo livello quello che non si sopporta: l' allusione, l' eufemismo, il chiamare le cose per diverso nome o sminuirle per non portarne il peso. Qui la madre di tutte le espressioni è stata l' "utilizzatore finale" coniato dal geniale pandettista Niccolò Ghedini, autore del Nuovo Codice di diritto ad personam. Questi gli vanno dietro con le "situazioni" (manco fossero l' indimenticabile Toni Servillo in "L' uomo in più" quando, simil Califano, s' aggira in discoteca allupato domandando: "C' è situazione?"). Meglio allora la scoperta (poi ricoperta) schiettezza della "ripassata", meglio il linguaggio del sottosegretario Bertolaso (infatti a disagio quando gli suggeriscono l' allusione del "sopralluogo" mentre lui vuole una bella seduta di terapia come si deve).

Lui sì che dice le cose come stanno, con sprezzo del ridicolo: "Mando due ragazzi. Li intercetti te?". Comandi. Hanno eseguito eccome. E noi qui a rileggere, convincendoci che in questo Paese, scusate la contraddizione in termini, se li intercetti li eviti.

martedì 9 febbraio 2010

Una ratio non comune

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Aggravante della ‘clandestinità’
(art. 61 n. 11 bis c.p.)
Uguaglianza calpestata

di Gian Luigi Gatta

L’affinità con altre aggravanti comuni e, in particolare, con quella della ‘latitanza’ (art. 61 n. 6 c.p.)
Un (...) gruppo di interventi di esponenti del Governo e della maggioranza parlamentare ha (...) argomentato la legittimità costituzionale dell’aggravante della clandestinità cercando di mostrarne l’affinità con altre aggravanti comuni di carattere soggettivo, già contemplate nel catalogo dell’art. 61 c.p. e ritenute – almeno ad oggi – costituzionalmente legittime.

a) Un primo curioso accostamento riguarda l’aggravante dell’abuso di ospitalità (art. 61 n. 11 c.p.: “l’avere commesso il fatto […] con abuso di ospitalità”). Ha affermato il Sen. Mazzatorta (Lega Nord): “non solo le aggravanti legate a situazioni personali non sono una novità nel nostro ordinamento ma in un certo senso l’aggravante prevista dal decreto legge non fa che trasferire su un piano diverso la logica dell’aggravante prevista dal n. 11 dell’art. 61 del codice penale relativa ai reati commessi con abuso di ospitalità offerta dalle vittime”.
Il ‘clandestino’, secondo questa (pretesa) logica, sarebbe un ospite in casa d’altri (la ‘casa degli italiani’), che viola “il patto di ospitalità che lo Stato ha fatto con gli stranieri con la legge Bossi-Fini (entri regolarmente se hai un lavoro, una casa e non sei un onere eccessivo per le già esigue finanze statali e comunali)”.
L’accostamento con l’aggravante dell’abuso di ospitalità è però “insensato”: quell’aggravante dà rilievo a una situazione affatto diversa, ossia a ipotesi di particolarevulnerabilità del bene giuridico derivanti da una relazione interpersonale – quella diospitalità – che può facilitare la commissione del reato.
D’altra parte, il ‘clandestino’ che entra o permane illegalmente in Italia – senza il ‘consenso’ dello Stato – è ben lungi dall’essere una persona ospitata nel nostro Paese: sarebbe come dire che l’autore del delitto di violazione di domicilio è ospite del proprietario dell’abitazione nella quale si
introduce illegalmente
; e nessuno penserebbe di ritenere aggravato dall’abuso di ospitalità il furto commesso dall’intruso in quell’abitazione.

b) Più interessante è l’accostamento proposto, anche da parte di membri del Governo, tra l’aggravante della clandestinità e quella c.d. della latitanza (art. 61 n. 6 c.p.: “l’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato”).
Ha domandato retoricamente il Sottosegretario al Ministero dell’Interno Mantovano: “quale differenza c’è tra il sottrarsi alla carcerazione o all’espulsione?”.
A ben vedere – questa è la tesi – il clandestino non si comporterebbe poi così diversamente dal latitante: “in un caso come nell’altro non si rispetta un ordine dell’autorità (la carcerazione in un caso, l’ordine di espulsione nell’altro)”.
La ragion d’essere delle due aggravanti sarebbe in buona sostanza la
stessa, e risiederebbe – come ha riconosciuto la Cassazione a proposito dell’aggravante della latitanza, nel dichiarare infondata una questione di legittimità costituzionale di quell’aggravante per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 Cost. – “nel
diverso e più intenso grado di ribellione all’ordine costituito insito in colui che non si sottomette al potere coercitivo dello Stato sottraendosi ai provvedimenti restrittivi della libertà personale, e contemporaneamente commetta nuovi reati”. Emblematico in tal senso l’intervento del sen. Mazzatorta (Lega Nord): “il clandestino che entra nel territorio dello Stato, senza alcun rispetto delle procedure, delle norme d’ingresso e di soggiorno nel nostro Stato, violando il patto di ospitalità che lo Stato ha fatto con gli stranieri con la legge Bossi-Fini (entri regolarmente se hai un lavoro, una casa e non sei un onere eccessivo per le già esigue finanze statali e comunali), il clandestino che non rispetta le nostre frontiere, manifesta o no una ribellione al potere principale di uno Stato democratico, che è quello di far rispettare le proprie frontiere e quindi la sovranità dello Stato, il primo bene costituzionalmente rilevante? Ecco perché l’aggravante della clandestinità, ricollegandosi ad una condizione soggettiva di ribellione alle regole essenziali di uno Stato democratico, di ribellione alla sovranità dello Stato, è legittima dal punto di vista costituzionale”; “chi non rispetta le nostre frontiere, chi non rispetta le nostre regole d’ingresso e di soggiorno, chi, in virtù della sua condizione di clandestinità, mette a rischio la sicurezza pubblica, manifestando un forte grado di ribellione alle nostre regole, in caso di commissione di un reato deve avere un aggravamento di pena”.

A prima vista le aggravanti soggettive della clandestinità e della latitanza potrebbero apparire analoghe: danno entrambe rilievo a condizioni personali proprie del colpevole al momento della commissione del reato. Si tratta, tuttavia, di condizioni personali affatto diverse, che non possono essere poste sullo stesso piano senza violare il principio costituzionale di uguaglianza/ragionevolezza.

Il latitante ha la consapevolezza di essere ricercato in conseguenza della (effettiva o meno) commissione di un reato, e volontariamente si sottrae all’esecuzione di un provvedimento restrittivo della libertà personale, che sa essere stato emesso nei suoi confronti. Il ‘clandestino’ cui si riferisce l’art. 61 n. 11 bis c.p., invece, non è un soggetto in fuga da un provvedimento emesso nei suoi confronti, che lo ritiene responsabile di un reato. Il destinatario dell’aggravante ggetto di studio non è infatti colui che si sottrae a un provvedimento di espulsione che, a qualunque titolo, sa essere stato emesso nei suoi confronti: per come è formulato l’art. 61 n. 11-bis c.p. ‘clandestino’ non è lo straniero irregolare già espulso che si sottrae all’ordine, che sa essere stato emesso a suo carico, di allontanarsi dal territorio nazionale.
E’ invece lo straniero ivi illegittimamente presente, a prescindere dall’emissione, nei suoi confronti, di un provvedimento di espulsione. La maggioranza parlamentare non ha infatti approvato l’emendamento al testo dell’introducendo art. 61 n. 11 bis c.p., presentato dall’opposizione, che proponeva di configurare come aggravante la commissione del reato, da parte dello straniero irregolare, “nel periodo in cui si è sottratto volontariamente all’ordine di espulsione o di allontanamento”: un emendamento che avrebbe indubbiamente reso la nuova aggravante analoga a quella della ‘latitanza’.

Una volta respinto quell’emendamento, non ha però più senso (ed è fuorviante) domandare “quale differenza c’è tra il sottrarsi alla carcerazione o all’espulsione?”: viene meno ogni possibile accostamento tra le due aggravanti in discorso.

E’ un accostamento, d’altra parte, che non può essere argomentato nemmeno invocando un’analogia con la ratio dell’aggravante per i reati commessi dal latitante, che – come si legge nella Relazione del Guardasigilli Rocco al Progetto definitivo del codice penale – risiede nella “maggiore pericolosità” rivelata dal soggetto che non desiste dal delinquere neppure quando è sotto il peso di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di una condanna, cioè quando sa di essere braccato dall’Autorità giudiziaria.
Commettendo un reato mentre si trova in quello stato, il latitante – ha affermato la Cassazione – dimostra “in tal modo la sua pericolosità sociale sotto il […] profilo della insensibilità al freno della legge penale che non esita a continuare a violare, pur sapendo di essere colpito da un provvedimento di giustizia tendente a privarlo della sua liberta personale”. Così facendo il latitante mostra un grado di “ribellione” all’ordine costituito
“diverso e più intenso” di quello normalmente insito nella violazione volontaria di qualsiasi norma imperativa – comprese quelle che regolano l’ingresso e la permanenza
nello Stato degli stranieri – e, pertanto, ragionevolmente apprezzabile quale sintomatico di una maggiore pericolosità sociale e, conseguntemente, di un maggior bisogno di pena.

c) Nelle riflessioni di parte della dottrina e nelle ordinanze che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11 bis c.p.139 – non anche nei lavori parlamentari – è stato infine prospettato, per essere subito privato di fondamento, l’accostamento con l’aggravante della recidiva. Orbene, a noi pare che le aggravanti soggettive della ‘clandestinità’ e della recidiva non abbiano, almeno dal punto di vista strutturale, alcunché in comune: solo la recidiva si riferisce a chi commette un delitto non colposo dopo essere stato condannato con sentenza definitiva per un precedente delitto non colposo, rivelandosi così insensibile all’ammonimento della precedente condanna. Ed è questa insensibilità che può o – nell’ipotesi di recidiva obbligatoria introdotta dalla legge ex Cirielli nel comma 5 dell’art. 99 c.p., relativa ai gravi reati previsti dall’art. 407, co. 2 lett. a) c.p.p. – deve indurre il giudice a formulare un giudizio di accentuata capacità a delinquere, che giustifica l’aumento di pena per il recidivo.

Niente a che vedere con l’aggravante oggetto di studio, che accolla al ‘clandestino’ un aumento di pena per il solo fatto di aver commesso un reato mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale; senza richiedere, si badi, che quel reato sia stato commesso dopo l’intervento di un provvedimento amministrativo che abbia sanzionato (con l’espulsione) l’illegale ingresso o permanenza sul territorio nazionale o, se sarà introdotto il reato di immigrazione clandestina, dopo la pronuncia di una sentenza definitiva di condanna per quel reato.

L' educanda si scioglie e balla

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Tonino lo chiama, De Luca nell' arena - Con me o trionferanno i casalesi
da "La Repubblica" del 7/02/2010 - di Alessandra Longo

ROMA - Un colpo di teatro. Una trovata che, da sola, spiega quanto Antonio Di Pietro tenga in pugno la sua gente. Che cosa si fa dentro l' Italia dei Valori quando il nome di un candidato altrui non passa, magari perché rinviato a giudizio,e dunque destinato automaticamente, per una platea sin qui giustizialista, alla lista nera? Semplice: si prende la persona in questione, nel caso Vincenzo De Luca, scelto dal Pd per il dopo Bassolino, e la si porta nella fossa dei leoni. E i leoni si acchetano, come d' incanto, e addirittura cambiano idea.

Ed è così che, nel primo pomeriggio, appare all' Hotel Marriott di Roma, in pieno congresso Idv, il sindaco di Salerno.

«Visto che ti stiamo processando, vieni qui, vieni a fare delle dichiarazioni spontanee, convincici», gli aveva detto l' ex pm.

Una sorta di avviso di comparizione o, se volete, «un processo breve», come lo definisce Luigi De Magistris, l' unico che non gradisce affatto l' inedita convocazione e si guarda bene dall' essere in sala («Ma quando mai s' è vista una cosa del genere? Non siamo mica a "Porta a Porta"»).

De Luca entra a passo deciso, solo un po' nervoso. Farà dichiarazioni spontanee?, provoca un cronista. «Vaffanculo»,è la risposta, sia pur con il sorriso.

Per iniziare, applauso tiepido, già messo in conto.

Il candidato rinviato a giudizio guadagna il microfono e sa quel che deve dire ad un pubblico così:

«Primo: riconosco la piena autonomia della magistratura; secondo: accetto il controllo di legalità a 360 gradi, non si fugge dai processi, ci si difende; terzo: chi è condannato, va a casa».

Sì, questo «codice etico» piace proprio alla pancia Idv che comincia ad approvare con la testa, a sciogliersi. Piace l' idea dipietrista del «candidato con i paletti», psicologicamente dà l' idea di aver in mano la scelta, il sì o il no. De Luca la mette giù spessa. In sostanza, o con me o con i casalesi: «Voglio guardarvi negli occhi e dirvi che io sono un altro Sud, quello della legalità. Io sto con la povera gente, mentre c' è chi frequenta camorristi ed estorsori».

Bene, il linguaggio giusto. Tonino guarda i suoi e sa che l' ok alla candidatura è cosa fatta. Come resistere alle promesse del sindaco di Salerno? La Campania che diventa «una casa di vetro»; i consulenti inutili cacciati; quei viaggi, a spese della Regione, che tanto piacevano a Bassolino, eliminati; e persino la sanità sottratta ai finti primari che non «sanno distinguere un bisturi da un cavatappi».

Votatemi, votatemi, non vi deluderò. E il rinvio a giudizio per truffa e concussione? De Luca si ripete: «Sono finito in questa storia perché ho difeso 200 operai licenziati...». Basta. Il «processo breve» è finito, l' "imputato" ha convinto, può andare, acclamato dal popolo. Occorre votare? Ma no, è evidente la standing ovation, e ci sono i giornalisti che hanno visto tutto.

«Da soli non se fa' figli...», aveva detto Di Pietro in mattinata, già convinto di dover marciare con il Pd. Contento Pier Luigi Bersani, testimone a mezzogiorno, con Nicola La Torre e Rosa Calipari, dell' imminente "conversione" e contento, con loro, anche Bruno Tabacci (Api), sponsor della prima ora di De Luca.

La faccia scura è un' altra, è quella di Luigi De Magistris. Va giù duro: «Questo è un congresso, non un tribunale. Che cosa abbiamo istruito, il processo breve? De Luca non l' ho sentito, volutamente. Da imputato parla solo lui e senza contradditorio? E poi votano per acclamazione la sua versione? Andiamo, trovo tutto strumentale. Preferisco gli applausi tributati a Vendola. Il nuovo Sud può ripartire da Nichi, da me, e da altri dell' Idv, non dalle favolette che De Luca ha raccontato qui». Pesante, anche nel merito: «Bisogna leggere le carte, come ho fatto io. La vicenda che coinvolge il sindaco di Salerno è molto più complessa di quel che sembra, tocca la gestione dei fondi pubblici, le varianti urbanistiche, i suoli industriali che diventano turistici».

Che sia un motivo sufficiente di rottura con Di Pietro? Per carità. L' ex magistrato sta bene attento a sdrammatizzare: «Questa candidatura la considero un errore politico. Ma il leader è Di Pietro e abbiamo responsabilità diverse. Lui deve rispondere ad altre sollecitazioni».

Ormai è andata. L' Italia dei Valori ha messo i suoi paletti («Non potevamo accettare una candidatura "tu-cur"», dice Tonino il Capo) e tutti qui dentro, volenti o nolenti, devono abbozzare. Concesse, per alzata di mano, le attenuanti generiche, Vincenzo De Luca è da ieri il nome appoggiato ufficialmente dall' aula dipietrista.

Un porco, un delinquente

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Il caso Zapatero, oggi in drastica caduta di popolarità, ricorda una classica barzelletta che furoreggiava nell’Urss di Brezhnev.

Il segretario del Pcus visitava una scuola e chiedeva agli studenti opinioni sui suoi predecessori. Stalin? “Un porco, un deliquente”. Bravi.

Kruscev? “Un porco, un deliquente”. Ottimo.

E Breznev?, chiedeva sorridendo malizioso. “Un porco, un deliquente” rispondevano gli scolari. Come?!?!

Ci scusi, ci scusi, compagno segretario, balbettava la professoressa imbarazzatissima, ma sono tanto bravi che mi ero portata avanti col programma.

Consiglio disinteressato: mai innamorarsi di un leader politico, idealizzarlo o beatificarlo. Spesso basta avere un poco di pazienza e le opinioni su di lui o lei cambiano. Vorrei essere abbastanza giovane per vedere per esempio quanti berlusconiani resteranno quando l’Amato Leader sarà assunto in cielo. Berlusconiano, io? Ma quando mai.

da "Tempo Reale, il blog del direttore" di Vittorio Zucconi - 9/02/2010

lunedì 8 febbraio 2010

Il processo come lotta e come punizione nel medioevo

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(...) quaestio come supplizio di verità. Prima di tutto la quaestio non è un mezzo per strappare la verità a qualunque costo; non è la tortura scatenata degli interrogatori moderni; è crudele, certo, ma non selvaggia. Si tratta di una pratica che ha le sue regole, che obbedisce ad una procedura ben definita; momenti, durata, strumenti utilizzati, lunghezza delle corde, pesantezza dei pesi, numero dei cunei, interventi del magistrato che interroga, tutto questo, secondo le differenti consuetudini, è accuratamente codificato.

La quaestio è un gioco giudiziario rigoroso. E, a questo titolo, al di là delle tecniche dell'Inquisizione, si riallaccia alle antiche prove che avevano luogo nelle procedure accusatorie: ordalie, duelli giudiziari, giudizi di Dio.

Tra il giudice che ordina la quaestio e il sospettato che è torturato si svolge ancora quasi una sorta di combattimento cavalleresco; il "paziente" - è il termine con cui si designa il suppliziato - è sottomesso ad una serie di prove, graduate in severità, e nelle quali egli vince "tenendo" e perde confessando.

- Il primo grado del supplizio era lo spettacolo degli strumenti. Ci si limitava a questo stadio per i bambini ed i vecchi di più di settant'anni. -

Ma il giudice non impone la quaestio senza correre, da parte sua, dei rischi (e non è solo il pericolo di vedere morire il sospettato); egli pure mette nella partita una posta, gli elementi di prova che ha già riuniti; poichè la regola vuole che se l'accusato "tiene" e non confessa, il magistrato sia costretto ad abbandonare l'accusa. Il suppliziato ha vinto.

Di qui l'abitudine che era stata introdotta per i casi più gravi, d'imporre la quaestio "con riserva di prova": in questo caso il giudice poteva, dopo le torture, far valere le presunzioni che aveva riunite; l'accusato non veniva scagionato dalla sua resistenza, ma perlomeno doveva alla sua vittoria di non poter più essere condannato a morte. Il giudice teneva in mano tutte le sue carte, salvo la principale. Omnia citra mortem.

Di qui la raccomandazione spesso rivolta ai giudici di non sottomettere alla quaestio un sospetto sufficientemente carico di prove, per i crimini più gravi, poichè se avesse resistito alla tortura, il giudice non avrebbe più avuto il diritto di infliggergli la condanna a morte, che tuttavia meritava; in questo scontro, la giustizia sarebbe stata perdente: se le prove sono sufficienti "per condannare un tal colpevole a morte", non bisogna "azzardare la condanna alla sorte ed all'avvenimento di una quaestio, sentenza provvisoria che spesso non conduce a niente; poichè infine è proprio della salute e dell'interesse pubblico fare degli esemi di crimini gravi, atroci, capitali."

Sotto l'apparente ricerca accanita di una verità non maturata poco a poco, ritroviamo nella tortura classica il meccanismo ben regolato di una competizione: una sfida fisica che deve decidere della verità; se il paziente è colpevole, le sofferenze che essa impone sono ingiuste; ma essa è anche segno di discolpa se egli è innocente. Affrontamento, sofferenza e verità sono, nella pratica della tortura, legate tra loro: lavorano in comune il corpo del paziente. La ricerca della verità per mezzo della quaestio è pur sempre un modo di far apparire un indizio, il più grave di tutti - la confessione del colpevole; ma è anche battaglia, ed è la vittoria di un avversario sull'altro che "produce" ritualmente la verità. Nella tortura, per far confessare, c'è inchiesta ma c'è anche duello.

Nello stesso modo vi si mescolano un atto istruttorio ed un elemento di punizione. E non è questo uno dei suoi paradossi minori. Essa viene in effetti definita come un modo per completare la dimostrazione allorchè "Non esistono nel processo prove sufficienti". Viene classificata tra le pene; ed è pena così grave che, nella gerarchia dei castighi, l'Ordinanza del 1670 la inscrive subito dopo la morte. In qual modo una pena può essere impeigata come un mezzo, ci si chiederà più tardi? Come si può far valere a titolo di castigo quello che dovrebbe essere un processo di dimostrazione? La ragione sta nel modo in cui la giustizia criminale, nell'epoca classica, faceva funzionare la produzione della verità.

Le diverse parti della prova non costituivano un tutto come altrettanti elementi neutri, non attendevano di essere riunite in un unico fascicolo per apportare la certezza finale della colpevolezza. Ogni indizio portava con sè un grado di abominio. La colpevolezza non iniziava dopo che tutte le prove fossero riunite; pezzo a pezzo, essa veniva costituita da ciascuno degli elementi che permettevano di riconoscere un colpevole.

Così una semiprova non lasciava il sospettato innocente, finchè non fosse completata: ne faceva un semicolpevole; l'indizio, anche lieve di un crimine grave, segnava qualcuno come "un po'" criminale. In breve, la dimostrazione in materia penale non obbediva ad un sistema dualista: vero o falso; ma ad un principio di graduazione continua: un grado raggiunto nella dimostrazione formava già un grado di colpevolezza e implicava per conseguenza un grado di punizione. Il sospettato, in quanto tale, meritava sempre un certo castigo; non si poteva essere innocentemente oggetto di un sospetto. Il sospetto implicava, nello stesso tempo, da parte del giudice un elemento di dimostrazione, da parte del prevenuto il segno di una certa colpevolezza e da parte della punizione una forma limitata di pena. Un sospettato, che rimanesse tale, non era per questo scagionato, ma parzialmente punito.

Quando si era pervenuti ad un certo grado di presunzione, si poteva dunque legittimamente mettere in gioco una pratica che aveva un doppio ruolo: cominciare a punire in virtù delle indicazioni già raccolte e servirsi di questo inizio di pena per estorcere il resto di verità ancora mancante. La tortura giudiziaria, nel secolo XVIII, funziona in questa strana economia in cui il rituale che produce la verità va di pari passo col rituale impone la punizione. Il corpo interrogato nel supplizio e il punto di applicazione del castigo e il luogo di estorsione della verità. E come la presunzione è solidamente un elemento dell'inchiesta ed un frammento di colpevolezza, la sofferenza regolata dalla tortura è insieme una misura per punire ed un atto istruttorio.

da "Sorvegliare e punire" di Michel Focault

giovedì 4 febbraio 2010

Il nostro abisso

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http://www.repubblica.it/esteri/2010/01/17/foto/ruba_ai_cadaveri_linciato_e_ucciso-1978991/1/ - Foto shock, sciacallo sorpreso tra le macerie - Alcune di queste immagini potrebbero turbare la sensibilità dei lettori

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La fotografia del nostro abisso
da La Repubblica del 18/01/2010 - di Vittorio Zucconi

Si vorrebbe poter dire: ma quelli non siamo noi. Quelli ripresi da un telefonino a Port-auPrince attorno al corpo morto e violato di un ladro sono demoni affiorati dalle crepe aperte nel suolo dal terremoto, come nei film d' orrore.

Si vorrebbe non vedere e non guardare le foto del linciaggio e della profanazione del cadavere dello sciacallo a Haiti, per credere che appartengano a un altro pianeta, a un' altra dimensione, a un tempo che noi, con la nostra giurisprudenza, lo stato, i codici, l' autorità, il patto civile di convivenza che affida ai magistrati e non ai machete il castigo dei colpevoli, abbiamo superato per sempre.

Si vorrebbe, ma non si può, perché quello che sconvolge e nausea non è la distanza, ma la prossimità. E' la conferma che tutti gli uomini, messi nelle circostanze giuste, siano capaci di tutto. Non è il sabba infernale attorno al corpo di un disperato più disperato degli altri sorpreso a rubare a chi non ha nulla a provocare il raccapriccio che ci afferra, è la documentazione dell' atto, sono la sua visibilità e le immagini. Leggere resoconti di orrore, racconti e testimonianza da un popolo e da una città riportati allo stato di natura, è tollerabile perché frammette tra noi e la realtà la mediazione del narratore, per efficace che sia la sua narrazione. Ma vedere è insopportabile.

Ancor più della oscenità dei risultati, è stata la sequenza dei jet che penetrano nelle Torri Gemelle e il loro collasso in diretta che ha reso, e renderà per sempre, incancellabile l' 11 settembre. Di fatti come questo linciaggio, nel quale l' immagine forse più raggelante è quella del ragazzo curvo sul cadavere per riprenderlo con il telefonino nella convergenza di tecnologia e di barbarie, accadono certamente a dozzine, se non a centinaia, nell' Haiti dove la sopravvivenzaè affidata a una spranga e l' ordine pubblico alle ronde di vigilanti con il machete.

Ma questo è stato documentato e nell' età di Internet, di You Tube, dei social network, resterà indelebile per sempre negli archivi della nuova memoria assoluta.

Possiamo non guardarli, ma non possiamo fingere che non esistano. E possiamo trovare un conforto ipocrita nel sapere che non esistono fotografie o filmati che documentino a colori e in buona definizione quello che accadde dentro il Superdome di New Orleans nel 2003 dopo Katrina, quando 25 mila profughi restarono chiusi per tre giorni dentro un palazzo dello sport senza acqua, viveri o servizi sanitari, mentre negli ospedali i medici e gli infermieri decidevano in silenzio chi lasciar morire e chi salvare, per mancanza di elettricità o di strumenti, nell' attesa dei soccorsi.

Disumanità asettica e scientificamente giustificata, con bisturi e flebo al posto dei machete. Non ci sono fotografie o filmati, se non a posteriori, dell' orrore di Falluja in Iraq, dove i corpi di americani furono dissacrati, bruciati , rosolati nella cenere e appesi ai lampioni o dei soldati del Black Hawk abbattuto a Mogadiscio o delle esecuzioni di massa dei kosovari nella "pulizia etnica". Non c' erano telefonini con videocamera per riprendere gli innocenti gettati vivi nelle foibe carsiche, per i bambini aggrappati alle loro madri nello stanzone delle "docce" al Zyklon B mentre erano gassatie nessuno ha documentato le fine dei "barboni" bruciati vivi oggi, qui nelle grandi città italiane.

Noi non siamo come loro, siamo troppo "civili" ed evoluti per riprendere e immortalare i nostri orrorie per documentare quanto sia sottile, e fragile, la membrana che separa la civiltà dalla barbarie, l' Italia di Beccaria dall' Italia delle carceri dei suicidi, la città per bene dalla città per male. Fingiamo di credere che sia la nostra superiore evoluzione a risparmiarci quello che sta accadendo a Haiti. Mentre sono soltanto l' attesa, e la ragionevole certezza, che presto o tardi qualcuno arriverà, che la cavalleria dei soccorsi spunterà dietro la collina, che hanno fermato New Orleans sul limitare dell' abisso quando i saccheggiatori si erano impadroniti della cittàe la polizia aveva l' ordine di sparare a vista.

Dove l' autorità è invece il braccio armato della violenza al potere, dove il futuro e la sopravvivenza dei propri figli si misurano nel mucchietto di stracci e di cianfrusaglia rubata che lo sciacallo massacrato, forse anche lui padre di qualcuno, portava con sé, diventa difficile giudicare. E necessario guardare. Quale pietas, quale cultura, quale umanità fermerebbero la collera di un padre che sa di dovere essere solo contro tutti gli altri uomini per cercare di salvare la vita di un figlio con un pacco viveri o una scatola di antibiotici?
Le cartoline dall' abisso che ci arrivano da Haiti, in tutta la loro insopportabilità, non sono purtroppo fuori dallo spettro dei comportamenti umani. Sono ancora dentro, all' estremo opposto del vigile del fuoco o del volontario che sacrifica la propria vita per portare in salvo un alluvionato o una anziana intrappolata, come è accaduto nella catastrofe di Messina appena quattro mesi or sono. In quella stessa Sicilia dove figli di mafiosi possono essere sciolti nell' acido e magistrati polverizzati con il tritolo.

Si è sentito, e si sente in queste ore, parlare di possibile "guerra civile" attorno alle rovine della mezza isola, forse di scontri alla frontiera con la Repubblica Dominicana, dove le folle di profughi sono state fermate e respinte da una nazione che con enorme fatica si è sollevata non di molto dalla sua coinquilina isolana e deve difenderei paradisi tropicali per i turisti americani ed europei che alimentano con soldi di espatriati ed evasori la sua crescita. Ma una guerra civile, uno scontro fra parti opposte per la conquista del potere anche a prezzo di sangue, potrebbe almeno prefigurare un vincitore, un governo futuro, invece di questa giustizia sommaria, di questo linciaggio del vivo e del morto. Sarebbe paradossalmente quasi un progresso, rispetto allo stato di natura che oggi regna a Haiti e che queste fotografie ci hanno documentato.
Dunque, meglio non guardarle, voltare gli occhi e la pagine, prima che affiori il dubbio che quel ragazzo col telefonino, o quel monatto che profana il cadavere - spogliato perché la profanazione sia ancora più simbolica - appeso per i piedi, potremmo essere noi. O, peggio, siamo stati anche noi.

mercoledì 3 febbraio 2010

Un interesse diretto, concreto e attuale

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Capo V della L. 241/1990
Accesso ai documenti amministrativi

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Articolo 22 (1) (Definizioni e princípi in materia di accesso)
1. Ai fini del presente capo si intende:
a) per "diritto di accesso", il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi;
b) per "interessati", tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso;
c) per "controinteressati", tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza;
d) per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale;
e) per "pubblica amministrazione", tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario.
2. L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza.
3. Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6.
4. Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della persona cui i dati si riferiscono.
5. L'acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, ove non rientrante nella previsione dell'articolo 43, comma 2, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, si informa al principio di leale cooperazione istituzionale.
6. Il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l'obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.

(1) Articolo così modificato dalla
Legge 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69.

Articolo 23 (Ambito di applicazione del diritto di accesso) (1)
1.
Il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi. Il diritto di accesso nei confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza si esercita nell'ambito dei rispettivi ordinamenti, secondo quanto previsto dall'articolo 24.

(1) Rubrica aggiunta dalla
Legge 11 febbraio 2005, n. 15.

Articolo 24 (1)(Esclusione dal diritto di accesso)
1. Il diritto di accesso è escluso:
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo;
b) nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano;
c) nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione;
d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi.
2. Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso ai sensi del comma 1.
3.
Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni.
4. L'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento.
5. I documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono considerati segreti solo nell'ambito e nei limiti di tale connessione. A tale fine le pubbliche amministrazioni fissano, per ogni categoria di documenti, anche l'eventuale periodo di tempo per il quale essi sono sottratti all'accesso.
6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi:
a) quando, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall'articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, dalla loro divulgazione possa derivare una lesione, specifica e individuata, alla sicurezza e alla difesa nazionale, all'esercizio della sovranità nazionale e alla continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali, con particolare riferimento alle ipotesi previste dai trattati e dalle relative leggi di attuazione;
b) quando l'accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di formazione, di determinazione e di attuazione della politica monetaria e valutaria;
c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini;
d)
quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono;
e) quando i documenti riguardino l'attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro e gli atti interni connessi all'espletamento del relativo mandato.
7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale".

(1) Articolo così modificato dalla
Legge 11 febbraio 2005, n. 15.

Articolo 25 (1)(Modalità di esercizio del diritto di accesso e ricorsi)
1. Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura.
2.
La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all'amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente.
3. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso sono ammessi nei casi e nei limiti stabiliti dall'articolo 24 e debbono essere motivati.
4. Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego dell'accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso ai sensi dell'articolo 24, comma 4, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale ai sensi del comma 5, ovvero chiedere, nello stesso termine e nei confronti degli atti delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito, che sia riesaminata la suddetta determinazione. Qualora tale organo non sia stato istituito, la competenza è attribuita al difensore civico competente per l'ambito territoriale immediatamente superiore. Nei confronti degli atti delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato tale richiesta è inoltrata presso la Commissione per l'accesso di cui all'articolo 27 nonchè presso l'amministrazione resistente. Il difensore civico o la Commissione per l'accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell'istanza. Scaduto infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Se il difensore civico o la Commissione per l'accesso ritengono illegittimo il diniego o il differimento, ne informano il richiedente e lo comunicano all'autorità disponente. Se questa non emana il provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico o della Commissione, l'accesso è consentito. Qualora il richiedente l'accesso si sia rivolto al difensore civico o alla Commissione, il termine di cui al comma 5 decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell'esito della sua istanza al difensore civico o alla Commissione stessa. Se l'accesso è negato o differito per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione provvede, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale il parere si intende reso. Qualora un procedimento di cui alla sezione III del capo I del titolo I della parte III del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, o di cui agli articoli 154, 157, 158, 159 e 160 del medesimo decreto legislativo n. 196 del 2003, relativo al trattamento pubblico di dati personali da parte di una pubblica amministrazione, interessi l'accesso ai documenti amministrativi, il Garante per la protezione dei dati personali chiede il parere, obbligatorio e non vincolante, della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi. La richiesta di parere sospende il termine per la pronuncia del Garante sino all'acquisizione del parere, e comunque per non oltre quindici giorni. Decorso inutilmente detto termine, il Garante adotta la propria decisione".
5. Contro le determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso e nei casi previsti dal comma 4 è dato ricorso, nel termine di trenta giorni, al tribunale amministrativo regionale, il quale decide in camera di consiglio entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne abbiano fatto richiesta. In pendenza di un ricorso presentato ai sensi della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, il ricorso può essere proposto con istanza presentata al presidente e depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso, previa notifica all'amministrazione o ai controinteressati, e viene deciso con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio. La decisione del tribunale è appellabile, entro trenta giorni dalla notifica della stessa, al Consiglio di Stato, il quale decide con le medesime modalità e negli stessi termini. Le controversie relative all'accesso ai documenti amministrativi sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
5-bis. Nei giudizi in materia di accesso, le parti possono stare in giudizio personalmente senza l'assistenza del difensore. L'amministrazione può essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente, purché in possesso della qualifica di dirigente, autorizzato dal rappresentante legale dell'ente.
6. Il giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione dei documenti richiesti.

(1) Articolo così modificato dalla
Legge 11 febbraio 2005, n. 15, dal Decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 e successivamente dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69.

Articolo 26 (Obbligo di pubblicazione) (1)
1. Fermo restando quanto previsto per le pubblicazioni nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana dalla legge 11 dicembre 1984, n. 839, e dalle relative norme di attuazione, sono pubblicati, secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti, le direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e ogni atto che dispone in generale sulla organizzazione, sulle funzioni, sugli obiettivi, sui procedimenti di una pubblica amministrazione ovvero nel quale si determina l'interpretazione di norme giuridiche o si dettano disposizioni per l'applicazione di esse.
2. Sono altresì pubblicate, nelle forme predette, le relazioni annuali della Commissione di cui all'articolo 27 e, in generale, è data la massima pubblicità a tutte le disposizioni attuative della presente legge e a tutte le iniziative dirette a precisare ed a rendere effettivo il diritto di accesso.
3. Con la pubblicazione di cui al comma 1, ove essa sia integrale, la libertà di accesso ai documenti indicati nel predetto comma 1 s'intende realizzata.

(1) Rubrica aggiunta dalla
Legge 11 febbraio 2005, n. 15.

Articolo 27 (1)(Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi).
1. È istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi.
2. La Commissione è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio dei ministri. Essa è presieduta dal sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri ed è composta da dodici membri, dei quali due senatori e due deputati, designati dai Presidenti delle rispettive Camere, quattro scelti fra il personale di cui alla legge 2 aprile 1979, n. 97, su designazione dei rispettivi organi di autogoverno, due fra i professori di ruolo in materie giuridiche e uno fra i dirigenti dello Stato e degli altri enti pubblici. È membro di diritto della Commissione il capo della struttura della Presidenza del Consiglio dei ministri che costituisce il supporto organizzativo per il funzionamento della Commissione. La Commissione può avvalersi di un numero di esperti non superiore a cinque unità, nominati ai sensi dell'articolo 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400.
3. La Commissione è rinnovata ogni tre anni. Per i membri parlamentari si procede a nuova nomina in caso di scadenza o scioglimento anticipato delle Camere nel corso del triennio.
4. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, a decorrere dall'anno 2004, sono determinati i compensi dei componenti e degli esperti di cui al comma 2, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri.
5. La Commissione adotta le determinazioni previste dall'articolo 25, comma 4; vigila affinché sia attuato il principio di piena conoscibilità dell'attività della pubblica amministrazione con il rispetto dei limiti fissati dalla presente legge; redige una relazione annuale sulla trasparenza dell'attività della pubblica amministrazione, che comunica alle Camere e al Presidente del Consiglio dei ministri; propone al Governo modifiche dei testi legislativi e regolamentari che siano utili a realizzare la più ampia garanzia del diritto di accesso di cui all'articolo 22.
6. Tutte le amministrazioni sono tenute a comunicare alla Commissione, nel termine assegnato dalla medesima, le informazioni ed i documenti da essa richiesti, ad eccezione di quelli coperti da segreto di Stato.
7. In caso di prolungato inadempimento all'obbligo di cui al comma 1 dell'articolo 18, le misure ivi previste sono adottate dalla Commissione di cui al presente articolo".

(1) Articolo così modificato dalla
Legge 11 febbraio 2005, n. 15.


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Accesso alle informazioni: i rapporti con le pubbliche amministrazioni - da "Privacy e giornalismo - Diritto di cronaca e Diritti dei cittadini", a cura di Mauro Paissan

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Viene spesso lamentato che le pubbliche amministrazioni giustificano la
propria decisione di non fornire informazioni ai giornalisti dietro una supposta applicazione della legge sulla privacy.
Al riguardo, è stato più volte evidenziato anche dallo stesso Garante che
la
legge n. 675/96, prima, e ora il Codice privacy
(Codice in materia di protezione dei dati personali, decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196),
non hanno inciso in modo restrittivo sulla normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa e che, quindi, la disciplina sulla tutela dei dati personali non può essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l’accesso ai documenti, fatto comunque salvo il peculiare livello di tutela assicurato per certe informazioni e, in particolare, per i dati sensibili (dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati,
associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale,
nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale).


Le difficoltà per il giornalista di accedere a determinati documenti in possesso di uffici pubblici deriva non tanto dalla disciplina sulla protezione dei dati personali, quanto dalla normativa sull’accesso ai documenti amministrativi (legge 241 del 1990) che, laddove il documento non è segreto, impone comunque di valutare l’eventuale necessità di tutelare la riservatezza di un terzo, ma prima ancora prescrive (non solo al giornalista) che chi richiede il documento debba dimostrare
la necessità di disporne per la tutela di un interesse giuridicamente rilevante e concreto.
Vi sono al riguardo alcune aperture della giurisprudenza amministrativa che ritiene legittimato all’accesso anche chi intende esercitare al riguardo il diritto di cronaca (cfr. anche Cons. di Stato n. 570/1996 e Cons. di Stato n. 99/1998), ma il punto non è pacifico.

Il giornalista può quindi chiedere di acquisire le informazioni
detenute dalle pubbliche amministrazioni utilizzando gli strumenti previsti dall’ordinamento giuridico: presentando istanza in conformità a quanto previsto dalla legge 241 o da leggi speciali o, più semplicemente, consultando albi, elenchi ecc. quando la legge ha previsto un siffatto regime di pubblicità.

In tale ottica, e fatte salve le valutazioni che seguiranno in ordine alla loro
possibile diffusione, il giornalista potrà ad esempio chiedere di acquisire o venire legittimamente a conoscenza delle informazioni concernenti:
- l’ammontare complessivo dei dati reddituali dei contribuenti, presso i
comuni;
- le situazioni patrimoniali di coloro che ricoprono determinate cariche
pubbliche o di rilievo pubblico per le quali è spesso previsto un regime di pubblicità;
- analogamente, le classi stipendiali, le indennità e gli altri emolumenti di
carattere generale corrisposti da concessionari pubblici;
- le pubblicazioni matrimoniali affisse all’albo comunale;
- notizie relative ad alcuni nati e ad alcuni deceduti (possono essere rivolte
specifiche domande all’ufficiale di stato civile, ma non si ha ad esempio diritto
a ricevere un elenco giornaliero);
- gli esiti scolastici e concorsuali per i quali l’ordinamento prevede spesso
un regime di pubblicità;
- i dati contenuti negli albi professionali;
- i dati contenuti nelle deliberazioni degli enti locali (per esempio anche
mediante l’accesso alle sedute consiliari degli organi collegiali e la relativa ripresa
televisiva);
- la situazione patrimoniale delle società e, in generale, i dati pubblici
presso le camere di commercio.


Questo per quanto riguarda l’acquisizione delle informazioni. Rimane poi affidata alla responsabilità del giornalista l’utilizzazione lecita del dato raccolto e quindi la sua diffusione secondo i parametri dell’essenzialità rispetto al fatto d’interesse pubblico narrato, della correttezza, della pertinenza e della non eccedenza, avuto altresì
riguardo alla natura del dato medesimo.
Il giornalista dovrà valutare, ad esempio, l’eventualità di non diffondere in certi casi taluni dati relativi agli esiti scolastici, sebbene pubblici, in ragione dell’opportunità di tutelare gli interessati (minori e non) dagli effetti negativi che può determinare un’eccessiva risonanza data al loro risultato.

La legge sulla privacy e lo stesso Codice entrato in vigore il 1° gennaio scorso non hanno poi “abrogato” i noti limiti generali al diritto di cronaca che la giurisprudenza ordinaria, da diversi anni, considera stabilizzati.
Un’utile novità potrà tra l’altro derivare dall’adozione del decreto del Ministro
dell’interno relativo alla legittima comunicazione e diffusione di informazioni
da parte di forze di polizia, ad esempio in caso di incidenti, eventi tragici, calamità,
ecc. (art. 57, comma 1, lett. e), del Codice privacy).