giovedì 16 luglio 2009

Sunrise

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Catturare il sole
da "La Repubblica" del 12/07/2009 (di Maurizio Ricci)

Sole per tutti. I padri fondatori sono Archimede ed Edison. Il progetto è figlio degli intellettuali del Club di Roma, da sempre attenti al problema della scarsità di risorse. I soldi sono, per ora, tedeschi. L' obiettivo è portare in Europa energia dal sole del Sahara.

La data in cui tutto dovrebbe avere inizio è domani. Si riuniscono a Monaco di Baviera una ventina di aziende dai nomi pesanti: Munich Re, Siemens, Deutsche Bank, E.On, Rwe, insomma, una fetta cospicua del gotha dell' economia tedesca. Il risultato dovrebbe essere la formazione di un consorzio che dia gambe al progetto - chiamato Desertec - mettendo sul piatto i primi investimenti di un piano che, alla fine, costerà la cospicua cifra di 400 miliardi di euro.

Il punto chiave non è l' idea, che non è nuova. Se ne è parlato anche a livello di governi: il «Piano solare» era il progetto preferito di Nicolas Sarkozy, al momento del lancio dell' Unione per il Mediterraneo, quando la Francia aveva la presidenza dell' Unione europea. La differenza è che il piano solare smette di essere solo un file di computer, qualche diapositiva di una presentazione PowerPoint, un paio di paragrafi nei discorsi di un ministro. Diventa arena degli interessi forti dell' economia.

Qui l' ecologia, l' energia pulita e la conseguente riduzione delle emissioni di anidride carbonica non sono un ideale, ma uno strumento. Munich Re, un gigante delle assicurazioni, si preoccupa delle polizze che coprono i danni creati dall' effetto serra. E.One Rwe, colossi dell' elettricità tedesca ed europea, cercano alternative efficienti al ventaglio di problemi creati dal carbone, dal gas e dal nucleare. Per la Siemens, che le infrastrutture per la produzione e la distribuzione di elettricità le costruisce, è semplicemente business.

Per chi crede che i meccanismi di mercato, una volta messi in moto, siano una forza assai più affidabile e potente dei disegni dei politici, la riunione di Monaco, se andrà a buon fine, è una svolta. Toccherebbe, dunque, alla vecchia «mano invisibile» di Adam Smith realizzare un' idea tanto grandiosa, quanto, al fondo, semplice. Secondo l' Institute for Energy, che lavora per la Commissione di Bruxelles, basterebbe lo 0,3 per cento della luce solare che cade sui deserti del Sahara e del Medio Oriente per soddisfare l' intero fabbisogno di energia dell' Europa.

Nessuno, tuttavia, pensa ad un' unica fantasmagorica megacentrale. Il progetto Desertec prevede la messa in opera di decine di centrali solari di medie dimensioni, in un arco che va dal Marocco alla Giordania. Quali centrali? È qui che entra in campo Archimede. Non si tratterebbe, infatti, di centrali a pannelli fotovoltaici, più costosi, meno adatti alla produzione su grande scala, più erratici nel rendere disponibile l' energia, ma di centrali a concentrazione termica. Si tratta di installare una platea di specchi concavi (in California, per abbattere i costi, stanno tentando di ottenere lo stesso risultato con specchi piatti) che riflettano e concentrino la luce solare in un punto. Con questo sistema Archimede ci bruciava le navi nemiche. Qui invece la luce si concentra su una cisterna: il liquido al suo interno si riscalda, bolle e il vapore che ne risulta viene utilizzato per muovere una turbina che genera elettricità, come in qualsiasi centrale convenzionale o nucleare. È una tecnologia già ampiamente sperimentata, dalla California alla Spagna: anche l' Italia sta avviando una piccola centrale di questo tipo in Sicilia.

Usando nella cisterna, invece di acqua, una miscela di sali fusi, si riesce a conservare il calore e a far girare la centrale di notte, anche se l' obiettivo delle 24 ore su 24 non è ancora stato raggiunto.

I costi, man mano che la tecnologia si diffonde, stanno scendendo rapidamente. Già oggi siamo a meno di dieci centesimi di euro per kilowattora. I tecnici di Desertec calcolano che un boom delle centrali solari termodinamiche, come quello che verrebbe suscitato dal progetto, creerebbe economie di scala, sufficienti a spingere il costo del kilowattora a 4-5 centesimi. A ridosso del carbone e al di sotto del nucleare.

Nel progetto Desertec, parte dell' elettricità prodotta verrebbe utilizzata nei Paesi d' origine (ad esempio, nei dissalatori) e una quota verrebbe esportata in Europa. Una volta completato il progetto - e spesi quattrocento miliardi di euro - l' Europa si assicurerebbe dal Sahara il 15 per cento del suo fabbisogno energetico. Già dal 2020, tuttavia, l' Europa, spendendo intorno ai quaranta miliardi di euro, potrebbe disporre di venti gigawatt di energia, che corrispondono ad un terzo del fabbisogno complessivo italiano: venti Gw sono, comunque, l' equivalente di venti centrali convenzionali o nucleari.

Ma vale la pena di produrre elettricità nel Sahara per trasportarla fino in Europa? Dopo Archimede, è questo il momento di Thomas Edison. Noi, oggi, trasportiamo elettricità a corrente alternata. Ma è più frutto del caso che di una migliore tecnologia. Edison sosteneva che la corrente diretta fosse più efficiente. Nikola Tesla (e la Westinghouse) erano per la corrente alternata. Vinse Tesla, per il semplice motivo che, al momento della disputa (fine Ottocento), esistevano già trasformatori per ridurre la tensione degli elettrodotti a corrente alternata e distribuire l' elettricità nelle case, ma non per la corrente diretta. Oggi assistiamo alla vendetta di Edison. La corrente alternata (dove la direzione del flusso si inverte più di cento volte al secondo) ha una dispersione più alta. Su un tragitto di mille chilometri, un elettrodotto a corrente alternata perde il dieci per cento dell' energia che trasporta. Di più se corre sott' acqua o sottoterra. Su un tragitto di mille chilometri, invece, un elettrodotto a corrente continua perde solo il tre per cento dell' energia. Trasportare elettricità dal Sahara in Germania comporterebbe una perdita del 10-15 per cento dell' energia trasportata. Una perdita, dicono quelli di Desertec, ampiamente compensata dalla maggiore energia prodotta rispetto a centrali collocate in Germania.

Le ore di sole, nel Sahara, sono 1.800 l' anno, il doppio dell' insolazione del Nord Europa. Insomma, una raggiera di centrali nel deserto, collegata da grandi elettrodotti (in parte già previsti indipendentemente, come fra Italia e Tunisia) a snodi in Europa, da cui l' energia verrebbe ridistribuita nel territorio. Ma possiamo fidarci, per alimentare le lampadine di casa, di Gheddafi? Visto che, già oggi, ci fidiamo di Putin e Yushenko e del gas che arriva a singhiozzo dall' Ucraina, la scommessa non sembra troppo azzardata.

Inoltre, anche un blackout totale di questo quindici per cento del fabbisogno che arriva dal Sahara potrebbe essere gestito, senza catastrofi, dall' attuale sistema elettrico, dove già esiste un cuscinetto di emergenza del venti per cento. Al contrario, una volta stabilito il - non facile - principio di produrre lontano l' energia che ci serve e poi gestirla e distribuirla collettivamente in Europa, il progetto Desertec è, forse, fin troppo timido.

A pianificare più in grande ci ha pensato Gregor Czisch, un esperto dei sistemi di energia dell' università di Kassel (ancora in Germania). Il suo piano non è in contrapposizione a Desertec. Ne è piuttosto un complemento, che ne allarga il respiro geografico e tecnologico. Potremmo chiamarlo Desertec 2. Dice Czisch: perché limitarsi alle centrali solari? La costa atlantica del Maroccoe alcune aree del Medio Oriente offrono ottime potenzialità di energia dal vento. Anche queste turbine dovrebbero entrare nella SuperRete immaginata dal progetto Desertec. Soprattutto, dovrebbero entrarci le rinnovabili europee. Tutte le pale e le turbine che ci sono e ci saranno sempre più sulla costa atlantica europea e nel Nord Europa, fino agli Urali. Più le tante centrali a biomasse delle regioni boscose e le idroelettriche di quelle di montagna. Immaginare l' Europa come un unico grande sistema elettrico consente di superare d' un colpo quello che, oggi,è il più grosso handicap delle energie rinnovabili come il sole e il vento. Le centrali solari producono energia quando c' è sole. Le turbine eoliche, quando c' è vento. Niente sole, niente vento, niente energia. Ma il sole e il vento, da qualche parte, ci sono sempre. Se non c' è vento in Danimarca, ce n' è in Biscagliao in Marocco. Il problema è renderlo disponibile in Danimarca, attraverso una SuperRete. Il progetto di Czisch prevede anche un cuscinetto d' emergenza. L' energia in eccesso prodotta dalle centrali solari o eoliche (quando, cioè, c' è troppo vento o troppo sole rispetto alla domanda) potrebbe essere utilizzata per ricaricare le centrali idroelettriche delle Alpi, ritrasportando in alto l' acqua, da far ricadere poi a valle, per muovere le turbine, nel caso di un inatteso picco della domanda. Il progetto di Czisch è, per ora, solo un' utopia custodita nel suo computer. Le simulazioni dello stesso computer hanno, però, un riscontro molto concreto. Una simile SuperRete, organicamente e collettivamente gestita, consentirebbe di soddisfare l' intero fabbisogno di un' Europa sempre più affamata di energia. Tutto con le rinnovabili: niente carbone, niente gas, niente nucleare. Il conto? Salato: 1.500 miliardi di euro.

Come al ristorante, però, non bisogna solo guardare la cifra in fondo. Secondo l' Agenzia internazionale dell' energia, entro il 2030 il mondo dovrà comunque spendere 13.600 miliardi di euro nella costruzione di nuove centrali elettriche. Dei 1.500 miliardi di euro stimati da Czisch, 1.400 servirebbero per la costruzione di centrali che, probabilmente, dovrebbero essere costruite lo stesso, a carbone, a gas, nucleari. O, appunto, solari od eoliche. Il costo effettivo della SuperRete necessaria per collegare le centrali del suo piano è assai più maneggevole: 128 miliardi di euro.A volte, se si pensa davvero in grande, anche i grandi problemi diventano più piccoli.

giovedì 9 luglio 2009

La moto in corsa tra i due camion

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da "La Repubblica" dell' 8/7/2009 (di Gabriele Romagnoli)

Un uomo soltanto. Un minuto appena. E l' indice Mib 30 fu sollevato dell' 1,73%. Non ci guadagnò nessuno tranne lui. Stava a Londra, spostò con una spallata la Borsa di Milano, entrò, uscì, guadagnò due miliardi di vecchie lire. In sessanta secondi. Come infilarsi guidando la moto in autostrada nella fessura tra due camion allineati in corsie parallele.

Dicevano avesse fatto il broker per cercare adrenalina. La trovò. Poi fu condannato, tra i primi in Italia, per aggiotaggio. Era l' ultimo venerdì d' agosto del 1997, sul calendario c' era il numero 29. Governava Prodi (per un po' ancora), superministro dell' Economia era Ciampi, che proprio in quella data commentò con soddisfazionei dati Istat del secondo trimestre: segnalavano un possibile tasso di crescita dell' 1,2%.

La scelta di quel giorno per la "spallata" fu strategica. Era l' ultimo di contrattazioni della settimana, del mese, della stagione di ferie. Il lunedì successivo, in America, era festa nazionale e Wall Street non avrebbe aperto. Un limbo. Una bolla. Per renderla ancora più impalpabile scelse l' ultimo minuto, il giro finale prima della campana, il momento in cui i suoi colleghi toglievano la giacca dalla spalliera della scrivania, la testa già voltata, il pensiero al dopo, alla serata, al week end, alla ripresa d' autunno.

Entrò in azione poco prima delle 16 e 59. Piazzò l' ordine da un telefono della Merryl Linch di Londra, dove lavorava. Chiamò l' Euromobiliare di Milano e "fece la spesa": ordinò quelli che in gergo borsistico erano definiti "200 basket di titoli del Mib 30". Controvalore: 40 miliardi di lire. La Borsa era stata fiacca tutto il giorno. L' indice di Piazza Affari segnava -0,3%, il Mib 30 ristagnava a 21000, indice negativo. Gli scambi, già limitati, si erano ridotti con il passar delle ore, dei minuti.

Alle 16 e 59 il mercato era una pozzanghera, un encefalogramma piatto. Quell' ordine da Londra fu come la puntura di adrenalina nel cuore che, in Pulp Fiction, John Travolta fa a Uma Thurman, svegliandola dal coma. Se Piazza Affari fosse stato il solito mare agitato l' acquisto avrebbe fatto spuma sull' onda, ma nella pozzanghera dell' ultimo minuto dell' ultimo giorno dell' ultima settimana di vacanze sollevò un piccolo tsunami. Trascinò in positivo tutti gli indici: Piazza Affari salì a + 1,2 in un battito di ciglia, il Mib 30 seguì a ruota. I broker si girarono di scatto, la giacca infilata in una sola manica, videro l' effetto, non capirono la causa, ma soprattutto non fecero in tempo a concepire la reazione: il mercato aveva già chiuso.

Se ne riparlava lunedì, in Europa, martedì in America. Se ne andarono con un leggero stordimento, come se qualcuno, al fondo dell' innocente succo di frutta che stavano bevendo, ma proprio al fondo, avesse aggiunto, mentre erano distratti, due gocce di una qualche sostanza proibita. Il lunedì successivo, all' apertura dei mercati, per prima cosa qualcuno a Londra rivendette i futures che aveva comprato nel pomeriggio di quel venerdì. Lucrò sulla differenza. E guadagnò due miliardi di lire. In un minuto. Aveva spostato il mercato da solo: il suo ordine d' acquisto il quel minuto rappresentò l' 85% del volume di scambi.

Dalle 16 e 59 alle 17 la Borsa era stata lui, Gian Marco Mensi, trader di successo, uomo a caccia di adrenalina. Quel sussulto non passò inosservato. Sessanta secondi anomali finirono sotto la lente della Consob che, almeno in quella occasione, guardò attentamente, seguì la scia sismica da Milano a Londra alla scrivania di Mensi. Ricostruì le sue mosse, ne valutò la legittimità: in fondo, obiettò la sua difesa, è lecito comprare titoli, anche in gran quantità e all' improvviso. Il giudice fu di avviso diverso. Scrisse nella sentenza di condanna, emessa nel 2002 (e confermata in appello e cassazione), la prima in Italia per quel reato: «L' artificio utilizzato dal Mensi era il c.d. marking the close, consistente nella conclusione di contratti nella fase finale della seduta borsistica in modo da far segnare un last price elevato, tale da fuorviare gli altri investitori, con l' intenzione di rivendere alla riapertura della seduta i titoli acquistati al più presto possibile, prima che gli altri operatori di borsa potessero mettere in atto una strategia adeguata». Si era infilato tra i due camion allineati a velocità contenuta e gli era schizzato davanti. Adrenalina pura. Quando ne videro il riflesso nel retrovisore era già lontano, con due miliardi di lire in tasca. Lo ha raggiunto, lenta ma inesorabile, una pattuglia della stradale.

Di nuovo sull' ottovolante

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Lo speculatore
da "La Repubblica" dell' 8/7/2009 (di Federico Rampini)

Gli squali del mercato sono di ritorno. Proprio mentre il G8 dell' Aquila si appresta a discutere nuove regole per disciplinare la malafinanza, la speculazione ha ripreso a imperversare. Petrolio e dollaro, junk bond o Borse emergenti, su tutti i tavoli i trader sono scatenati come a un gioco d' azzardo.

Contro ogni senso comune, le lezioni degli ultimi crac bancari e della recessione globale sembrano già dimenticate. Eppure proprio la settimana scorsa per i corsari della finanza sembrava arrivato il Giudizio universale. A distanza di pochi giorni, due sanzioni esemplari. A New York il Bernie Madoff era stato condannato a 150 anni, una pena durissima per l' autore della "truffa del secolo". Subito dopo nel Texas il giudice David Hittner aveva negato la libertà provvisoria a Allen Stanford, regista di una frode da 7 miliardi di dollari: anche per lui le porte del carcere resteranno chiuse a lungo.

Ma nelle stesse ore a Londra Steve Perkins, broker della Pvm Oil Futures, stava orchestrando da solo una gigantesca manipolazione delle quotazioni del petrolio. I futures del greggio sono schizzati alla velocità della luce fino a toccare i livelli massimi dell' anno- 73,50 dollari il barile - senza alcuna spiegazione razionale. La congiuntura mondiale è ancora debole, i consumi di energia ristagnano. Le leggi della domanda e dell' offerta non contano: un trader abile come Perkins è riuscito a "fare tendenza" da solo, trascinando dietro di sé centinaia di colleghi-concorrenti, nella folle gara tra le sale operative delle grandi banche.

In pochi minuti Steve Perkins ha bruciato 10 milioni di dollari, persi dal suo datore di lavoro, poi sembra essere sparito nel nulla. Ha fatto notizia solo perché gli è andata male, come finì male nel gennaio 2007 la puntata di Jerome Kerviel, il trader della Société Générale. Ma per altri operatori sui futures il gioco continua.

Lo stesso capo di Perkins, David Hufton che è il numero uno della Pvm Oil Associates, ha parlato di un «casinò elettronico del petrolio». Ha descritto le perversioni della "domanda virtuale" di materie prime, creata unicamente dalla finanza. Ha ammesso che «senza le Borse dei futures, il prezzo dell' energia sarebbe molto più basso».

Lacrime di coccodrillo, da parte di un colosso che manovra più di 100 milioni di barili di greggio sui mercati dei futures. Pvm è il più grosso broker indipendente nella Borsa virtuale dell' energia. Nulla indica chei blitz mordi-e-fuggi alla Perkins siano destinati a cessare. Quale credibilità avranno i proclami di principio che usciranno dal G8, le solenni promesse di aumentare i controlli?

Perfino una giustizia veloce e severa come quella americana sembra impotente. Il giurista Douglas Berman della Ohio State Law School è persuaso che i 150 anni di carcere inflitti a Madoff faranno giurisprudenza, «diventeranno il punto di riferimento per casi analoghi in futuro». Ma la storia dimostra che l' effetto-deterrente di questi castighi esemplari è scarso.

E non certo per colpa dei magistrati americani. Dagli anni Novanta a oggi, negli Stati Uniti c' è stata un' escalation nella gravità delle pene inflitte ai colletti bianchi per i reati di tipo finanziario. Se nel 1987 il finanziere Ivan Boesky se l' era cavata con tre anni e mezzo di carcere, all' inizio di questo decennio il crac Enron è costato 24 anni al chief executive Jeff Skilling, la bancarotta Worldcom è stata sanzionata con 25 anni di carcere per Bernie Ebbers. Il potere dissuasivo di questi processi però è controbilanciato da una massa di incentivi economici che spingono nella direzione opposta.

E' lo sporco segreto che le investment bank vorrebbero tenere per sé: nel bel mezzo della recessione globale, i loro affari vanno di nuovo a gonfie vele. E di pari passo risalgono le gratifiche dei trader. La speculazione paga, e per una "pecora nera" che finisce tra le maglie della giustizia ci sono cento operatori che festeggiano il ritorno delle vacche grasse. Molti di loro, naturalmente, operano in maniera del tutto legale: le regole del gioco lo consentono.

E così quest' anno la Goldman Sachs si appresta a versare emolumenti per 20 miliardi di dollari, ovvero 700.000 dollari annui a dipendente. Questo significa che il 2009 sarà un anno d' oro per i predoni della finanza. Alla Goldman Sachs guadagneranno il doppio dell' anno scorso. Stessa musica alla Morgan Stanley: a fine 2009 si prevedono 14 miliardi di gratifiche ai dipendenti, un rialzo poderoso.

Per questo fra le grandi banche americane è iniziata una nobile gara a restituire i prestiti ottenuti dallo Stato. Non per un improvviso senso di riconoscenza verso il contribuente, ma per liberarsi in fretta dei vincoli imposti dal Congresso di Washington sulle retribuzioni. Steven Eckhaus, avvocato d' affari a Wall Street presso lo studio legale Katten Muchin Rosenman, sostiene che «siamo daccapo al clima del 2007». Russ Gerson, cacciatore di teste per i più grandi istituti finanziari, parla di "business as usual". Cioè tutto torna alla "normalità", come se i tracolli delle banche e i salvataggi statali non fossero mai accaduti.

Il mare in cui nuotano gli squali è di nuovo ricco di prede. Il rimbalzo delle Borse - con l' indice Dow Jones salito del 27% dai minimi del 9 marzo - è uno scenario ideale. Non importa se incombono potenziali disastri, dalla bancarotta dell' intera California, ai fremiti di sfiducia verso il dollaro provocati dall' immenso deficit federale.

Anzi, è proprio sulle montagne russe che la speculazione trova le opportunità più vantaggiose. E gli ultimi mesi sono stati segnati da una parola magica per gli squali: "volatilità", cioè fluttuazioni estreme, capovolgimenti repentini.

I prezzi del petrolio dimezzati tra luglio e dicembre 2008, poi raddoppiati di nuovo in sei mesi. Identici scossoni per il rame e il ferro, i noli marittimi e la soya. Dietro le giravolte delle materie prime, si agitano a rimorchio le valute dei paesi produttori come il dollaro canadese e australiano, nuove star del casinò elettronico (il dollaro australiano, per esempio, ha guadagnato il 16% in un solo trimestre sul suo omologo Usa).

Idem le Borse dei paesi emergenti, dal Brasile alla Cina, che segnano rimbalzi ancora più vigorosi di Wall Street. Come se fossero colpiti da un' amnesia di massa, gli investitori del mondo intero riscoprono un atteggiamento fatale che li conduce verso le fauci degli squali: i tecnici lo chiamano "l' appetito per il rischio". L' indicatore più eloquente è il mercato dei junk bond. Così si chiamano le obbligazioni ad alta probabilità d' insolvenza. Talmente insicure, che le agenzie di rating (notoriamente indulgenti) si rifiutano di dargli un voto decente. Sono obbligazioni senza un' etichetta di affidabilità, chi le compra ne è consapevole. Ma nel nuovo clima di spensieratezza dei mercati finanziari, con "l' appetito per il rischio" i junk bond sono ricercatissimi per i loro rendimenti elevati.

Chi ha scommesso su questi titoli ha guadagnato il 23% in un solo trimestre. E dietro questo gioco ricompaiono i soliti noti. Si chiamano J.P. Morgan Chase, Morgan Stanely, Goldman Sachs. Le superpotenze della finanza, che un anno fa sembravano agonizzanti, rialzano la testa e si buttano a capofitto nelle operazioni più spericolate. Queste tre si sono messe a collocare obbligazioni sprovviste della garanzia della Federal Deposit Insurance: vuol dire che se quei titoli fanno crac, gli acquirenti perdono tutto. In soli tre mesi, sono stati emessi 41 miliardi di dollari di junk bond. In aumento dell' 81% rispetto all' anno scorso.

Ancora nell' aprile di quest' anno si era diffusa un' attesa forte verso il G8 e il G20. Si sperava che dai summit partisse una nuova Bretton Woods: una grande riforma dell' economia globale, regole nuove e stringenti, un cappio solido attorno ai mercati, controlli più efficacia livello sovranazionale. Il summit dell' Aquila dovrebbe essere una tappa cruciale di quel lavoro, per impedire il ripetersi degli eccessi che hanno fatto da scintilla per la grande recessione. Ma gli squali nuotano indisturbati. Hanno fiducia che il peggio - per loro - è già passato.

mercoledì 8 luglio 2009

Business is business

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Bandiera della repubblica islamica fondata dagli uiguri del Sinkiang meridionale, in rivolta contro la Cina. In uso dal 1933 al 1934, quando i cinesi ripresero il controllo della regione. Il crescente e la stella con la shahada erano simboli panislamici. L'azzurro era il colore degli uiguri (turco-mongoli).
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Tra affari e repressione
da "La Repubblica" del 7/07/2009 / di Federico Rampini

Due miliardi di dollari di investimenti in Italia. 156 morti nella rivolta della minoranza islamica uigura. Una terribile contraddizione pesa sulla visita del presidente cinese Hu Jintao a Roma. La cronaca è dilaniata, schizofrenica: da una parte la passerella trionfale di fronte al governo italianoe alla Confindustria; dall' altra il tragico bollettino di guerriglia urbana dalla Cina.

Tocca a Napolitano, da solo, sollevare il problema: «Il progresso economico e sociale della Cina pone nuove esigenze in materia di diritti umani». Il governo invece, a partire dal presidente del Consiglio, tace sull' argomento.

Eppure il bilancio della sommossa di Urumqi evoca il più grave massacro dopo quello del 4 giugno 1989 a Piazza Tienanmen. A vent' anni di distanza tocca alla minoranza islamica dello Xinjiang subire l' implacabile macchina repressiva della Repubblica Popolare.

Accade proprio mentre il leader di Pechino guida una delegazione di imprenditori a caccia di investimenti nelle aziende italiane, e poi si accinge a recitare un ruolo da protagonista al G8 dell' Aquila.

Hu Jintao avrebbe fatto a meno di questo "incidente" per la sua immagine proprio alla vigilia del summit. Così come, l' anno scorso, si sarebbe risparmiato volentieri la ribellione del Tibet a pochi mesi dalle Olimpiadi. Sospettoso come ogni sistema autoritario, il regime cinese vede complotti dappertutto. Nel 2008 denunciò una congiura del Dalai Lama contro le Olimpiadi. Oggi accusa Rebiya Kadeer, leader uigura in esilio anche lei ultrasettantenne, di aver fomentato violenze secessioniste a Urumqi.

Non c' è bisogno di una regìa esterna per spiegare l' esasperazione di tutte le minoranze sottoposte al giogo centralista di Pechino. Gli uiguri sono un' etnìa turcomanna che la Repubblica Popolare si è annessa dal 1949. La loro provincia ricca di materie prime è vastissima, e ha 5.600 km di frontiera esterna con otto nazioni di cui cinque di religione musulmana. I cinesi la chiamano Xinjiang ma gli uiguri continuano a preferire un altro nome: Turkestan orientale. Si sentono occupati, separati dai fratelli di fede musulmana che vivono oltre il confine, oppressi e discriminati.

E' una zona ad alta tensione, le turbolenze non sono nuove: nel solo 2005 secondo le autorità cinesi furono arrestati 18.227 uiguri per "minacce alla sicurezza nazionale". Gli otto milioni di uiguri dello Xinjiang sono una infima minoranza rispetto al miliardo e 300 milioni di cinesi Han; proprio come in Tibet, è in corso una politica di "assimilazione forzata" che mortifica la cultura e la religione locale, incoraggia una massiccia immigrazione di cinesi Han per ribaltare gli equilibri demografici.

Ma per quanto piccola, la diaspora islamica è diffusa in tutte le provincie della Repubblica Popolare. Non a caso la scintilla di quest' ultima rivolta sembra sia stato il linciaggio ad opera di cinesi di due operai uiguri emigrati a Canton.

La causa degli uiguri non ha un vate dal carisma universale del Dalai Lama; non gode in Occidente di simpatie equivalenti al popolo tibetano. In passato il governo di Pechino ha tacitato gli americani evocando collegamenti fra i secessionisti islamici e Al Qaeda; tanto più che alcuni militanti uiguri furono detenuti a Guantanamo, dopo essere stati catturati tra i talebani in Afghanistan.

Ma come il Tibet, anche lo Xinjiang è la prova che il sistema post-comunista soffre di una rigidità insostenibile. La cultura politica della leadership tecnocratica di Pechino - alla terza generazione dopo Mao - resta incapace di immaginare soluzioni federaliste che diano spazio all' autonomia delle minoranze. La rabbia degli uiguri che si è scatenata contro gli Han è stata ripresa con immagini agghiaccianti dalla tv di Stato di Pechino: come nel Tibet, i mass media soffiano sul nazionalismo della maggioranza cinese per legittimare il pugno di ferro.

Hu Jintao calcola che la Cina non pagherà alcun prezzo politico all' estero. E' l' impressione che gli hanno dato ieri la maggioranza dei suoi interlocutori italiani. Berlusconi ha dichiarato che "guardare alla Cina ci può tirare fuori dalla crisi"; i ministri Scajola e Urso hanno celebrato una "svolta storica"; la Fiat ha incassato un' importante joint venture sul più vasto mercato automobilistico del pianeta.

La stessa Italia che in tempi recenti invocava il protezionismo, si scopre filocinese ora che la Repubblica Popolare è una superpotenza finanziaria in grado di esportare capitali. Lo European Council of Foreign Relations definisce la politica italiana verso Pechino "mercantilismo amorale".

Anche gli altri leader del G8 saranno costrettia usarei guanti di velluto con Hu Jintao. All' Aquila il leader cinese si presenta in una posizione di forza. Guida l' unica grande economia che ha saputo evitare la recessione. E' il principale creditore degli Stati Uniti. Sta allargando la sua influenza in Africa, in America latina, con una campagna acquisti al confronto della quale gli investimenti in Italia sono pochi spiccioli. Hu Jintao è arrivato al G8 ben deciso a far pesare il suo status: chiede un ridimensionamento del ruolo globale del dollaro; un maggiore peso della Cina nelle istituzioni sovranazionali come il Fmi; condanna come "protezionismo pseudo-ambientalista" la carbon tax varata dagli Stati Uniti sulle importazioni dai paesi ad alto tasso di inquinamento.

La questione dei diritti umani forse resterà per il presidente cinese solo un fastidioso rumore di fondo; i suoi interlocutori si limiteranno a invocare "moderazione" nella risposta ai disordini dello Xinjiang. Le opinioni pubbliche democratiche ne ricaveranno una conferma dell' irrilevanza del G8.

Il genio

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Il lungo sogno fra est e ovest

da "La Repubblica" del 7/07/2009 - di Vittorio Zucconi

Esattamente 64 anni dopo l' esplosione di «Trinity», il primo ordigno atomico costruito dall' umanità, il 16 luglio del 1945 ad Alamogordo, tocca adesso a Barack Obama e a Vladimir Putin tentare l' impresa forse ormai impossibile di riportare il genio «distruttore di mondi» dentro la bottiglia dalla quale fu improvvidamente liberato.

Quello che non è riuscito a otto presidenti americani, da Eisenhowera Bush il Giovane,e non vollero, o non seppero fare Krusciov, Brezhnev, Gorbaciov ed Elstin ora cerca di fare Obama con il recalcitrante Putin. Lo fa seguendo un lungo binario di accordi per il controllo e la riduzione dei reciproci arsenali che danzano agilmente da un acronimo all' altro, Salt 1, poi Salt 2, ora Start, ma continuano a lasciare russi e americani in possesso di gigantesche scorte di ordigni, contati a migliaia, mentre troppi demenziali aspiranti giocano alla mini superpotenza nucleare.

Per la generazione dei «figli della bomba» o suoi fidanzati come ormai siamo tutti, i 64 anni trascorsi fra Hiroshima a questo «nuovo inizio» di dialogo sulle testate nucleari sono stati un percorso di progressi a singhiozzo. Un viaggio di paure tremende e di speranze, alle quali ora possiamo aggiungere anche questa timida «rasputitza», come in russo si chiama il disgelo.

A ogni avvicendarsi di leader alla Casa Bianca o sulla Piazza Rossa, siano essi democratici, repubblicani, falchi, colombe, despoti comunisti o post comunisti, il viaggio infinito sembra ricominciare, per bloccarsi, e poi ripartire, senza che mai il traguardo immaginario, quello che Ronald Reagan chiamava «l' opzione zero-zero», l' azzeramento reciproco degli arsenali, sia faccia visibile o realistico.

Ma se le cifre che abbiamo sentito fare ieri a Mosca nel tentativo di preaccordo - perchè questo è - fra Obama e Medvedev sono insieme incoraggianti e più audaci di ogni altro trattato, il dramma dell' impresa impossibile si è fatto ancora più intenso di quanto fosse negli anni dei primi catastrofici fallimenti fra Krusciov, l' Eisenhower dell' U2 abbattuto nel 1960 o il Kennedy giudicato dall' ex contadino ucraino come un «ragazzo inesperto».

Nel 1963, quando per tre giorni d' ottobre il mondo guardò negli occhi il possibile avversarsi della cupa profezia di Oppenheimer davantri a Trinity, la prima generazione di «figli della bomba» aveva almeno la certezza che, trovato «l' inghippo» su Cuba per salvare la faccia a Usa e Urss, il genio malefico sarebbe stato sotto controllo.

La certezza della reciproca distruzione, la «Mad», Mutual Assured Destruction come l' ennesimo acronimo indicava aveva almeno garantito il sonno degli arsenali, anche se il numero di testate, la loro precisione, la loro capacità di moltiplicarsi e percorrere tragitti indipendenti aveva superato le 25 mila complessive, garantendo la morte di ogni creatura vivente sulla terra «per sette volte», come aveva detto, tristemente scherzando nell' assurdo, l' astrofisico Carl Sagan.

Gli scenari alla Kubrick nel suo Stranamore erano diventati via via meno credibili, con l' aumentare della comunicazione dirette fra Washington e Mosca anche oltre la mitica telescrivente sempre attiva. E sulla realtà oggettiva di questa certezza dell' impossibilità di «vincere», si era innestata la disponibilità soggettiva di leader decisi e mettere freno a una gara ormai priva di ogni senso strategico o politico. Nixon il fiero anticomunista «duro e puro», poi Ford, il successore designato, Carter il mite, poi Reagan il crociato contro l' Impero del Male, tutti, dal primo Strategic Arms Limitation Treaty, il Salt 1, firmato a Mosca nel 1972 per limitare la crescita delle testate e dei mezzi per lanciarle, misero il proprio nome accanto a quello del «nemico».

Persino Ronald Reagan, che era stato sorpreso in fuori onda a dire, scherzando, «cari concittadini, da pochi minuti abbiamo cominciato il bombardamento dell' Unione Sovietica» e che aveva esasperato il Cremlino con la sua, allora immaginaria, «muraglia spaziale» antimissile, divenne colui che si sarebbe appartato con Gorbaciov in un bosco di Ginevra per convincerlo al salto di qualità, cioè alla riduzione, non più soltanto alla limitazione della crescita.

E poco dopo, a Rejkjavik, nella casetta bianca sul porto islandese troppo piccola per contenere le delegazioni costrette a incontrarsi anche nei bagni, avrebbe sbigottito tutti, compresi i suoi collaboratori e ministro, proponendo a «Gorby» lo zero a zero. Ma quell' accordo per una volta davvero «storico» firmato da Reagan e Gorbaciov nel 1991 precedette di soli cinque mesi il collasso definitivo dell' Urss regalando all' America e all' Occidente la più ironica delle vittorie.

Quando il genio parve finalmente ridimensionato, il crollo dell' Urss, il trionfo della jihad islamica in Afghanistan, nutrita e incoraggiata da Washington in funzione anti Urss, e i primi, visibili progressi della Cina, segnalarono che il male si stava metastasizzando.

E che il genio malefico cominciava a estendere il proprio richiamo ben oltre quella rotaia Mosca - Washington sulla quale aveva viaggiato per mezzo secolo. Dunque il possibile, se non probabile ormai, accordo fra Obama e Putin per ridurre ancora l' entità dei loro arsenali rischia di essere un sogno realizzato troppo tardi. Con bombe, testate, materiale radioattivo di qualità bellica presente in nazioni come il Pakistan, la Corea del Nord, presto l' Iran, ogni accordo suona alle orecchie di noi figli e ostaggi della bomba, come la bottiglia rinchiusa quando il genio evocato nei deserti del New Mexico se ne è già andato per sempre.

Sunny

Hebb's parents, William and Ovalla Hebb, were both blind musicians. Hebb and his older brother Harold performed as a song-and-dance team in Nashville, beginning when Bobby was three and Harold was nine. Hebb performed on a TV show hosted by country music record producer Owen Bradley, which earned him a place with Grand Ole Opry star Roy Acuff. Hebb played spoons and other instruments in Acuff's band. Harold later became a member of Johnny Bragg and the Marigolds. Bobby Hebb sang backup on Bo Diddley's "Diddley Daddy". Hebb played "West-coast-style" trumpet in a US Navy jazz band, and replaced Mickey Baker in Mickey and Sylvia.

On 23 November 1963, the day after John F. Kennedy's assassination, Harold Hebb was killed in a knife fight outside a Nashville nightclub. Hebb was devastated by both events and sought comfort in songwriting. Though many claim that the song he wrote after both tragedies was the optimistic "Sunny", Hebb himself says otherwise. He immersed himself in the Gerald Wilson album, "Would You Believe", for comfort.

"All my intentions were just to think of happier times – basically looking for a brighter day – because times were at a low tide. After I wrote it, I thought "Sunny" just might be a different approach to what Johnny Bragg was talking about in "Just Walkin' in the Rain".

da WIKIPEDIA
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Lyrics

Sunny
Yesterday my life was filled with rain
Sunny
You smiled at me and really eased the pain
Oh the dark days are gone and the bright days are here
My sunny one is shines sincere
Sunny, one so true
I love you

Sunny
Thank you the sunshine bouquet
Woah, sunny, thank you love that you brought my way
Oh now you gave to me your all and all
And now i feel like im ten feet tall
Sunny, one so true
I love you

Sunny
Thank you for the smile thats upon your face
Sunny
Thank you for that gleam that flows with grace
Your my spark of natures fire
Your my sweet, complete desire
Sunny, one so true
I love you
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La versione originale cantata da Bobby Hebb...



...una splendida cover di James Brown...



...una versione funky dei Jamiroquai...



...una versione Jazz con contaminazioni Funk...



...e un' altra cover in stile "Paolo Conte" - stavolta home-made - di questa splendida canzone!

martedì 7 luglio 2009

Riforma del processo civile

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Tempi più brevi per le cause civili e riduzione della metà dei termini per i ricorsi
(Legge 69/2009)

Tempi più brevi per le cause civili e dimezzati i termini per i ricorsi; filtro ai ricorsi in Cassazione; possibilità di testimonianze scritte; sanzioni più elevate per chi presenta istanze di ricusazione inammissibili o infondate, e penalizzazioni economiche per chi rifiuta senza motivo un tentativo di conciliazione. Inoltre aumenta la competenza del giudice di pace.

Sono le novità contenute nella riforma del processo civile in vigore dal 4 di luglio. Le novità sono contenute nel Capo IV della legge 18 giugno 2009, n. 69 - Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, pubblicata sulla gazzetta Ufficiale del 19 giugno.

Per quel che riguarda il particolare il giudice di pace ci si potrà rivolgere a lui per le cause per un valore fino a 5.000 euro (in precedenza era 2.582,28), e fino a 20.000 euro per i danni da circolazione dei veicoli.

Per sveltire i procedimenti è poi prevista la determinazione da parte del giudice del calendario del processo, e se viene proposta una conciliazione non accettata dalla parti, quando il giudice accoglie la domanda in misura non superiore alla proposta conciliativa, condanna al pagamento delle spese processuali maturate dopo la formulazione della proposta la parte che l'ha rifiutata senza giustificato motivo.

Inoltre, si concedono le deleghe al governo per riformare la giustizia amministrativa, sfoltire le forme processuali e facilitare la conciliazione nel settore commerciale e civile.

Se poi viene presentata una richiesta di ricusazione palesemente inammissibile, il giudice, con l’ordinanza con cui la rigetta ricusazione, provvede sulle spese e può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria fino a 250 euro.

In materia di ricorsi, poi l'appello, il ricorso per Cassazione non possono essere promossi superato il termine di sei mesi dalla pubblicazione d ella sentenza, contro i 12 mesi previsti in precedenza.

Il ricorso in Cassazione, infine, è inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa; quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo.
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Art. 47.
(Ulteriori modifiche al libro secondo del codice di procedura civile)
1. Al codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo l’articolo 360 è inserito il seguente:
«Art. 360-bis. – (Inammissibilità del ricorso). – Il ricorso è inammissibile:
1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa;
2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo»;

Out of club?

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Calls grow within G8 to expel Italy as summit plans descend into chaos
While US tries to inject purpose into meeting, Italy is lambasted for poor planning and reneging on overseas aid commitments

Julian Borger, diplomatic editor guardian.co.uk, Monday 6 July 2009 19.30

Preparations for Wednesday's G8 summit in the Italian mountain town of L'Aquila have been so chaotic there is growing pressure from other member states to have Italy expelled from the group, according to senior western officials.

In the last few weeks before the summit, and in the absence of any substantive initiatives on the agenda, the US has taken control. Washington has organised "sherpa calls" (conference calls among senior officials) in a last-ditch bid to inject purpose into the meeting.

"For another country to organise the sherpa calls is just unprecedented. It's a nuclear option," said one senior G8 member state official. "The Italians have been just awful. There have been no processes and no planning."

"The G8 is a club, and clubs have membership dues. Italy has not been paying them," said a European official involved in the summit preparations.

The behind-the-scenes grumbling has gone as far as suggestions that Italy could be pushed out of the G8 or any successor group. One possibility being floated in European capitals is that Spain, which has higher per capita national income and gives a greater percentage of GDP in aid, would take Italy's place.

The Italian foreign ministry did not reply yesterday to a request to comment on the criticisms.

"The Italian preparations for the summit have been chaotic from start to finish," said Richard Gowan, an analyst at the Centre for International Co-operation at New York University.
"The Italians were saying as long ago as January this year that they did not have a vision of the summit, and if the Obama administration had any ideas they would take instruction from the Americans."

The US-led talks led to agreement on a food security initiative a few days before the L'Aquila meeting, the overall size of which is still being negotiated. Gordon Brown has said Britain would contribute £1.1bn to the scheme, designed to support farmers in developing countries.

However, officials who have seen the rest of the draft joint statement say there is very little new in it. Critics say Italy's Berlusconi government has made up for the lack of substance by increasing the size of the guest list. Estimates of the numbers of heads of state coming to L'Aquila range from 39 to 44.

"This is a gigantic fudge," Gowan said. "The Italians have no ideas and have decided that best thing to do is to spread the agenda extremely thinly to obscure the fact that didn't really have an agenda."

Silvio Berlusconi has come in for harsh criticism for delivering only 3% of development aid promises made four years ago, and for planning cuts of more than 50% in Italy's overseas aid budget.

Meanwhile, media coverage in the run-up to the meeting has been dominated by Berlusconi's parties with young women, and then the wisdom of holding a summit in a region experiencing seismic aftershocks three months after a devastating earthquake as a gesture of solidarity with the local population.

The heavy criticism of Italy comes at a time when the future of the G8 as a forum for addressing the world's problems is very much in question. At the beginning of the year the G20 group, which included emerging economies, was seen as a possible replacement, but the G20 London summit in April convinced US officials it was too unwieldy a vehicle.

The most likely replacement for the G8 is likely to be between 13- and 16-strong, including rising powers such as China, India, Brazil, Mexico and South Africa, which currently attend meetings as the "outreach five" But any transition would be painful as countries jostle for a seat. Italy's removal is seen in a possibility but Spanish membership in its place is unlikely. The US and the emerging economies believe the existing group is too Euro-centric already, and would prefer consolidated EU representation. That is seen as unlikely. No European state wants to give up their place at the table.


Alcuni tra i commenti più interessati postati in coda all' articolo sul sito guardian.co.uk...

worried
07 Jul 09, 11:13am
There is another side to all of this. And the one- sidedness of this article cries out for it.
Let's put it this way, shall we?
1. None of the G8 members have anything to propose, but let's hide that behind an attack on Italy.
2. The general public doesn't even know what they are doing or why they are even bothering to spend the travel money, and the press has already clearly told everyone that the G8 is a gas house of 'senior' politicians who promise lots in front of cameras and then don't deliver. So there is no public support.
3. Berlusconi has decided to place all these pious politicians in a spot where real urgency and potential for human disaster can be felt through their feet and into their stomachs. Not a bad idea at all!!.
4. Turning on Berlusconi is simply political opportunism of the lowest kind that we rarely see out in the open.
5. Going crying to Mr Obama is either a lying slant on what is going on or a statement so dire of collective EU political backbone that the press should be taking it up.
Just to be clear to all those who think I may be ignorant of the 'Berlusconi' epic,
this article in my opinion should be about the G8 and its effectiveness and not Berlusconi.
The G8 is a collective body. It is outrageous to place collective uselessness, collective unwillingness, collective hypocrisy on the back of the organiser of this G8 using the angle that Berlusconi should be rubbished.
Have you already forgotten the photo ops with Bliar, with Sarwhosehe et al?
Come on guys? React.


monopolyongod
07 Jul 09, 11:43am

Spain could hack it. It is, suprisingly, a very un-doctranaire country. The media is, of course, owned by pressure groups, but they are reasonably well-distributed. And here we don´t have plastic olive trees planted for the EU satellite subsiduary count. We have olive trees.

FarmingFirst
07 Jul 09, 12:04pm
The G8's recent commitment to increase agriculture funding is a step in the right direction. The Farming First website has more information about how agriculture funding should be allocated. The supporter organisations have also created a video on food security and sustainable agriculture which can be seen here: www.vimeo.com/4274344

MartynInEurope
07 Jul 09, 12:09pm
Getting Spain into the G8 makes a lot of sense

Landes
07 Jul 09, 12:16pm
The G8 is dead anyway. The bilaterals of the last year, and especially the G20ish, underline it. This will go the way of the history books as a bit of a dying pantomime.
Whatever shape the world will be in in ten or twenty years time, the presence of Italy will be a sign that an organisation is beyond use. Italy's only hope is secession of the northern half/third to reconnect politicians at the state level with how the country really works and thinks. Otherwise its future is that of a cultural disneyland, glad to have the legacy of the past to allow it to make some money in the present.

lunedì 6 luglio 2009

La nuova ondata

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"Visto da Agadez, l'ultimo abbraccio tra il premier Silvio Berlusconi e il colonnello Muhammar Gheddafi è una beffa. In questa splendida città di fango rosso in mezzo al Sahara in Niger, l'accordo sull'immigrazione ratificato a Tripoli il 2 marzo scorso è già carta straccia. Da Agadez i camion e i fuoristrada stracarichi di emigranti africani che sperano di arrivare a Lampedusa, in Italia o in Europa hanno ripreso i loro viaggi verso la Libia. Il traffico è ripartito come ai tempi d'oro. Sotto lo sguardo indifferente e spesso interessato dell'esercito libico che controlla la pista di rocce e sabbia alla frontiera di Tumu, nel silenzio del deserto.

Gheddafi, a sud del Sahara, oggi è soltanto un esecutore di decisioni prese a Parigi. Per fermare o rallentare la marcia dei clandestini verso il loro futuro, Berlusconi dovrebbe piuttosto chiedere l'intervento del presidente francese Nikolas Sarkozy: perché la via ai trafficanti di uomini è stata riaperta proprio grazie alla guerra dei tuareg. Una guerra per l'uranio sostenuta dalla Francia nella regione di Agadez.

Ecco come si inventa una guerra in Africa.


Autunno 2006
Il governo del Niger, grande esportatore di uranio dopo il Canada e tra i paesi più poveri al mondo, dichiara di voler affidare la ricerca mineraria a tutte le società che meglio pagano le concessioni. Il colosso statale francese Areva vuole per sé tutti i primi 35 permessi di ricerca messi sul mercato. La diplomazia di Parigi pretende di far valere un accordo militare del 1961 che stabilisce: "La Repubblica francese è tenuta informata dei programmi e dei progetti concernenti esportazione delle materie prime e dei prodotti strategici... La Repubblica del Niger garantisce la priorità della loro vendita alla Repubblica francese dopo aver soddisfatto le necessità di consumo interno". Il Niger non ha centrali nucleari e nemmeno bombe atomiche.

Gennaio 2007
La Francia perde il monopolio dell'uranio in Niger. Il governo concede la ricerca dei giacimenti nella regione di Agadez, la zona tuareg, a Canada (15 permessi), Australia (7), Sudafrica (6), Francia (4, tutti ad Areva), India (3), Cina (2), Russia (2), Stati Uniti (1), Emirati Arabi (1), Regno Unito (1), Isole Vergini (1).

8 febbraio 2007
Attacco terroristico con armi pesanti contro l'esercito del Niger nell'oasi di Iferouane da parte di un commando tuareg. Da quel momento il commando si fa chiamare Movimento dei nigerini per la giustizia (Mnj).

30-31 marzo 2007
Il colonnello libico Muhammar Gheddafi, in visita ad Agadez, dichiara alla folla che Gesù non è morto sulla croce. Forse un messaggio in codice. Nelle settimane successive si scopre che il seguito di Gheddafi ha fatto arrivare nella regione casse con armi e munizioni per il movimento tuareg.

14-19 aprile 2007
Danni e feriti per l'esplosione delle mine piazzate dal Mnj a nord di Iferouane. Sono vecchi ordigni italiani e cecoslovacchi comprati in Ciad dopo la sospensione delle operazioni di sminamento sostenute dalle Nazioni Unite.

20 aprile 2007
Rapina di telefoni satellitari da parte dei tuareg del Mnj al cantiere della società nucleare francese Areva a Imouraren, secondo giacimento di uranio al mondo, ancora da sfruttare.

21-22 aprile 2007
Offensiva dell'esercito all'Adrar Chiriet, ai margini del deserto del Ténéré. Contrattacco del Mnj.

22 aprile 2007
Un convoglio militare con cinque fuoristrada salta sulle mine.

2 giugno 2007
Il Mnj accusa l'esercito di aver assassinato tre anziani tuareg. Gli 007 dell'esercito rispondono che si trattava di pastori incaricati dal Mnj di piazzare mine dietro il compenso di 160 mila franchi, 243 euro, l'equivalente di dieci mesi di stipendio di un soldato.

17 giugno 2007
Il Mnj attacca l'aeroporto di Agadez.

22 giugno 2007
Sconfitta dell'esercito nel villaggio di Tazarzayt: 15 morti, 72 prigionieri, 43 feriti. Ucciso Aboubacar Alambo, fondatore del Mnj.

26 giugno 2007
Espulsione dal Niger di Gilles de Namur, ex addetto militare all'ambasciata di Francia e responsabile per Areva della protezione del megagiacimento di uranio a Imouraren. Si scopre che Areva aveva a libro paga, per 85mila 365 euro, il capitano Mohamed Ajidar, poi diventato uno dei comandanti dei tuareg.

12 luglio 2007
Su Tele Sahel, la tv di Stato, un deputato e i rappresentanti della società civile accusano Francia e Areva di sostenere la guerra tuareg
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19 luglio 2007
Nuove accuse alla Francia e ad Areva dalla televisione di Stato.

21 luglio 2007
Il presidente dell'Alta corte di giustizia del Niger chiama in causa l'imperialismo libico.

23 luglio 2007
Attacco a una colonna dell'esercito: 10 morti, sostiene il Mnj.

24 luglio 2007
Ordine d'arresto ed espulsione firmato dal ministro dell'Interno contro Dominique Pin, direttore generale di Areva Niger. Pin è in Francia ed evita il carcere. Il colonnello Gheddafi regala la scena internazionale al presidente francese Nicolas Sarkozy, offrendo e concedendo alla Francia la liberazione delle infermiere bulgare accusate di aver infettato i bambini con il virus dell'Aids.

5 agosto 2007
Incontro a Niamey tra il segretario di Stato alla Difesa francese, Jean-Marie Bockel e il presidente del Niger, Mamadou Tandja. Firma dell'accordo tra il governo del Niger e Areva sull'aumento del prezzo del minerale di uranio venduto alla Francia: da 41 a 60 euro al chilo.

9 agosto 2007
Attacco del Mnj al deposito di carburante di Agadez e alla centrale elettrica.

20 agosto 2007
Un camion militare salta sulle mine nella zona dei giacimenti.

25 agosto 2007
Il presidente del Niger dichiara lo stato d'allerta nella regione di Agadez. È guerra.

Fine agosto 2007
Espulsione dal Niger di Kassoum Namari, console di Libia ad Agadez, per ingerenza negli affari interni.

Inverno-autunno 2008
Proseguono combattimenti e imboscate.

Novembre 2008
Guerriglieri tuareg, militari e trafficanti libici, nigerini e nigeriani si accordano sottobanco ad Agadez per organizzare il traffico di clandestini verso l'Italia, bloccato dall'esercito dal 2005.

14 dicembre 2008
Rapimento in Niger dell'ambasciatore Robert Fowler, inviato dell'Onu, di Louis Guay e del loro autista nigerino Soumana Mounkaila: Fowler e Guay, canadesi, si stavano occupando di giacimenti.

5 gennaio 2009

Accordo tra il governo del Niger e l'ad di Areva, Anne Lauvergeon, per lo sfruttamento del mega-giacimento di Imouraren che garantirà alla Francia 5 mila tonnellate all'anno di uranio per 35 anni, il doppio di quanto Areva già estrae in Niger.

2 febbraio 2009
Gheddafi ottiene l'elezione a presidente dell'Unione africana.

24 febbraio 2009
Areva in crisi finanziaria cerca clienti. Patto tra Berlusconi e Sarkozy per il ritorno al nucleare in Italia.

14 marzo 2009
Gheddafi, in visita a Niamey, vuole imporre l'amnistia per i tuareg che depongono le armi. Ormai la guerra non serve più.

27 marzo 2009
Il presidente Sarkozy vola a Niamey per firmare la convenzione sul megagiacimento di Imouraren.

Da novembre 2008 migliaia di persone sono passate dalla città rossa per andare a nord. Con un record di partenze tra gennaio e febbraio: quasi 10 mila ragazzi e ragazze in fuga dall'Africa occidentale. Dalla prossima estate capiremo se questa generazione di ventenni avrà trovato lavoro in Libia o apparirà nei telegiornali sui barconi alla deriva nel Mediterraneo. Il loro obiettivo, dicono, è arrivare in Italia o da qualche parte in Europa.

Il 24 febbraio Berlusconi ha incontrato Sarkozy. Ma non gli ha parlato di immigrazione. I due hanno discusso di ritorno all'energia nucleare in Italia. E di contratti per miliardi di euro da oggi al 2030 a vantaggio di Parigi. Areva, il colosso statale del nucleare francese, ha bisogno di nuovi clienti. Perché dal 2012 la società avrà così tanto uranio a disposizione che, per ammortizzare un investimento iniziale di 1,2 miliardi di euro, deve trovare subito qualcuno disposto a comprarlo. Altrimenti rischia di pagare cara la crisi finanziaria in cui è caduta. Tutto quell'uranio, però, non è ancora arrivato in Francia. Per il momento è in Niger, vicino ad Agadez: a Imouraren, sotto la sabbia nel mega-giacimento che comincerà a produrre fra tre anni, il secondo al mondo dopo McArthur River in Canada.

Quello che nella sua visita a Roma il 24 febbraio Sarkozy non ha detto a Berlusconi è che la Francia in Niger ha giocato una partita sporca. Come era abituata a fare in Africa ai tempi del generale Charles de Gaulle. E solo alla fine Areva è riuscita a strappare al Canada e alla Cina la concessione per il mega-giacimento di Imouraren. Ma Sarkozy nemmeno ha raccontato a Berlusconi che i tuareg, sostenuti dagli 007 francesi nei giochi di guerra, si sono rimessi a trafficare con gli emigranti che vogliono approdare in Italia. In fondo, si tratta sempre di energia e forza lavoro destinate ad alimentare l'economia europea. La differenza è che i minerali di uraninite trasformati in sali di uranio viaggiano protetti fino agli impianti di arricchimento in Francia. Gli emigranti sono invece sottoposti a ogni tipo di violenze e il 12 per cento muore prima di arrivare in Europa."


da "La nuova ondata", inchiesta di Fabrizio Gatti de L'espresso (26/03/2009)

Racconti d'evasione



Dirty play

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"(...) "il sistema della porta girevole": l'interscambiabilità dei ruoli, l'osmosi tra pubblico e privato, le carriere che si alternano tra i vertici dello Stato e i vertici del capitalismo. Ci fu un tempo in cui l'Europa studiava con ammirazione questo modello. Ci sembrava la garanzia di un flusso di competenze eccellenti dentro l'amministrazione pubblica. Rispetto a certe leve di burocrati nostrani cresciuti solo nei corridoi ministeriali, gli uomini di Stato americani conoscono l'economia reale, si sono cimentati con il mondo del business, portano nella politica il pragmatismo e la concretezza. Ora i difetti di quel sistema sono emersi alla luce del sole. Le regole e i controlli che dovrebbero disciplinare la finanza vengono disegnati da chi è troppo contiguo con i vertici del capitalismo.

Una conferma del pericolo si è avuta nelle prime mosse dell'amministrazione Obama alle prese con il groviglio dei tutoli tossici. Nell'aprile 2009, mentre a Londra Obama e gli altri leader dei paesi del G20 assumevano l'impegno solenne di varare regole più severe sui mercati finanziari, alla chetichella l'America ha fatto un passo indietro riscoprendo la deregulation a favore della "finanza creativa". L'authority che fissa le norme sulla contabilità ha deciso di allentare i criteri di valutazione dei titoli tossici. Fino a quel momento valeva una norma chiamata "mark-to-market": le banche erano tenute ad assegnare ai titoli che possiedono un valore calcolato in tempo reale in base alla loro quotazione di mercato. E' così che i maggiori istituti di credito del mondo sono stati costretti a rivelare delle voragini nei loro bilanci. Montagne di titoli-spazzatura, infatti, non trovano acquirenti sul mercato se non a prezzi che sono una minuscola frazione del loro valore teorico (quello nominale o di emissione). Di fronte a questa diffidenza dei mercati e alla latitanza di acquirenti, i banchieri erano obbligati a svalutare i loro portafogli-titoli, con una spirale di perdite. E' quella regola contabile che ha precipitato i fallimenti bancari (come Lehman), le nazionalizzazioni ufficiali o di fatto (da Aig a Royal Bank of Scotland).

Poi è scattato il contrordine. Il Financial Accounting Standards Board (Fasb), authority che determina i requisiti della contabilità societaria, ha varato una sorta di indulgenza plenaria. Il "mark-to-market" è stato sospeso di fatto. Le banche possono usare un criterio più flessibile. Sono autorizzate ad attribuire ai loro titoli un "fair value", un valore equo che possono determinare a loro giudizio. I titoli tossici possono essere rivalutati d'incanto, se solo le banche che li detengono decidono che il loro valore reale è superiore a quello di mercato. Pazienza se non ci sono acquirenti a cui venderli; quei titoli spazzatura possono diventare ben più pregiati se questa è l'opinione di chi redige i bilanci. Di conseguenza si allenta sulle aziende di credito la pressione per rivelare le perdite legate al deprezzamento di quei titoli.

La svolta nei criteri contabili non era inattesa. Per mesi i banchieri si erano battuti con discrezione per ottenere la deregulation dei bilanci. Suscitando ulteriore indignazione tra i contribuenti americani, si è scoperto che le stesse banche seminazionalizzate, dopo aver ricevuto centinaia di miliardi di aiuti, hanno aumentato le loro spese di lobbying per far pressione sul Congresso e sull'amministrazione Obama.

I banchieri spiegano così la loro richiesa: nella crisi alcuni mercati di fatto hanno smesso di funzionare; l'assenza di fiducia ha fatto scomparire gli investitori per certi prodotti finanziari; in questo caso le quotazioni di mercato non hanno più senso e doverle usare è una penalizzazione assurda. Le perdite di bilancio, secondo questa tesi, sono temporanee perchè in futuro gli stessi titoli tossici potranno ritrovare acquirenti a valori più ragionevoli. Oppure le banche potranno tenersi i titoli fino alla scadenza, e non sempre i debitori che sono all'origine di quei titoli si riveleranno insolventi. Costringere le banche a deprezzare pesantemente quei titoli non fa che alimentare la spirale della sfiducia. Questi argomenti hanno fatto breccia nelle autorità e i banchieri l'hanno spuntata. Così il rischio si è spostato nuovamente altrove: dalla parte dei risparmiatori che devono accettare a scatola chiusa i bilanci bancari. All'origine di questa crisi ci fu proprio la mancanza di trasparenza. Quando le banche di tutto il mondo fecero incetta di titoli-spezzatino legati ai mutui subprime, quei titoli avevano l'etichetta della "tripla A" generosamente rilasciata dalle agenzie di rating. Tutte in conflitto di interessi, perchè pagate dagli emittenti dei titoli.

L'indulgenza contabile varata dal Fasb rischia di riprodurre i medesimi problemi: mancanza di trasparenza e conflitto d'interessi visto che saranno gli stessi banchieri ad attribuire un prezzo ai titoli che hanno in casa. Ma non aspettiamoci che sia Larry Summers a denunciare una congiura dei "soliti noti"."

da "Le dieci cose che non saranno più le stesse" di Federico Rampini

domenica 5 luglio 2009

Alla deriva

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"Se (...) il computer e Internet hanno trasformato il flusso delle informazioni, l'avvento del container ha rivoluzionato il flusso planetario di tutte le merci, dalle materie prime agli oggetti di consumo. I vestiti che indosso in questo momento, i mobili di casa mia, il mio telefonino, il computer, gli ingredienti del mio pranzo: quasi tutto è arrivato via mare o su Tir o su treno, al supermercato o nella boutique, dopo essere stato imballato e caricato in uno dei milioni di container, rigorosamente identici per formato e dimensioni che attraversano i continenti senza sosta, nel viavai incessante del commercio globale Per anni ci siamo abituati al fatto che le merci cinesi ci arrivavano in casa a una frazione del costo degli stessi prodotti fatti a Biella o Treviso. In realtà è il crollo dei costi di trasporto che ha cambiato la logica degli scambi, ha sconvolto la specializzazione internazionale del lavoro. C'è un mondo "prima" e "dopo" l'avvento del container.
(...)
Il crollo del costo dei trasporti a lunga distanza ha consentito quella seconda rivoluzione industriale chiamata il toyotismo: la capacità delle multinazionali di regolare con precisione assoluta il flusso della produzione, modificando continuamente il lavoro delle fabbriche per adattarlo alle scelte del consumatore.
(...)
L'impatto del rincaro energetico sul trasporto marittimo negli ultimo otto anni è l'equivalente di un dazio aggiuntivo del 9% su tutte le merci importate. La geografia tornava a dilalatarsi, gli spazi si allungavano. Nell'era del petrolio a buon mercato si era considerata una specializzazione internazionale del lavoro che ignorava il fattore spazio. Nel biennio 2007-2008 per lo choc petrolifero ogni settore dell'economia ha dovuto rifarsi velocemente i conti, per controllare di non aver costruito il suo modello di business sui costi sbagliati.
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Quella "parentesi" di iperinflazione dei noli marittimi nel 2007-2008 è stata seguita da un contro-choc di natura contraria, ma altrettanto violento. Il crollo mondiale delle esportazioni - sentito in modo particolarmente pesante proprio dalle nazioni asiatiche che sono anche le nuove regine della Marina mercantile - ha rallentato di colpo l'attività navale."
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da "Le dieci cose che non sarano più le stesse" di Federico Rampini

Green taxes

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"Si tinge di verde l'ultima trovata protezionistica. Negli Stati Uniti spunta l'idea di introdurre una carbon-tax - o meglio un "dazio carbonico" - sulle importazioni provenienti da paesi che non adottano tetti alle emissioni di CO2. La proposta potrebbe colpire pesantemente i prodotti made in China sul mercato americano.
L'idea di un dazio ambientalista è stata discussa esplicitamente dal segretario Usa all'Energia Steve Chu (che per un'ironia della sorte è etnicamente cinese-americano). La sua genesi è legata alla svolta di Obama sul cambiamento climatico e le politiche ambientali. Capovolgendo la linea di George W. Bush, il presidente vuole adottare un tetto alle emissioni di CO2 per l'industria americana, legato alla creazione di un mercato per i diritti di emissioni carboniche, cioè un sistema analogo a quello già in vigore nell'UE.

Affinchè le imprese americane non si trovino in una situazione di svantaggio competitivo rispetto alla concorrenza estera, l'amministrazione Obama non esclude di colpire con un dazio verde i prodotti provenienti da pesi che non applicano tetti alle emissioni di CO2 per le loro imprese. Si tratta in particolare delle potenze emergenti quali Cina e India. La Repubblica popolare aderì a suo tempo al Trattato di Kyoto per la lotta al cambiamento climatico, ma avvantaggiandosi di una clausola prevista per i paesi emergenti che la esenta dal fissare limiti alle emissioni carboniche.

La reazione di Pechino è stata una dura condanna. Xie Zhenhua, capo del comitato intergovernativo sul canbiamento climatico, ha dichiarato: " Ci opponiamo all'uso della questione ambientale come un pretesto per praticare il protezionismo" (...)

Il governo di Pechino sottolinea che il balzo cinese nelle emissioni di CO2 è solo recente mentre il cambiamento climatico è stato provocato da decenni di inquinamento nei paesi di vecchia industrializzazione. inoltre i leader cinesi accusano le multinazionali occidentali di avere delocalizzato le produzioni più inquinanti nei paesi emergenti."
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da "Le dieci cose che non saranno più le stesse" di Federico Rampini

sabato 4 luglio 2009

New priorities

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"Chiamavi Houston per una prenotazione di volo, di hotel o di autonoleggio. Ti rispondeva una voce suadente e gentile da Mumbai. L'ubiquità dei "numeri verdi" era diventata un simbolo della nostra epoca che cancella le distanze e i fusi orari. Presto, invece, diventerà il ricordo di un capitolo di storia che si chiude? I celebri call center indiani sono l'ultima vittima della recessione globale. Dopo anni in cui l'outsourcing dell'assistenza ai clienti sembrava una tendenza inarrestabile, molte multinazionali americane stanno cambiando idea: controdine, è il momento di ri-localizzare i call center vicino a casa. La maggiore attenzione ai desideri della clientela e una forma di protezionismo mascherato mettono in crisi uno dei fenomeni più appariscenti della globalizzazione.

A salvarli non sono bastati gli intensi "corsi di pronuncia", quei mesi di addestramento obbligatorio per dare ai giovani di Bangalore lo stesso accento di Kansas City ed evitare al cliente americano ogni disagio linguistico. malgrado gli sforzi per dissimulare pronuncia e nazionalità dell'interlocutore, i passeggeri americani che prenotavano un volo o che protestavano per una valigia smarrita spesso intuivano che il call center della Delta Airlines o della United rispondeva da migliaia di chilometri di distanza. Tuttavia per anni le multinazionali hanno ignorato il fastidio del consumatore e hanno insistito su quella formula magica per ridurre i costi: la delocalizzazione di tutti i servizi di assistenza alla clientela. Il salario mensile è sotto i 500 dollari per l'addetto a un call center indiano. Cioè un sesto dello stipendio lordo che si paga in America per la stessa mansione. Quel divario economico sembrava incolmabile. Ma la caduta dei consumi fa vacillare le certezze manageriali più consolidate. In una fase in cui i clienti si fanno rari e preziosi, il loro parere riceve un po' più di attenzione; bistrattarli diventa rischioso. E i call center indiani, si scopre, sono tutt'altro che amati dalla clientela del Midwest.
Un'altra motivazione interviene per quelle aziende Usa che hanno ricevuto o attendono degli aiuti di stato: prima di licenziare dipendenti americani, è politicamente accorto cominciare a tagliare l'occupazione straniera. Per l'industria dell'outsourcing, uno dei motori del miracolo economico indiano, è un colpo duro. Una delle scene centrali del film The Millionaire si svolge proprio in un call center di Mumbai, posto di lavoro ambito per una generazione di giovani istruiti e anglofoni.

La Delta Airlines, tra le maggiori compagnie aeree del mondo, ha smesso di usare call center indiani dall'inizio del 2009. Prenotazioni, biglietti elettronici, reclami per bagali smarriti non saranno più gestiti da centri di assistenza situati all'estremità opposto del pianeta. Il chief executive della compagnia, Richard Anderson, ha spiegato la decisione ai dipendenti: " Dai nostri passeggeri abbiamo avuto delle reazioni molto negative. La pratica di usare call center situati in nazioni lontane è decisamente poco gradita, i clienti lamentano di avere difficoltà di comunicazione".

Suscita qualche curiosità la tempistica di questo annuncio. I call center indiani sono stati usati per molti anni, durante i quali evidentemente il parere dei suoi passeggeri americani non stava in cima ai pensieri dell'amministratore delegato. ma i tempi cambiano e le priorità del top management devono adeguarsi molto in fretta. Con aerei che viaggiano semivuoti, sopratutto in prima classe in business, che sono i segmenti di clientela più redditizi, l'insoddisfazione dei passeggeri preoccupa.

Un esperto nella gestione dell'outsourcing, Ben Trowbridge della società Alsbridge di Dallas, spiega così la svolta: "E' chiaro che avere i dipendenti in India è un risparmio considerevole sui costi. Oggi, però, si pone la questione se sia più importante ridurre i costi o migliorare il rapporto con il consumatore". E i call center indiani sono la prima vittima di questo - proclamato - ritorni alla qualità del servizio.

United Airlines, altro gigante del trasporto aereo Usa, conferma la stessa scelta: basta con i call center indiani, si torna a casa, costi quel che costi. La US Airways chiude i call center delocalizzati in America centrale, Guatemala e Salvador. Con la diminuzione del traffico passeggeri, e quindi il calo nel volume di chiamate per l'assistenza telefonica, la portavoce Valerie Wunder spiega che "US Airways coglie l'opportunità per concentrare il lavoro negli Stati Uniti".

Si affaccia così l'altra motivazione più o meno esplicita: il nazionalismo economico. I leader di tutti i paesi sono unanimi nel condannare il protezionismo, a parole, ma sanno che nell'opinione pubblica c'è un umore propenso a scaricare sugli altri i costi della crisi. I capi-azienda hanno fiutato l'aria che tira. Se hanno ricevuto aiuti pubblici - o temono che dovranno chiederli in futuro - non vogliono scoprire il fianco alle accuse politiche. Guai se un'azienda Usa che elemosina sussidi dal Congresso si fa scoprire in flagrante peccato di delocalizzazione. Il contribuente americano è esasperato dai continui salvataggi di grandi aziende, chiede che i suoi soldi servano a frenare l'emorragia di posti di lavoro in casa. Anche la Chrysler, dopo mesi di negoziati con sindacati metalmeccanici, creditori, Fiat e amministrazione Obama, ha annunciato la chiusura del centro di assistenza post-vendita (al telefono e online) che da anni era operativo in India. Licenziare gli indiani è parso un pasaggio obbligato per convincere i colletti blu di Detroit ad accettare nuovi tagli su salari, pensioni e assistenza sanitaria."

da "Le dieci cose che non saranno più le stesse" di Federico Rampini