mercoledì 8 luglio 2009

Business is business

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Bandiera della repubblica islamica fondata dagli uiguri del Sinkiang meridionale, in rivolta contro la Cina. In uso dal 1933 al 1934, quando i cinesi ripresero il controllo della regione. Il crescente e la stella con la shahada erano simboli panislamici. L'azzurro era il colore degli uiguri (turco-mongoli).
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Tra affari e repressione
da "La Repubblica" del 7/07/2009 / di Federico Rampini

Due miliardi di dollari di investimenti in Italia. 156 morti nella rivolta della minoranza islamica uigura. Una terribile contraddizione pesa sulla visita del presidente cinese Hu Jintao a Roma. La cronaca è dilaniata, schizofrenica: da una parte la passerella trionfale di fronte al governo italianoe alla Confindustria; dall' altra il tragico bollettino di guerriglia urbana dalla Cina.

Tocca a Napolitano, da solo, sollevare il problema: «Il progresso economico e sociale della Cina pone nuove esigenze in materia di diritti umani». Il governo invece, a partire dal presidente del Consiglio, tace sull' argomento.

Eppure il bilancio della sommossa di Urumqi evoca il più grave massacro dopo quello del 4 giugno 1989 a Piazza Tienanmen. A vent' anni di distanza tocca alla minoranza islamica dello Xinjiang subire l' implacabile macchina repressiva della Repubblica Popolare.

Accade proprio mentre il leader di Pechino guida una delegazione di imprenditori a caccia di investimenti nelle aziende italiane, e poi si accinge a recitare un ruolo da protagonista al G8 dell' Aquila.

Hu Jintao avrebbe fatto a meno di questo "incidente" per la sua immagine proprio alla vigilia del summit. Così come, l' anno scorso, si sarebbe risparmiato volentieri la ribellione del Tibet a pochi mesi dalle Olimpiadi. Sospettoso come ogni sistema autoritario, il regime cinese vede complotti dappertutto. Nel 2008 denunciò una congiura del Dalai Lama contro le Olimpiadi. Oggi accusa Rebiya Kadeer, leader uigura in esilio anche lei ultrasettantenne, di aver fomentato violenze secessioniste a Urumqi.

Non c' è bisogno di una regìa esterna per spiegare l' esasperazione di tutte le minoranze sottoposte al giogo centralista di Pechino. Gli uiguri sono un' etnìa turcomanna che la Repubblica Popolare si è annessa dal 1949. La loro provincia ricca di materie prime è vastissima, e ha 5.600 km di frontiera esterna con otto nazioni di cui cinque di religione musulmana. I cinesi la chiamano Xinjiang ma gli uiguri continuano a preferire un altro nome: Turkestan orientale. Si sentono occupati, separati dai fratelli di fede musulmana che vivono oltre il confine, oppressi e discriminati.

E' una zona ad alta tensione, le turbolenze non sono nuove: nel solo 2005 secondo le autorità cinesi furono arrestati 18.227 uiguri per "minacce alla sicurezza nazionale". Gli otto milioni di uiguri dello Xinjiang sono una infima minoranza rispetto al miliardo e 300 milioni di cinesi Han; proprio come in Tibet, è in corso una politica di "assimilazione forzata" che mortifica la cultura e la religione locale, incoraggia una massiccia immigrazione di cinesi Han per ribaltare gli equilibri demografici.

Ma per quanto piccola, la diaspora islamica è diffusa in tutte le provincie della Repubblica Popolare. Non a caso la scintilla di quest' ultima rivolta sembra sia stato il linciaggio ad opera di cinesi di due operai uiguri emigrati a Canton.

La causa degli uiguri non ha un vate dal carisma universale del Dalai Lama; non gode in Occidente di simpatie equivalenti al popolo tibetano. In passato il governo di Pechino ha tacitato gli americani evocando collegamenti fra i secessionisti islamici e Al Qaeda; tanto più che alcuni militanti uiguri furono detenuti a Guantanamo, dopo essere stati catturati tra i talebani in Afghanistan.

Ma come il Tibet, anche lo Xinjiang è la prova che il sistema post-comunista soffre di una rigidità insostenibile. La cultura politica della leadership tecnocratica di Pechino - alla terza generazione dopo Mao - resta incapace di immaginare soluzioni federaliste che diano spazio all' autonomia delle minoranze. La rabbia degli uiguri che si è scatenata contro gli Han è stata ripresa con immagini agghiaccianti dalla tv di Stato di Pechino: come nel Tibet, i mass media soffiano sul nazionalismo della maggioranza cinese per legittimare il pugno di ferro.

Hu Jintao calcola che la Cina non pagherà alcun prezzo politico all' estero. E' l' impressione che gli hanno dato ieri la maggioranza dei suoi interlocutori italiani. Berlusconi ha dichiarato che "guardare alla Cina ci può tirare fuori dalla crisi"; i ministri Scajola e Urso hanno celebrato una "svolta storica"; la Fiat ha incassato un' importante joint venture sul più vasto mercato automobilistico del pianeta.

La stessa Italia che in tempi recenti invocava il protezionismo, si scopre filocinese ora che la Repubblica Popolare è una superpotenza finanziaria in grado di esportare capitali. Lo European Council of Foreign Relations definisce la politica italiana verso Pechino "mercantilismo amorale".

Anche gli altri leader del G8 saranno costrettia usarei guanti di velluto con Hu Jintao. All' Aquila il leader cinese si presenta in una posizione di forza. Guida l' unica grande economia che ha saputo evitare la recessione. E' il principale creditore degli Stati Uniti. Sta allargando la sua influenza in Africa, in America latina, con una campagna acquisti al confronto della quale gli investimenti in Italia sono pochi spiccioli. Hu Jintao è arrivato al G8 ben deciso a far pesare il suo status: chiede un ridimensionamento del ruolo globale del dollaro; un maggiore peso della Cina nelle istituzioni sovranazionali come il Fmi; condanna come "protezionismo pseudo-ambientalista" la carbon tax varata dagli Stati Uniti sulle importazioni dai paesi ad alto tasso di inquinamento.

La questione dei diritti umani forse resterà per il presidente cinese solo un fastidioso rumore di fondo; i suoi interlocutori si limiteranno a invocare "moderazione" nella risposta ai disordini dello Xinjiang. Le opinioni pubbliche democratiche ne ricaveranno una conferma dell' irrilevanza del G8.

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