
"Chiamavi Houston per una prenotazione di volo, di hotel o di autonoleggio. Ti rispondeva una voce suadente e gentile da Mumbai. L'ubiquità dei "numeri verdi" era diventata un simbolo della nostra epoca che cancella le distanze e i fusi orari. Presto, invece, diventerà il ricordo di un capitolo di storia che si chiude? I celebri call center indiani sono l'ultima vittima della recessione globale. Dopo anni in cui l'outsourcing dell'assistenza ai clienti sembrava una tendenza inarrestabile, molte multinazionali americane stanno cambiando idea: controdine, è il momento di ri-localizzare i call center vicino a casa. La maggiore attenzione ai desideri della clientela e una forma di protezionismo mascherato mettono in crisi uno dei fenomeni più appariscenti della globalizzazione.
A salvarli non sono bastati gli intensi "corsi di pronuncia", quei mesi di addestramento obbligatorio per dare ai giovani di Bangalore lo stesso accento di Kansas City ed evitare al cliente americano ogni disagio linguistico. malgrado gli sforzi per dissimulare pronuncia e nazionalità dell'interlocutore, i passeggeri americani che prenotavano un volo o che protestavano per una valigia smarrita spesso intuivano che il call center della Delta Airlines o della United rispondeva da migliaia di chilometri di distanza. Tuttavia per anni le multinazionali hanno ignorato il fastidio del consumatore e hanno insistito su quella formula magica per ridurre i costi: la delocalizzazione di tutti i servizi di assistenza alla clientela. Il salario mensile è sotto i 500 dollari per l'addetto a un call center indiano. Cioè un sesto dello stipendio lordo che si paga in America per la stessa mansione. Quel divario economico sembrava incolmabile. Ma la caduta dei consumi fa vacillare le certezze manageriali più consolidate. In una fase in cui i clienti si fanno rari e preziosi, il loro parere riceve un po' più di attenzione; bistrattarli diventa rischioso. E i call center indiani, si scopre, sono tutt'altro che amati dalla clientela del Midwest.
Un'altra motivazione interviene per quelle aziende Usa che hanno ricevuto o attendono degli aiuti di stato: prima di licenziare dipendenti americani, è politicamente accorto cominciare a tagliare l'occupazione straniera. Per l'industria dell'outsourcing, uno dei motori del miracolo economico indiano, è un colpo duro. Una delle scene centrali del film The Millionaire si svolge proprio in un call center di Mumbai, posto di lavoro ambito per una generazione di giovani istruiti e anglofoni.
La Delta Airlines, tra le maggiori compagnie aeree del mondo, ha smesso di usare call center indiani dall'inizio del 2009. Prenotazioni, biglietti elettronici, reclami per bagali smarriti non saranno più gestiti da centri di assistenza situati all'estremità opposto del pianeta. Il chief executive della compagnia, Richard Anderson, ha spiegato la decisione ai dipendenti: " Dai nostri passeggeri abbiamo avuto delle reazioni molto negative. La pratica di usare call center situati in nazioni lontane è decisamente poco gradita, i clienti lamentano di avere difficoltà di comunicazione".
Suscita qualche curiosità la tempistica di questo annuncio. I call center indiani sono stati usati per molti anni, durante i quali evidentemente il parere dei suoi passeggeri americani non stava in cima ai pensieri dell'amministratore delegato. ma i tempi cambiano e le priorità del top management devono adeguarsi molto in fretta. Con aerei che viaggiano semivuoti, sopratutto in prima classe in business, che sono i segmenti di clientela più redditizi, l'insoddisfazione dei passeggeri preoccupa.
Un esperto nella gestione dell'outsourcing, Ben Trowbridge della società Alsbridge di Dallas, spiega così la svolta: "E' chiaro che avere i dipendenti in India è un risparmio considerevole sui costi. Oggi, però, si pone la questione se sia più importante ridurre i costi o migliorare il rapporto con il consumatore". E i call center indiani sono la prima vittima di questo - proclamato - ritorni alla qualità del servizio.
United Airlines, altro gigante del trasporto aereo Usa, conferma la stessa scelta: basta con i call center indiani, si torna a casa, costi quel che costi. La US Airways chiude i call center delocalizzati in America centrale, Guatemala e Salvador. Con la diminuzione del traffico passeggeri, e quindi il calo nel volume di chiamate per l'assistenza telefonica, la portavoce Valerie Wunder spiega che "US Airways coglie l'opportunità per concentrare il lavoro negli Stati Uniti".
Si affaccia così l'altra motivazione più o meno esplicita: il nazionalismo economico. I leader di tutti i paesi sono unanimi nel condannare il protezionismo, a parole, ma sanno che nell'opinione pubblica c'è un umore propenso a scaricare sugli altri i costi della crisi. I capi-azienda hanno fiutato l'aria che tira. Se hanno ricevuto aiuti pubblici - o temono che dovranno chiederli in futuro - non vogliono scoprire il fianco alle accuse politiche. Guai se un'azienda Usa che elemosina sussidi dal Congresso si fa scoprire in flagrante peccato di delocalizzazione. Il contribuente americano è esasperato dai continui salvataggi di grandi aziende, chiede che i suoi soldi servano a frenare l'emorragia di posti di lavoro in casa. Anche la Chrysler, dopo mesi di negoziati con sindacati metalmeccanici, creditori, Fiat e amministrazione Obama, ha annunciato la chiusura del centro di assistenza post-vendita (al telefono e online) che da anni era operativo in India. Licenziare gli indiani è parso un pasaggio obbligato per convincere i colletti blu di Detroit ad accettare nuovi tagli su salari, pensioni e assistenza sanitaria."
da "Le dieci cose che non saranno più le stesse" di Federico Rampini
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