
"La legittimità dei dirigenti aziendali subisce un attacco concentrico, da più fronti. L'America scopre che la sua "corporate governance" è fasulla. In teoria, nella società per azioni i manager devono rendere conto in ultima istanza ai propri azionisti. Ma quando sono scoppiati a ripetizione gli scandali sulle assurde gratifiche dei banchieri, degli assicuratori, o dei dirigenti dell'industria automobilistica, è diventato imbarazzante rispondere alla domanda più banale: chi li ha autorizzati? Chi ha messo la firma sotto quei contratti d'assunzione, approvando stipendi e bonus faraonici? Quei premi multimilionari elargiti a bancarottieri dovevano essere stati autorizzati dai consigli d'amministrazione, che a loro volta avrebbero dovuto risponderne agli azionisti, o no? Ma nella realtà i consigli d'amministrazione sono infarciti di "amici degli amici", sono dei club di dirigenti legati da solidarietà personali e antiche complicità. La superclasse del capitalismo ha delle logiche mafiose. Gli azionisti, teoricamente padroni, contano molto meno di quanto si creda.
Se n'è avuta una prova lampante quando lo Stato è diventato l'azionista di Aig, di molte banche, di colossi automobilistici: l'amministrazione Obama ha scoperto che, pur essendo proprietaria di un bel pezzo di capitalismo americano, il suo potere di tagliare gli stipendi ai top manager era limitato. Un'infinità di ostacoli di natura giuridica e contrattuale impedisce di smontare quei contratti già firmati e fa dei dirigenti delle figure garantite e protette, a differenza del lavoratore medio. I rappresentanti dello Stato - che sentivano montare la rabbia dei contribuenti - hanno dovuto faticare un bel po' per smantellare le impalcature erette in difesa dei privilegi dei capi-azienda. E' venuta alla luce una verità crudele: i supermanager non rispondono davvero neppure ai propri padroni, sono una casta autoreferenziale. E' lampante una contraddizione rispetto ai canoni fondamentali del capitalismo. Certo, al loro interno, le aziende non possono e non devono essere democratiche, l'organizzazione del lavoro esige il rispetto del principio di autorità. Esiste però una sfera di rapporti dove l'impresa si proclama democratica: è la cosidetta democrazia azionaria, il principio che ogni azione vale come un voto. Quel principio è stato oltraggiato impunemente per anni. Tralasciamo pure l'illusione che possano contare i piccoli soci, troppo frammentati e disorganizzati. Ma neppure azionisti come i potenti fondi pensione americani, che posseggono consistenti quote del capitale nelle grandi aziende, hanno potuto esercitare il proprio diritto di controllo sui dirigenti.
Perfino dopo aver inflitto perdite immani all'economia mondiale, i vertici delle banche semi-nazionalizzate hanno continuato a difendere gli alti stipendi della loro categoria con una teoria sfacciata: la "caccia al talento". Tagliare drasticamente le remunerazioni - hanno spiegato i capi di Aig dopo che lo Stato aveva ripianato le loro perdite diventandone socio di maggioranza - vuol dire esporsi a una fuga di talenti: i più bravi andranno a lavorare altrove, mentre c'è ancora bisogno di loro per risanare il colosso assicurativo. Proprio perchè membri di un club di privilegiati molto autoreferenziale, non si sono interrogati sulla natura del "talento" che aveva portato l'azienda al fallimento.
Il capitalismo industriale e finanziario ha ricevuto una lezione di realismo da Hollywood, un mondo che di solito associamo con i sogni. In conseguenza della recessione le grandi case cinematografiche si sono messe d'accordo per tagliare i cachet delle superstar. Con tutto il rispetto per i talenti artistici di Julia Roberts e di Brad Pitt, se i produttori cinematografici concordano una manovra comune di abbassamenti dei compensi, che possono fare le star miliardarie? Emigrare in massa per lavorare altrove? E dove troverebbero compensi più generosi? A Bollywood, in India? A cinecittà? La teoria del "talento" dei manager è stata la copertura per giustificare privilegi esorbitanti, in un sistema che aveva perso ogni legame con la realtà.
La fine dell'impostura ideologica dei capi-azienda ispira al Financial Times una conclusione "rivoluzionaria": "non si tratta soltanto di sostituira la logica del profitto di breve termine con una nuova visione strategia proiettata sul lungo periodo. Occorre anche allargare l'attenzione ad altri temi: l'ambiente, la tutela dei consumatori, l'impatto delle imprese su tutta la società che le circonda"."
da "Le dieci cose che non saranno più le stesse" di Federico Rampini
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